ELSE – Edizioni Libri Serigrafici E altro…Roma

ELSE – Edizioni Libri Serigrafici E altro… propone atelier di stampa serigrafica per la realizzazione di libri fatti a mano con bambini e genitori, insegnanti ed educatori, giovani e adulti, artisti e illustratori.

else Un percorso intorno al libro come avventura, spazio concreto tra la copertina e le pagine: testa, pancia, piedi e dorso. I libri come segni da cogliere: impronte nel passato, tracce del presente, visioni sul futuro. Piccole e grandi opere da realizzare e poi tenere tra le mani e dentro gli occhi. Storie da raccontare, stampare e rilegare attraverso un fare artigianale, con l’intelligenza delle mani e strumenti “conviviali” alla portata di tutti. La serigrafia è la tecnica, la macchina serigrafica è lo “strumento conviviale”. Conviviale perché esalta l’energia e l’immaginazione personale e di gruppo, estende il raggio d’azione di ciascuno all’interno di una dimensione creativa e lavorativa. Pensare e fare un libro è dunque un modo di “fare arte” ovverola ricerca di quella condizione espressiva in cui l’uomo si ritrova ogni volta che vuole condividere con altri i propri sentimenti. E’ questo sentirsi uniti che crea in piccolo una comunità di fatto.

LUDUS: una mappa delle scuole alternative spagnole

LUDUS: una mappa delle scuole alternative spagnole

 

¿Qué es Ludus?

Ludus es un directorio de educación alternativa en España. Hemos optado por incluir cualquier proyecto que suponga una alternativa a la pedagogía oficial, por lo que se muestran opciones muy diversas: escuelas libres, escuelas bosque, escuelas Waldorf, asociaciones dedicadas al estudio y divulgación, colegios públicos que en parte o totalmente están adoptando alguna de estás pedagogías, etc. Y para los más peques, grupos de crianza y madres de día.

Aquí podréis encontrar un listado de proyectos en vuestra zona; después, dependerá de vosotr@s decidir el más adecuado para vuestr@ hij@. En la web de cada proyecto podréis leer más sobre su pedagogía, ideario, horarios, etc. En cualquier caso, lo más recomendable es que vayáis a conocerles. Muchas escuelas realizan jornadas de puertas abiertas u os permitirán visitarles para ver las instalaciones y poder hablar con sus responsables.

En Ludus no conocemos directamente más que a una pequeña parte de las escuelas listadas, por lo que no podemos recomendaros unas más que otras. Por eso, insistimos en la necesidad de conocerlas de primera mano para poder elegir la más adecuada. Lo que en su web puede parecer fantástico o la maravillosa experiencia que os pueda relatar una madre no tiene por qué coincidir realmente con vuestras expectativas. Incluso entre escuelas con una misma metodología pueden darse grandes diferencias.

Danilo Dolci nel ricordo dei figli – da “Una città”

intervista ai figli di Danilo Dolci

da Una Città, rivista

TROVATELLI, FIGLI DI CARCERATI, I FAMOSI “CUGINI”
Un padre rigoroso, schietto, lavoratore instancabile, ma anche capace di giocare e divertirsi come un bambino con i figli; le passeggiate al mare all’alba, le gite in macchina per vedere come procedeva la diga; poi i digiuni, le manifestazioni, ma anche la paura che gli succedesse qualcosa; La “maieutica reciproca”, quella passione per le domande, che alimentava, anche nei figli, una curiosità inesauribile per la vita. Il ricordo di Danilo Dolci dei figli Libera, Amico, Chiara ed En.

Li­be­ra, Ami­co, Chia­ra ed En so­no fi­gli di Da­ni­lo Dol­ci e vi­vo­no a Pa­ler­mo.

