FAHRENHEIT del 20/10/2014 – Conversazione con Franco Lorenzoni in occasione dell’uscita del libro “I bambini pensano grande”. Con una presentazione di G. Fofi

 

In quarta col maestro Franco

di Goffredo Fofi dal n.22 de “Gli Asini”

A pagina 225 della sua “cronaca di un’avventura pedagogica”
(I bambini pensano grande, Sellerio 2014) Franco Lorenzoni, il maestro elementare
di Giove (Terni) che ha ideato molti anni fa e continua a gestire insieme a Ro-
berta Passoni, maestra elementare anche lei, la Casa Laboratorio di Cenci luo-
go di resistenza e di incontro per chi sogna ancora una pedagogia all’altezza
dei suoi fini e delle sue esperienze di libertà, troviamo una citazione da
Corpo celeste
di Anna Maria Ortese che mi pare esprima il senso e la necessità di que-
sto libro: “Il ragazzo è solo. (…) Nella sua educazione, o nascita al mondo, è
mancato l’apporto della sua propria creatività. Egli ha trovato tutto già fatto.

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“La congiura contro i giovani”, di Stefano Laffi. Un intervento dell’autore e le recensioni

Guarda il video di presentazione di Stefano Laffi

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un intervento di Stefano Laffi

Pubblichiamo di seguito un intervento di Stefano Laffi, autore e ricercatore sociale presso l’Agenzia Codicidi Milano, uscito sull’ultimo numero della rivista Gli Asini (quest’anno insignita del premio Lo Straniero nella sezione riviste). Laffi fa una riflessione sul ruolo che hanno avuto i giovani nella vita politica e sociale degli ultimi mesi, sulle azioni, di cui si sono effettivamente resi protagonisti, nel tentativo di cambiare una realtà e una democrazia che non garantisce loro alcuna prospettiva e alcun futuro.

di Stefano Laffi

Dall’altra sponda del Mediterraneo sono scesi in piazza e hanno sovvertito regimi, con una rapidità e un’assenza di violenza mai immaginata e prevista dai nostri osservatori adulti ed esperti, da chi guardava quei paesi con la supponenza di vivere in democrazia, quindi in teoria più libero e più rappresentato da chi lo governa. In Spagna hanno invaso le strade per gridare lo scandalo di aver vent’anni e nulla in mano e nessuna prospettiva dopo, per nulla rappresentati dalla propria democrazia, occupata da una classe politica indifferente alle loro sorti. Da noi non va meglio, Gli asini è una rivista nata anche per questo, rendere giustizia nella riflessione e nella proposta di cambiamento di una realtà che non dà ai giovani le opportunità che meritano. Non va meglio perché il regime di esclusione, repressione e manipolazione della voce dei giovani è più pesante di quanto non si creda. Chiamati in causa solo per la retorica politica della fuga dei cervelli o per quella commerciale dei talent show, sono invece inascoltati o pesantemente zittiti quando chiedono semplicemente una scuola e un’università non depauperate, una cultura libera, un mondo del lavoro che si accorga che qualcuno deve ancora entrarci.
Sono fin troppo bravi i ragazzi. Di botte ne avevano già prese a dicembre, quando avevano provato – inventandosi modi nuovi e non violenti di manifestare – a dire la propria opinione sulla riforma Gelmini in via di approvazione. Ma come può essere che l’università fa i questionari di gradimento agli studenti di ogni singolo corso per misurarne la soddisfazione, mentre la loro voce di dissenso è ignorata quando il ministro cambia tutta l’università? Non ci si sente presi in giro?
Ma questo è un paese dove se per strada a vent’anni dici con tono di voce normale “fai ridere” a un candidato politico ti avvicinano due poliziotti in borghese per identificarti come fossi un criminale (a Milano, youtube per vedere). Così è capitato che alle due ultime “customer satisfaction” della nostra democrazia rappresentativa – le elezioni amministrative e i referendum – i giovani (che vengono interpellati solo per rispondere a questionari) si siano fatti di nuovo sentire. Perché il loro voto è stato determinante a cambiare le cose, laddove sono cambiate, perché loro come e più di chi appartiene ad altre fasce di età hanno voluto che le città avessero nuovi sindaci, l’acqua fosse un bene pubblico e il nucleare non fosse l’ennesimo nuova ombra sul loro futuro. Mentre nel mondo tutto diventa colore, digitale e touch screen e i giovani crescono in questa nuova cultura materiale, la nostra stanca democrazia ha messo in scena il rito del voto, con fogli giganteschi di pessima carta e matite copiative, ormai anche quelle made in china. E i giovani ci sono stati, hanno messo da parte per un attimo i loro display, le loro tastiere, i loro spray, i loro microfoni, i loro cursori sui mixer perché hanno capito che a questo giro servivano le nostre matite copiative, per dire basta. Ma prima di venire ai seggi e ossequiare il voto – nessuno come un ventenne è tanto serio, scrupoloso, preciso con le schede e le urne, parola di presidente di seggio – le tastiere e i microfoni li hanno usati abbondantemente: mai come in queste elezioni la loro musica è stata così schierata, così capace di parlare, di regalare il piacere di cambiare, e mai come in queste elezioni le tecnologie hanno mostrato il loro volto migliore, far da passaparola per organizzare mobilitazioni, per irridere la tribuna politica quando questa si faceva ridicola e