La vo­stra era una fa­mi­glia nu­me­ro­sa già pri­ma che na­sce­ste…
Ami­co. La mam­ma ha in­con­tra­to pa­pà che già era ve­do­va con cin­que fi­gli. Era an­da­ta con la so­rel­la a la­vo­ra­re su al “Bor­go” co­me vo­lon­ta­ria. Lei fi­ni­va di sti­ra­re le co­se per i bam­bi­ni mol­to tar­di e pa­pà in­ve­ce si al­za­va pre­stis­si­mo per scri­ve­re, leg­ge­re, ec­ce­te­ra, co­sì fi­ni­va che a vol­te si in­con­tra­va­no. Si so­no co­no­sciu­ti, sti­ma­ti, in­na­mo­ra­ti e spo­sa­ti. Li­be­ra è sta­ta la pri­ma bam­bi­na do­po i cin­que fi­gli di Vin­cen­zi­na, ed è sta­ta una fe­sta per tut­to il pae­se. Beh, non pro­prio per tut­ti… il pre­te non li vo­le­va nean­che spo­sa­re!
Per­ché? Ma per­ché i rap­por­ti con una cer­ta Chie­sa era­no mol­to dif­fi­ci­li: era un mon­do po­co evan­ge­li­co e mol­to col­lu­so con la ma­fia; que­ste co­se si sa­pe­va­no e so­no or­mai ap­pu­ra­te.
Tra i pri­mi ri­cor­di del­la mia in­fan­zia c’è que­st’or­ti­cel­lo che ave­va­mo e che si an­naf­fia­va di se­ra. Ec­co, a par­te le con­ver­sa­zio­ni, la lu­na che ci te­ne­va com­pa­gnia, c’e­ra in sot­to­fon­do la mu­si­ca di Ba­ch. In ca­sa c’e­ra­no que­sti vec­chi gram­mo­fo­ni con i di­schi che du­ra­va­no non più di sei, set­te mi­nu­ti per la­to, per cui o Tu­ri, o Lu­cia­no, in­som­ma un bam­bi­no do­ve­va sta­re di tur­no e da­re la mol­la al gi­ra­di­schi. Que­sto con­tra­sto tra la mi­se­ria e la poe­sia, la mu­si­ca, l’ho sem­pre tro­va­to af­fa­sci­nan­te. Per me è sem­pre sta­ta un’im­ma­gi­ne bel­lis­si­ma. Ci si fa­ce­va for­za an­che gra­zie a que­ste co­se.
Poi ri­cor­do che la gen­te era sem­pre lie­ta, con­ten­ta di par­te­ci­pa­re al­le ma­ni­fe­sta­zio­ni, an­che se al­l’o­ri­gi­ne c’e­ra­no pro­ble­mi gra­vi: il bi­so­gno di scuo­le nuo­ve, l’o­spe­da­le, la fo­gna­tu­ra; ogni vol­ta, in quel­le oc­ca­sio­ni, ri­ve­de­va­mo gen­te fan­ta­sti­ca: Lu­cio Lom­bar­do Ra­di­ce, Car­lo Le­vi, Er­ne­sto Trec­ca­ni, as­sie­me a gen­te sem­pli­cis­si­ma e noi bam­bi­ni che ma­ga­ri, as­sie­me a Fran­co Ala­sio, ave­va­mo aiu­ta­to a di­pin­ge­re i car­tel­lo­ni con le ri­ven­di­ca­zio­ni, era­va­mo con­ten­ti di sta­re as­sie­me a gen­te so­li­da­le e al con­tem­po gio­via­le.
Mi ri­cor­do l’at­mo­sfe­ra qua­si di fe­sta e che do­po chie­de­va­mo con­to sia a Fran­co che a pa­pà: “Al­lo­ra, è ser­vi­to?”. Al tem­po del­la di­ga cen­ti­na­ia e cen­ti­na­ia di per­so­ne ave­va­no bloc­ca­to il can­tie­re per evi­ta­re ci fos­se­ro in­fil­tra­zio­ni, col­lu­sio­ni con la ma­fia, e il sin­da­ca­to, con die­tro il cen­tro stu­di, in­ter­rom­pe­va i la­vo­ri; per noi an­che que­sto era una fe­sta: an­da­re as­sie­me agli ope­rai la se­ra tar­di, dor­mi­re un po’ co­me si po­te­va, in qual­che bran­di­na. An­che fa­re i di­giu­ni. For­se chia­mar­li di­giu­ni è un po’ pre­sun­tuo­so, ma per bam­bi­ni di set­te, ot­to an­ni non man­gia­re a pran­zo per so­li­da­rie­tà era im­pe­gna­ti­vo. Ri­cor­do tan­tis­si­mi ope­rai, tan­tis­si­mi an­zia­ni che re­si­ste­va­no, lo­ro di­giu­na­va­no per quat­tro, cin­que gior­ni; e que­sto ha con­sen­ti­to di por­ta­re avan­ti i la­vo­ri del­la di­ga in ma­nie­ra as­so­lu­ta­men­te pu­li­ta.
Ri­cor­do che pa­pà ci chie­de­va se im­ma­gi­na­va­mo già il la­go in quel­la par­te di cam­pa­gna do­ve tal­vol­ta an­da­va­mo a pas­seg­gia­re e io den­tro di me pen­sa­vo: “Ce ne vuo­le di fan­ta­sia per ve­de­re un la­go qua!”, era emo­zio­nan­te ve­der cre­sce­re la di­ga con que­sti ca­mion­ci­ni che in lon­ta­nan­za sem­bra­va­no gio­cat­to­li a mo­vi­men­ta­re la ter­ra. Fa­ce­va­mo an­che del­le gi­te in mac­chi­na per ve­de­re quan­do si co­min­cia­va­no a chiu­de­re le sa­ra­ci­ne­sche e il ri­ga­gno­lo di­ven­ta­va un fiu­mi­cel­lo, e poi si al­za­va il li­vel­lo di que­sta gran­de poz­zan­ghe­ra che via via di­ven­ta­va un la­go e som­mer­ge­va le abi­ta­zio­ni. Quel ri­sul­ta­to, co­sì de­si­de­ra­to, ha con­tri­bui­to a crea­re in tut­ti noi la con­vin­zio­ne che cia­scu­no può, da so­lo o in­sie­me ad al­tri, pen­sa­re, in­ven­ta­re, or­ga­niz­za­re, e poi ve­de­re rea­liz­za­te cer­te co­se. Per me è qua­si una ga­ran­zia: se si vuo­le, se si cer­ca­no le giu­ste stra­de e le giu­ste mo­da­li­tà, il suc­ces­so è as­si­cu­ra­to.
Li­be­ra, tu sei la pri­mo­ge­ni­ta.
Li­be­ra. So­no la pri­ma del se­con­do round, di­cia­mo co­sì. De­vo an­che su­bi­to di­re che que­sto es­se­re la pri­ma di cin­que (e poi di set­te) fi­gli, se da un la­to mi ha re­spon­sa­bi­liz­za­to, dal­l’al­tro mi ha mol­to gra­ti­fi­ca­to, per­ché so­prat­tut­to pa­pà -la mam­ma era un po­chi­no più ri­ser­va­ta- non per­de­va oc­ca­sio­ne per far­mi sen­ti­re im­por­tan­te. Ec­co, que­sta sua at­ten­zio­ne, que­sto pren­der­si cu­ra dei più pic­co­li, di chi è più fra­gi­le mi è ri­ma­sto nel­la vi­ta; non a ca­so ho scel­to di fa­re l’in­se­gnan­te del­la scuo­la d’in­fan­zia.
Co­mun­que è ve­ro: sia­mo na­ti in una fa­mi­glia nu­me­ro­sa e io sin­ce­ra­men­te mi so­no sen­ti­ta ac­col­ta da un’af­fet­ti­vi­tà in­cre­di­bi­le che an­co­ra og­gi mi por­to den­tro. Io ero la pri­ma fem­mi­nuc­cia. Ma­schi era­no i fi­gli del­la mam­ma, e ma­schi era­no i ra­gaz­zi che mio pa­dre ave­va rac­col­to, fi­gli di car­ce­ra­ti, ecc., i fa­mo­si “cu­gi­ni”. Poi c’e­ra­no le zie, mol­to le­ga­te al­la mam­ma, so­prat­tut­to per la sua vi­cen­da: ve­do­va gio­va­nis­si­ma e con cin­que fi­gli.
Che ti­po di pa­dre era Da­ni­lo Dol­ci?
Li­be­ra. Era un pa­dre a vol­te se­ve­ro, o me­glio ri­go­ro­so, e mol­to fran­co. Per esem­pio, a 11 an­ni -non lo di­men­ti­che­rò mai- mi dis­se: “Ma Li­be­ra, se con­ti­nui a com­por­tar­ti co­sì, c’è il ri­schio che da gran­de di­ven­ti fa­sci­sta”. A 11 an­ni!
Per­ché co­sa ave­vi fat­to?
Li­be­ra. Per­ché vo­le­vo fa­re co­me fa­ce­va­no le mie com­pa­gnet­te, in­som­ma mi sta­vo com­por­tan­do co­me le pe­co­re, sen­za pen­sa­re con la mia te­sta, au­to­no­ma­men­te, fa­cen­do­mi tra­sci­na­re. È sta­to un col­po, pe­rò poi quel­la fra­se me la so­no di­ge­ri­ta, rie­la­bo­ra­ta, e ne ho ca­pi­to il sen­so. Ec­co, pa­pà pre­fe­ri­va es­se­re di­ret­to, chia­ro, dir­ti le co­se co­me le sen­ti­va.
En in­ve­ce è l’ul­ti­mo na­to.
Li­be­ra. Sì, io so­no la pri­ma, poi Cie­lo, Ami­co, Chia­ra, Da­nie­la, e in­fi­ne Se­re­no ed En, che so­no fi­gli di Elè­na.
Ave­te tut­ti no­mi mol­to par­ti­co­la­ri.
En. Tut­ti i no­stri no­mi so­no bel­lis­si­mi. Nel mio c’è pro­prio la cu­rio­si­tà di pa­pà. In quel pe­rio­do, la mam­ma e il pa­pà era­no in un’i­so­lot­to sve­de­se che si chia­ma Go­tland e pa­pà, con la sua estre­ma cu­rio­si­tà, chie­de­va i no­mi del­le co­se. A un cer­to pun­to ha vi­sto que­sto al­be­ro di gi­ne­pro e ne ha chie­sto il no­me. La mam­ma ha det­to: “En”. Lui è ri­ma­sto col­pi­to, gli è pia­ciu­to quel no­me, co­sì cor­to, for­te; vo­le­va sa­per­ne di più. En si­gni­fi­ca “uno” e al­lo­ra lui lo col­le­ga­va a qual­co­sa di in­te­ro, che non era rot­to e co­sì ha det­to: “Mi pia­ce, sa­reb­be un bel no­me”; un’i­dea su­bi­to con­di­vi­sa dal­la mam­ma.
Pa­pà mi ha tra­smes­so una cu­rio­si­tà per la vi­ta im­men­sa. Il suo era co­me un con­ti­nuo in­naf­fia­re at­tra­ver­so le do­man­de, ec­co la ma­ieu­ti­ca; que­sto poi ti aiu­ta­va a cer­ca­re in te stes­so ma an­che fuo­ri. Da pic­co­lo da­vo tut­to que­sto un po’ per scon­ta­to, poi con gli an­ni mi so­no ac­cor­to che non fun­zio­na co­sì; an­che an­dan­do a scuo­la mi so­no tro­va­to a pen­sa­re che que­sto in­ve­ce è il me­to­do che bi­so­gna ap­pli­ca­re sem­pre: non si do­vreb­be­ro im­por­re del­le in­for­ma­zio­ni, ben­sì ascol­ta­re il bi­so­gno che si ha di fron­te, per poi ve­de­re as­sie­me che co­sa si può sco­pri­re.
Era un la­vo­ra­to­re in­stan­ca­bi­le.
Chia­ra. Si vi­ve­va tut­to in ma­nie­ra in­ten­sa con pa­pà, an­che il rap­por­to con il la­vo­ro: lui si al­za­va al mat­ti­no pre­stis­si­mo. È sta­to un gran­dis­si­mo esem­pio per noi, an­che se io ho avu­to spes­so pau­ra per lui. Sa­pe­va­mo che c’e­ra una cer­ta do­se di pe­ri­co­lo, era­va­mo sta­ti pre­pa­ra­ti: non po­te­va­mo se­gui­re chiun­que ci vo­les­se in­vi­ta­re; il nu­me­ro del te­le­fo­no di ca­sa era se­gre­to, non lo da­va­mo e noi stes­si lo usa­va­mo so­lo per emer­gen­za.
An­che se era già sta­to mi­nac­cia­to, l’uf­fi­cio di pa­pà era sem­pre aper­to a tut­ti e chiun­que po­te­va en­tra­re, . Sic­co­me io an­da­vo a scuo­la il po­me­rig­gio, la mat­ti­na gli por­ta­vo la co­la­zio­ne. Pa­pà usci­va al­le quat­tro, a vol­te an­che pri­ma, e al­lo­ra, so­prat­tut­to d’in­ver­no, do­po qual­che ora ma­ga­ri ave­va bi­so­gno di qual­co­sa di cal­do. Al­lo­ra, ver­so le ot­to gli por­ta­vo mez­zo fi­lon­ci­no, un pez­zet­ti­no di pa­ne fre­sco e un ther­mos con un po’ di caf­fe­lat­te, e ogni vol­ta ero ter­ro­riz­za­ta per­ché le por­te era­no aper­te… Ave­va­mo vi­sto que­sti film sul­la ma­fia e mi era­no ri­ma­ste im­pres­se quel­le im­ma­gi­ni; co­sì quan­do en­tra­vo di­ce­vo: “Pa­pà? Pa­pà?”, e lui: “So­no qui amo­riz­za, so­no qui”. Quan­do lo sen­ti­vo po­te­vo ti­ra­re il fia­to, pen­sa­vo: “È an­da­ta be­ne an­che og­gi”.
È una co­sa che non gli ho mai det­to e che non ho rac­con­ta­to a nes­su­no, ma ero ve­ra­men­te ter­ro­riz­za­ta. Pen­sa­vo di es­se­re io trop­po ap­pren­si­va, poi mi ver­go­gna­vo, e co­mun­que non po­te­vo dir­lo, per­ché era una co­sa ne­ces­sa­ria, era giu­sto far­lo.
Dal­l’al­tra par­te fa­ce­va­mo tan­tis­si­me co­se bel­le as­sie­me: an­da­va­mo al ma­re a fa­re le pas­seg­gia­te, sul­le mon­ta­gne di Al­ca­mo a ve­de­re i ci­cla­mi­ni e i fio­ri che al­tri bam­bi­ni non ave­va­no la pos­si­bi­li­tà di ve­de­re. Pen­sa che a Par­ti­ni­co, che di­sta dal ma­re cir­ca ot­to chi­lo­me­tri, i com­pa­gni di clas­se non ave­va­no mai vi­sto il ma­re, in­ve­ce noi ci an­da­va­mo re­go­lar­men­te. A ca­sa di pa­pà non esi­ste­va la pa­ro­la va­can­za, per­ché era un tut­t’u­no: si la­vo­ra­va in­ten­sa­men­te, si fa­ce­va­no le ore di stu­dio, an­che a Na­ta­le e a Ca­po­dan­no e poi pe­rò si an­da­va al ma­re. Si stu­dia­va an­che la do­me­ni­ca. Pa­pà di­ce­va sem­pre: “I fi­gli dei con­ta­di­ni non fan­no va­can­za”.
Li­be­ra. Da un cer­to mo­men­to in poi, io ave­vo co­min­cia­to ad an­da­re con lui al­le quat­tro di mat­ti­na. Il pen­sie­ro di sta­re con pa­pà per me era bel­lis­si­mo. Lun­go il per­cor­so guar­da­va­mo le stel­le, pren­de­va­mo i gior­na­li, che a quel­l’o­ra ar­ri­va­va­no da Pa­ler­mo, lui mi rac­con­ta­va del­le sue co­se, io del­le mie… Poi lui la­vo­ra­va e io stu­dia­vo. A me pia­ce­va mol­tis­si­mo scri­ve­re, ero ap­pas­sio­na­ta dei clas­si­ci e lui mi ha in­se­gna­to tan­te co­se, in­fat­ti al li­ceo nei te­mi pren­de­vo die­ci. E tut­ti a di­re: “Hai un do­no di na­tu­ra, l’hai ere­di­ta­to da tuo pa­dre”. E io tra me e me a pen­sa­re: “Ma qua­le do­no?! Me lo so­no su­da­to!”. Per­ché die­tro c’e­ra tan­to la­vo­ro fat­to con pa­pà, la­vo­ro di scrit­tu­ra, di guar­da­re in­sie­me il fra­seg­gio, ma an­che di stu­dio dei te­sti. La mia in­se­gnan­te di Let­te­re ad esem­pio spie­ga­va Dan­te in una ma­nie­ra che me lo ha re­so in­sop­por­ta­bi­le. L’ho ri­sco­per­to con pa­pà. Lui mi ci­ta­va a me­mo­ria dei ver­si, fa­cen­do il vo­cio­ne quan­do im­per­so­na­va Cer­be­ro… Era mol­to gio­che­rel­lo­ne. I li­bri che ab­bia­mo let­to, nel­la no­stra ado­le­scen­za e fan­ciul­lez­za, non li ab­bia­mo mai let­ti per con­to del­la scuo­la, an­zi. La scuo­la un po­co ci li­mi­ta­va. Lui, co­me di­ce­va be­ne En, ci ha pro­prio in­se­gna­to la cu­rio­si­tà.
Vi trat­ta­va da gran­di.
Chia­ra. Da pic­co­li mi ri­cor­do che ognu­no ave­va una pro­pria scri­va­nia; io e Da­nie­la di­vi­de­va­mo la stan­za e Li­be­ra ave­va la stan­za da so­la. Ci di­ce­va: “Ades­so ave­te del tem­po a di­spo­si­zio­ne, ognu­no lo usi per sé, per pen­sa­re”. Io ero mol­to pic­co­la e mi di­ce­vo: “Be­ne, ades­so de­vo pen­sa­re, ma a co­sa de­vo pen­sa­re?!”.
An­che nel­la quo­ti­dia­ni­tà, ognu­no ave­va un pro­prio com­pi­to in ca­sa.
No­no­stan­te tut­ti gli im­pe­gni era mol­to pre­sen­te co­me pa­dre.
Chia­ra. Sì, e gio­ca­va mol­to con noi.
Li­be­ra. Pe­rò le re­go­le era­no chia­re. E non ve­ni­va­no nean­che det­te, ve­ni­va­no agi­te. An­che il fat­to che noi fos­si­mo ma­schi e fem­mi­ne non si­gni­fi­ca­va nien­te, ri­spet­to al fat­to che a tur­no la­va­va­mo i piat­ti, a tur­no ap­pa­rec­chia­va­mo, e ognu­no si fa­ce­va il pro­prio let­to. Non è che lui o la mam­ma ci di­ces­se: “Og­gi ri­fa­te il let­to”, o: “Og­gi la­vi i piat­ti”, era­no, co­me po­trei chia­mar­le, del­le re­go­le im­pli­ci­te che noi ave­va­mo ap­pre­so at­tra­ver­so il lo­ro esem­pio. Que­sto ov­via­men­te non si­gni­fi­ca che fos­si­mo fe­li­ci e con­ten­ti di la­va­re i piat­ti, so­prat­tut­to per 30-40 per­so­ne, as­so­lu­ta­men­te no! Pe­rò poi è di­ven­ta­to un ha­bi­tus, uno sti­le di vi­ta.
C’e­ra sem­pre que­sto “ri­go­re”, ma poi lui era il pri­mo che, per esem­pio, si met­te­va sot­to il ta­vo­lo e imi­ta­va il ca­ne, men­tre chie­de­va a me di imi­ta­re la muc­ca e a mia so­rel­la Chia­ra di imi­ta­re un’a­mi­ca no­stra che ve­ni­va dal­la Sve­zia. In­som­ma ci di­ver­ti­va­mo tan­to. An­che al ma­re, noi ab­bia­mo im­pa­ra­to su­bi­to a nuo­ta­re, al­lo­ra lui fa­ce­va da tram­po­li­no e ci fa­ce­va fa­re i tuf­fi… e poi ci rac­con­ta­va­mo le bar­zel­let­te, so­prat­tut­to Ami­co ne in­ven­ta­va… E poi la mu­si­ca: ne fa­ce­va­mo di tut­ti i co­lo­ri, bat­ten­do co­per­chi, sfre­gan­do grat­tu­gie, e lui era il pri­mo a di­ver­tir­si.
Chia­ra. Spes­so non c’e­ra per­ché viag­gia­va tan­tis­si­mo, ma quan­do c’e­ra era mol­to pre­sen­te. Quan­do ab­bia­mo co­min­cia­to a fa­re mu­si­ca, ve­ni­va a tut­te le le­zio­ni per­ché era in­te­res­sa­tis­si­mo. Pen­so che a que­sta co­sa ci te­nes­se in mo­do par­ti­co­la­re, che fa­ces­si­mo mu­si­ca. Ri­cor­do che al­le me­die, quan­do tor­na­vo da scuo­la, lo tro­va­vo che ri­po­sa­va un po­co pri­ma di ri­tor­na­re al la­vo­ro al cen­tro e al­lo­ra mi di­ce­va: “Suo­nia­mo in­sie­me”, e cer­te vol­te io mo­ri­vo di fa­me, pe­rò poi, cre­scen­do, ri­pen­san­do­ci mi so­no det­ta: “Ma chi glie­lo fa­ce­va fa­re di de­di­ca­re tem­po a una ra­gaz­zi­na prin­ci­pian­te con il suo vio­li­no?”.
Lui che stru­men­to suo­na­va?
Chia­ra. L’or­ga­no. Ave­va stu­dia­to con l’or­ga­ni­sta al Duo­mo di Mi­la­no. Lui ci te­ne­va tan­tis­si­mo a far mu­si­ca. Ri­cor­do che cer­te mat­ti­ne con la mam­ma an­da­va­mo a fa­re la spe­sa e pas­sa­va­mo da­van­ti a que­sta chie­sa do­ve pa­pà ave­va il per­mes­so di an­da­re ogni tan­to a suo­na­re l’or­ga­no… era im­pres­sio­nan­te sen­ti­re que­sto suo­no im­men­so. Era bra­vo, ave­va an­che una buo­na pri­ma vi­sta. D’al­tra par­te in qual­sia­si co­sa si ci­men­tas­se lo fa­ce­va con gran­de im­pe­gno. A un cer­to pun­to ci fu una riu­nio­ne fa­mi­lia­re in cui si pre­se la de­ci­sio­ne di com­pra­re un or­ga­no con due ta­stie­re, elet­tri­co, co­sì lui ogni do­me­ni­ca mat­ti­na ci sve­glia­va con “La fu­ga di Ba­ch”. Era bra­vo per­ché suo­na­va pro­prio con la pe­da­lie­ra… i ve­tri vi­bra­va­no tut­ti!
Ri­guar­do lo stu­dio, era esi­gen­te?
Ami­co. Già al­la scuo­la ele­men­ta­re io ho avu­to al­ti e bas­si. In pri­ma ele­men­ta­re ave­vo que­sta mae­stra, qua­si non­na, una chioc­cia a cui io ero af­fe­zio­na­tis­si­mo. Uno de­gli epi­so­di che me l’a­ve­va­no fat­ta am­mi­ra­re tan­tis­si­mo è che un gior­no io son­nec­chia­vo vi­si­bil­men­te, pro­prio con la te­sta ap­pog­gia­ta a un brac­cio; son­nec­chia­vo, ma qual­co­sa sen­ti­vo; a un cer­to pun­to uno dei miei com­pa­gni di­ce: “Mae­stra, mae­stra, Dol­ci dor­me”, e io a pen­sa­re che mi avreb­be rim­pro­ve­ra­to e lei, in­ve­ce: “Sa­rà stan­co, la­scia­te­lo dor­mi­re!”. In se­con­da e ter­za ele­men­ta­re dei mae­stri tre­men­di, uno si­cu­ra­men­te fa­sci­sta che ci pic­chia­va con la bac­chet­ta. Un gior­no l’ho det­to a pa­pà che non ci cre­de­va. Era­va­mo a me­tà an­ni Ses­san­ta: pa­pà ven­ne a scuo­la e non so co­sa si sia­no det­ti, pe­rò non è mai più suc­ces­so. In quar­ta e quin­ta ele­men­ta­re in­ve­ce ave­va­mo un mae­stro gio­va­nis­si­mo, gra­zie al qua­le al­l’im­prov­vi­so tut­ta la clas­se era di­ven­ta­ta bra­vis­si­ma.
Era un ra­gaz­zo mo­ti­va­to, ave­va fat­to la scel­ta del me­stie­re per pas­sio­ne; al­l’i­ni­zio l’a­ve­va­mo pre­so un po’ per un ton­to­lo­ne, uno a cui po­te­va­mo fa­re di tut­to per­ché non ci rim­pro­ve­ra­va né ci pic­chia­va. In­ve­ce era bra­vis­si­mo, ci ap­pas­sio­na­va. Usa­va il re­gi­stra­to­re per in­se­gnar­ci la sto­ria. Io un gior­no ero di­ven­ta­to Lui­gi XVI e c’e­ra la com­pa­gnet­ta che fa­ce­va la re­gi­na e poi ascol­ta­va­mo que­ste no­stre re­gi­stra­zio­ni e lui fa­ce­va il ga­lop­po del ca­val­lo e gli al­tri suo­ni, in­cre­di­bi­le! Quan­do ci in­ter­ro­ga­va sa­pe­va­mo tut­to. Poi ci fa­ce­va fa­re del­le co­suc­ce in le­gno, pian­ta­re i se­mi­ni e ci spie­ga­va co­me fun­zio­na­va­no le fo­glie; era un pic­co­lo la­bo­ra­to­rio.
Al­la scuo­la me­dia pun­to e a ca­po: non mi en­tu­sia­sma­va. Poi c’e­ra il fat­to del­l’e­so­ne­ro dal­la re­li­gio­ne. Pa­pà avreb­be do­vu­to ve­ni­re a scuo­la; fi­gu­ra­ti! An­da­va a la­vo­ra­re sem­pre più pre­sto, tor­na­va a ca­sa al­le un­di­ci per man­gia­re e ri­po­sa­re per tre quar­ti d’o­ra. Pen­sa che quan­do si al­za­va, si ri­fa­ce­va la bar­ba per­ché or­mai la pri­ma gior­na­ta era an­da­ta via, e tor­na­va in uf­fi­cio.
Un gior­no lo ve­do che spun­ta con il gior­na­le: “Do­v’è che de­vo an­da­re?”. “Pa­pà ti ac­com­pa­gno”. In­con­tria­mo que­sta per­so­na che gli dà le istru­zio­ni: “Ec­co il mo­du­lo, scri­va qua, Il­lu­stris­si­mo Si­gnor Pre­si­de…”. “Ma qua­le il­lu­stris­si­mo, ma chi lo co­no­sce?!?”. Io te­me­vo suc­ce­des­se un dram­ma, in­ve­ce poi con il pre­si­de so­no di­ven­ta­ti ami­cis­si­mi.
Li­be­ra. Con que­sto fat­to di non es­se­re bat­tez­za­ti, a scuo­la ave­va­mo un po’ di dif­fi­col­tà con i com­pa­gnet­ti, ma so­prat­tut­to con i ge­ni­to­ri dei com­pa­gnet­ti. Mi ri­cor­do che ero in se­con­da me­dia, se­du­ta in ban­co con la mia ami­ca del cuo­re -a quel­l’e­tà le co­se ti ri­man­go­no den­tro, in­de­le­bi­li- e a un cer­to pun­to bus­sa­no al­la por­ta ed en­tra la mam­ma di que­sta ami­chet­ta, che di­ce da­van­ti a tut­ta la clas­se: “Pro­fes­so­res­sa, non c’a mit­tis­se ’a Dol­ci vi­ci­no a mi fig­ghia, per­ché lo­ro so­no por­ci”, per­ché il non es­se­re cri­stia­ni al­l’e­po­ca era una di­sgra­zia. Cin­quan­t’an­ni fa, a Par­ti­ni­co era­no que­ste le co­se im­por­tan­ti del­la vi­ta: il bat­te­si­mo, il ma­tri­mo­nio. Puoi im­ma­gi­na­re…
Ami­co. Per tor­na­re al­lo stu­dio, a me non in­te­res­sa­va un gran­ché, pe­rò in que­sto sen­ti­vo qua­si la com­pli­ci­tà di pa­pà. Mi di­ce­va: “Vab­bé, un po’ di pa­zien­za, fai il mi­ni­mo in­di­spen­sa­bi­le co­sì poi sei li­be­ro”.
Quan­do in­ve­ce mi so­no iscrit­to al con­ser­va­to­rio, nean­che mi ac­cor­ge­vo di quan­to tem­po pas­sas­si a stu­dia­re e a eser­ci­tar­mi. Il flau­to era pro­prio una pas­sio­ne. Da lì in poi pa­pà non si è più pre­oc­cu­pa­to, an­zi mi di­ce­va: “Vab­bé, ma non stu­dia­re trop­po!”.
Co­mun­que è ve­ro, con lui non esi­ste­va do­me­ni­ca o va­can­za. Per di­re, po­te­va ca­pi­ta­re di an­da­re al ma­re an­che al­le quat­tro di mat­ti­na, per­ché pa­pà ave­va quel­la gior­na­ta li­be­ra e lo po­te­va fa­re.
Ami­co. Al­le quat­tro il ma­re è cal­mo e al­le no­ve, quan­do si fa­ce­va gros­so, si rien­tra­va.
Chia­ra. Ave­va­mo an­che il ri­to del pri­mo ba­gno, che si fa­ce­va a Pa­squa: qua­lun­que fos­se il tem­po si fa­ce­va il ba­gno, an­che in mez­zo ai ful­mi­ni.
Ami­co. Que­sto pia­ce­re di sta­re tut­ti al ma­re o in cam­pa­gna, ma an­che in mon­ta­gna, era qual­co­sa di estra­neo ai no­stri com­pa­gni di scuo­la; per lo­ro la cam­pa­gna era sol­tan­to il la­vo­ro, la fa­ti­ca… Ri­cor­do che al­le ele­men­ta­ri do­vet­ti an­ch’io fa­re il te­ma “Il la­vo­ro del mio bab­bo”. A par­te che io non ave­vo ca­pi­to cer­ti vo­ca­bo­li, co­me “so­cio­lo­go”, co­mun­que non sa­pe­vo de­scri­ve­re l’at­ti­vi­tà di pa­pà; in­vi­dia­vo il fi­glio del fa­le­gna­me, del ma­cel­la­io, del far­ma­ci­sta, e quin­di ero ar­ri­va­to al­la con­clu­sio­ne: “Pa­pà è uno che aiu­ta gli al­tri…”, ma que­sto è un me­stie­re?
Chia­ra. Da pa­pà ab­bia­mo im­pa­ra­to un gran­de ri­spet­to per i con­ta­di­ni e per tut­te le per­so­ne che la­vo­ra­no du­ra­men­te. Ri­cor­do que­sto pe­sca­to­re che era sta­to in Ala­ska e che ave­va una straor­di­na­ria co­no­scen­za del cie­lo e pa­pà gli ave­va fat­to or­ga­niz­za­re un se­mi­na­rio sul­le stel­le.
Ami­co. Per pa­pà quel­lo che con­ta­va era di fa­re be­ne le co­se; ci di­ce­va sem­pre: “Qual­sia­si co­sa, io so­no con voi”. Po­te­va con­di­vi­de­re qual­sia­si scel­ta, di stu­dio, di vi­ta, pur­ché fa­ces­si­mo le co­se al me­glio.
Chia­ra. Per lui con­ta­va­no l’im­pe­gno, la pre­pa­ra­zio­ne se­ria e ap­pro­fon­di­ta; il di­plo­ma, il pez­zo di car­ta era­no pro­prio una co­sa che non gli in­te­res­sa­va per nien­te.
Che rap­por­ti ave­va­te con i fi­gli del pri­mo ma­tri­mo­nio di vo­stra ma­dre?
Ami­co. Ri­cor­do uno dei pri­mi Na­ta­li in cui era­va­mo “so­lo” noi, cioè i die­ci fi­gli di mam­ma e le pri­me fi­dan­za­ti­ne (ov­via­men­te coi ri­spet­ti­vi ge­ni­to­ri al­tri­men­ti non sa­reb­be­ro ve­nu­te!); era­va­mo tren­ta­due a ta­vo­la.
Ave­va­mo un ot­ti­mo rap­por­to con tut­ti. A me da­va mol­to fa­sti­dio, quan­do an­da­va­mo al­le scuo­le ele­men­ta­ri, sen­tir di­re “fra­tel­la­stri”. Noi poi ave­va­mo tan­tis­si­mi cu­gi­ni che in se­gui­to chie­den­do al­la mam­ma: “Ma in che sen­so Ti­zio è cu­gi­no no­stro?”, ab­bia­mo sa­pu­to che in ef­fet­ti non era­no cu­gi­ni, ma tro­va­tel­li, or­fa­ni, che te­ne­va­no al “Bor­go”… Ri­guar­do ai fi­gli di Vin­cen­zi­na, io ho sem­pre avu­to un rap­por­to più per­so­na­le con il più gran­de, Tu­ri, e con il più pic­co­lo, Lu­cia­no; gli al­tri era­no in Sviz­ze­ra e in Ger­ma­nia; poi c’e­ra Pi­no, che è ve­nu­to a man­ca­re mol­to gio­va­ne. Con Lu­cia­no fac­cia­mo del­le co­se in­sie­me per il “Bor­go”, con gli al­tri ci sia­mo un po’ per­si di vi­sta. Ora pe­rò ab­bia­mo re­cu­pe­ra­to al­la Si­ci­lia En. Se­re­no è ri­ma­sto in Sve­zia.
Voi sie­te im­pe­gna­ti, so­prat­tut­to con il Cen­tro per lo Svi­lup­po Crea­ti­vo “Da­ni­lo Dol­ci”, a far co­no­sce­re quel suo me­to­do co­sì par­ti­co­la­re.
Ami­co. So­no pas­sa­ti se­di­ci an­ni da quan­do pa­pà non c’è più. Io ho avu­to un rap­por­to mol­to bel­lo con pa­pà, schiet­to, di­ret­to, sin­ce­ris­si­mo. Ci ha uni­to an­che la mu­si­ca, la poe­sia e in età adul­ta uno stret­to rap­por­to di col­la­bo­ra­zio­ne: ab­bia­mo fat­to mol­ti viag­gi in­sie­me per rac­co­glie­re fon­di, an­che al­l’e­ste­ro. Que­sto mi da­va la pro­por­zio­ne del suo im­pe­gno. Ab­bia­mo sem­pre sa­pu­to che nes­su­no di noi sa­reb­be sta­to in gra­do di fa­re ciò che fa­ce­va lui, an­che per la me­mo­ria che ave­va, per la sua ca­pa­ci­tà di ela­bo­ra­zio­ne, di met­te­re in re­te le per­so­ne, pe­rò il prin­ci­pio di met­ter­si in­sie­me, di pro­get­ta­re e rea­liz­za­re, an­che se con nuo­vi stru­men­ti, noi l’ab­bia­mo adot­ta­to e, per quan­to è pos­si­bi­le, og­gi lo ab­bia­mo mol­ti­pli­ca­to. Ve­den­do co­sa suc­ce­de­va a Par­ti­ni­co e a Trap­pe­to ne­gli an­ni 60, 70, il “Bor­go”, il cen­tro edu­ca­ti­vo di Mir­to, mi chie­de­vo -e ne par­la­vo an­che con pa­pà- quan­to con­tas­se il fat­to che ci fos­se una per­so­na ca­ri­sma­ti­ca, pro­prio aven­do pre­sen­te il ri­schio che do­po di lui po­tes­se crol­la­re tut­to. In­ve­ce quel­la mo­da­li­tà, quel­la ma­ieu­ti­ca re­ci­pro­ca, l’au­toa­na­li­si po­po­la­re de­gli an­ni Ses­san­ta, si è ri­ve­la­ta pie­na­men­te ri­pro­po­ni­bi­le an­che da par­te no­stra, an­che se ho im­pie­ga­to due an­ni a tro­va­re il co­rag­gio di pro­var­ci. Ades­so ho smes­so di suo­na­re; mi de­di­co a tem­po pie­no a tut­to que­sto, sen­za con­si­de­rar­lo né un van­to, né un ob­bli­go, né un’e­re­di­tà. L’ap­proc­cio è sem­pre: co­sa c’è da fa­re? In quan­ti sia­mo? Be­ne, rim­boc­chia­mo­ci le ma­ni­che. Po­ter por­ta­re avan­ti que­sta co­sa è una gran­dis­si­ma sod­di­sfa­zio­ne. Mi sa­reb­be di­spia­ciu­to mol­tis­si­mo che, non es­sen­do­ci più pa­pà e Fran­co Ala­sio, ri­ma­nes­se cer­to il ri­cor­do, l’am­mi­ra­zio­ne, e pe­rò che tut­to si fer­mas­se lì. In­ve­ce og­gi quel me­to­do vie­ne adot­ta­to in pae­si e con­te­sti com­ple­ta­men­te di­ver­si: Olan­da, Ger­ma­nia, Pa­le­sti­na.
Di­ce­vi che il me­to­do di Da­ni­lo Dol­ci è sta­to adot­ta­to per­fi­no dai po­li­ziot­ti olan­de­si. Puoi rac­con­ta­re?
Ami­co. Noi la­vo­ria­mo con tan­tis­si­me scuo­le, dal­le ele­men­ta­ri al­l’u­ni­ver­si­tà, ma so­prat­tut­to li­cei. Non ci pro­vo nean­che a spie­ga­re co­s’è il la­bo­ra­to­rio ma­ieu­ti­co, per­ché bi­so­gna far­ne espe­rien­za. Il fat­to è che, an­che mol­ti­pli­can­do le oc­ca­sio­ni, si ar­ri­va fi­no a un cer­to pun­to; ci in­te­res­sa­va la pos­si­bi­li­tà che qual­cu­no, in­con­tran­do­ci una pri­ma vol­ta, pro­get­tas­se in­sie­me a noi una se­rie di la­bo­ra­to­ri da pro­por­re poi ad al­tri, so­prat­tut­to nel­l’am­bi­to del­la for­ma­zio­ne de­gli adul­ti. Be­ne, ab­bia­mo fat­to un pro­get­to e nel gi­ro di due an­ni il ri­sul­ta­to è sta­to che, in Olan­da, un bra­vis­si­mo pro­fes­so­re di so­cio­lo­gia ha cam­bia­to il suo cor­so di stu­di con­cen­tran­do­lo sul­l’e­du­ca­zio­ne non vio­len­ta, quin­di Pao­lo Frei­re, Al­do Ca­pi­ti­ni, Ma­ria Mon­tes­so­ri e Da­ni­lo Dol­ci.
Co­sì ab­bia­mo sco­per­to che tra i suoi al­lie­vi c’e­ra un po­li­ziot­to che a sua vol­ta ha pro­po­sto di spe­ri­men­ta­re il me­to­do ma­ieu­ti­co ai suoi com­pa­gni del­la pat­tu­glia, del­la mo­bi­le. Ha det­to: “Ma per­ché non pro­via­mo an­che noi ad an­da­re in que­sto quar­tie­re dif­fi­ci­le e a chie­de­re a lo­ro co­sa si do­vreb­be fa­re”.
Me l’ha rac­con­ta­to per­so­nal­men­te. Ogni vol­ta che en­tra­va­no in que­sti quar­tie­ri, si ri­tro­va­va­no con la mac­chi­na de­va­sta­ta da pie­tra­te, spran­ga­te, ec­ce­te­ra. Ol­tre­tut­to non riu­sci­va­no a ge­sti­re la si­tua­zio­ne. Co­sì si so­no mes­si a chie­de­re ai ra­gaz­zi­ni, an­che di 12-13 an­ni: “Se suc­ce­de un gua­io, voi co­sa ci con­si­glia­te di fa­re? Co­sa pen­sa­te do­vrem­mo fa­re vi­sto che non va be­ne quel­lo che ab­bia­mo fat­to fi­no­ra?”. Que­sto ha ge­ne­ra­to in­tan­to il fat­to che do­po un pa­io di set­ti­ma­ne la mac­chi­na ri­ma­ne­va il­le­sa, non ave­va più bi­so­gno del car­roz­zie­re, ma le au­to­ri­tà, sen­ten­do que­ste re­la­zio­ni, han­no fi­nan­zia­to una spe­ri­men­ta­zio­ne per rea­liz­zar­lo nel­l’in­te­ra con­tea!
Que­st’an­no ave­te fe­steg­gia­to la ria­per­tu­ra del Bor­go di Trap­pe­to.
Ami­co. So­no due an­ni che tut­ti noi, an­che i fa­mi­lia­ri, ci stia­mo im­pe­gnan­do in que­sta co­sa. Il Cen­tro stu­di ave­va ven­du­to il “Bor­go” nel 1996, un an­no pri­ma che pa­pà non ci fos­se più. L’a­ve­va ac­qui­sta­to una coo­pe­ra­ti­va, che pe­rò non ha mai ot­te­nu­to i fi­nan­zia­men­ti per ri­strut­tu­rar­lo e quin­di sta­va an­dan­do in ro­vi­na. Noi ave­va­mo an­che pro­va­to a ca­pi­re se po­te­va­mo in qual­che mo­do in­ter­ve­ni­re, da­re una ma­no, ma sen­za ri­sul­ta­ti. A un cer­to pun­to ab­bia­mo sco­per­to che la coo­pe­ra­ti­va era fal­li­ta. Ma la ve­ra sor­pre­sa è sta­ta un’al­tra: sic­co­me il com­pro­mes­so di ven­di­ta non era sta­to com­ple­ta­to, gli av­vo­ca­ti han­no det­to che noi, in quan­to ere­di, era­va­mo ri­tor­na­ti in pos­ses­so del be­ne. Fi­gu­ra­ti, ci sia­mo su­bi­to det­ti: “Beh, al­lo­ra dob­bia­mo rim­boc­car­ci le ma­ni­che!”. Co­sì, gra­zie a un ban­do del­la “Fon­da­zio­ne con il Sud” che ha stan­zia­to una ci­fra im­por­tan­te, al Cen­tro per lo Svi­lup­po Crea­ti­vo “Da­ni­lo Dol­ci”, a Ce­sie, Li­be­ra e al Co­mu­ne di Trap­pe­to, l’ab­bia­mo re­stau­ra­to e ri­mes­so in fun­zio­ne e ora al bor­go tor­ne­ran­no a es­ser­ci in­con­tri e la­bo­ra­to­ri.
Gli ul­ti­mi an­ni di vo­stro pa­dre?
Chia­ra. Gli ul­ti­mi an­ni lui vi­ve­va da so­lo. Era sem­pre mol­to im­pe­gna­to. Se­re­no, a di­ciot­to an­ni, era ve­nu­to in Si­ci­lia, ave­va bi­so­gno di ri­tro­var­si, tro­va­re pa­pà, star­gli vi­ci­no. Si era iscrit­to al li­ceo ar­ti­sti­co. Quan­do pa­pà par­ti­va lui ve­ni­va a sta­re a ca­sa no­stra o a ca­sa di Li­be­ra.
Quan­do pa­pà c’e­ra gli pro­po­ne­va­mo: “Ve­nia­mo a tro­var­ti?”. Era­va­mo tut­ti mol­to li­be­ri, non c’e­ra il do­ve­re né del­la do­me­ni­ca, né del Na­ta­le. Lo chia­ma­va­mo: “Pa­pà, ti ve­nia­mo a tro­va­re, ci sei? Co­sa por­tia­mo? Pre­pa­ria­mo qual­che co­sa?”. “Che ne di­ci di un ri­sot­to?”. E co­sì ci si ri­tro­va­va.
Pa­pà poi al­la fi­ne ci di­ce­va gra­zie per es­se­re an­da­ti a tro­var­lo, di es­se­re sta­ti in­sie­me. Era­no qua­si sem­pre del­le riu­nio­ni: ognu­no rac­con­ta­va le ul­ti­me espe­rien­ze fat­te, si par­la­va di la­vo­ro. A vol­te gli chie­de­va­mo: “Pa­pà, hai bi­so­gno di qual­co­sa, pren­di me­di­ci­ne? Fai i con­trol­li?”. “No, no, tut­to a po­sto”. Sa­pe­va­mo che lui era mol­to for­te, ci fi­da­va­mo. Ab­bia­mo sba­glia­to.
Nel­l’ul­ti­mo pe­rio­do era an­da­to in Ci­na con Se­re­no e En. Quan­do è tor­na­to si è pre­so una bron­co­pol­mo­ni­te. Il fat­to è che non si cu­ra­va; noi a in­si­ste­re: “Pa­pà, vai, con­trol­la­ti… ti por­tia­mo in ospe­da­le”, “No, no, si ri­sol­ve!”. In­som­ma, si è tra­scu­ra­to. Poi lui non ce l’a­ve­va det­to, ma ave­va il dia­be­te. Al­la fi­ne la co­sa è di­ven­ta­ta più com­pli­ca­ta ed è pre­ci­pi­ta­ta.
Nel­l’ul­ti­mo pe­rio­do Li­be­ra e Ami­co si so­no de­di­ca­ti tan­tis­si­mo a lui, pro­prio fa­ce­va­no tur­ni di do­di­ci ore. Tur­ni este­nuan­ti per­ché lui pen­sa­va sem­pre e so­lo al la­vo­ro; in ospe­da­le fir­ma­va e se ne an­da­va, per­ché lui ave­va i suoi im­pe­gni…
Li­be­ra. Per lui il la­vo­ro si­gni­fi­ca­va in­con­tro con le per­so­ne e vo­le­va ri­spet­ta­re a tut­ti i co­sti gli im­pe­gni che ave­va pre­so.
Ami­co. For­se que­sto è sta­to l’u­ni­co gran­de ve­ro con­flit­to con pa­pà. Nel­l’ul­ti­mo an­no lui pro­prio non com­mi­su­ra­va l’im­pe­gno e il la­vo­ro che de­si­de­ra­va fa­re con le sue con­di­zio­ni di sa­lu­te. Co­sì, adot­tan­do una mo­da­li­tà che lui stes­so ci ave­va in­se­gna­to, in una riu­nio­ne noi fi­gli, tut­ti in­sie­me, ave­va­mo de­ci­so che lui non avreb­be fat­to un viag­gio se non do­po es­ser­si cu­ra­to, met­ten­do in at­to pro­prio una for­ma di “non col­la­bo­ra­zio­ne”. Lui un po’ lo ca­pi­va, e ca­pi­va con che af­fet­to lo fa­ce­va­mo, ma era più for­te di lui. Quel viag­gio non l’ha fat­to, ma ne ha fat­ti al­tri. Per due vol­te è usci­to dal­l’o­spe­da­le con la sua va­li­get­ta da so­lo, a pie­di, do­po es­ser­ci en­tra­to con l’am­bu­lan­za.
Chia­ra. Il 26 di­cem­bre 1997 c’è sta­ta una riu­nio­ne, un pran­zo di la­vo­ro in­sie­me al sin­da­co Gi­gia Can­niz­zo, e a Be­ne­det­to Ze­no­ne, a Par­ti­ni­co. È mor­to tre gior­ni do­po. Ma era an­co­ra nel pie­no del­l’im­pe­gno e del­la sua at­ti­vi­tà. In fon­do ave­va 73 an­ni, era gio­va­ne.
Ami­co. Lui fi­si­ca­men­te era mol­to for­te, fra l’al­tro da gio­va­ne era sta­to piut­to­sto spor­ti­vo. Ogni due-tre an­ni, fa­ce­va un ot­ti­mo check-up in Sviz­ze­ra o da qual­che al­tra par­te, per cui ca­la­va mol­to di pe­so, ri­pren­de­va ener­gie, era ve­ra­men­te un mo­to­re nuo­vo che ri­co­min­cia­va. Ma quel­la vol­ta pro­prio non ce l’ha fat­ta. È ve­ro, era gio­va­ne, pe­rò ha vis­su­to una vi­ta bel­lis­si­ma.
(a cu­ra di Bar­ba­ra Ber­ton­cin e Bet­ti­na Foa.
Per le fo­to rin­gra­zia­mo l’ar­chi­vio del Cen­tro
per lo svi­lup­po crea­ti­vo Da­ni­lo Dol­ci)

Non opprimere i figli con l’idea della scuola, di Natalia Ginzburg. 1960

Cos’è il “rendimento scolastico”?

Non opprimere i figli con l’idea della scuola (di Natalia Ginzburg)
copertinaAl rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio.Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni.In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati in un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell’energia e dell’impegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani. Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? (Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, pubblicato originariamente su “Nuovi Argomenti” nel 1960)

il Circolo dei Giovani Lettori di Levata (MN)

C’è un’attività che si svolge in sordina, nella sala civica di Levata, ma sarebbe degna di essere accolta con una fanfara, tanto è importante. Si tratta del circolo dei giovani lettori, del quale avevamo già parlato, e che, dopo un’estate di esperimenti, ha ripreso la sua piena attività dal 19 febbraio scorso.

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Salvare gli innocenti, una pedagogia per i tempi di crisi, di Goffredo Fofi. Un invito alla lettura, di A. Sola

Il vero centro di queste riflessioni è la denuncia della mancata assunzione di responsabilità da parte del “ceto pedagogico” di fronte ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, e l’affermazione di quella che può essere considerata la vera linea di confine per chi voglia agire per il bene comune: la scelta di mettere l’educazione al primo posto nella scala dei valori che determinano le scelte dell’agire politico.

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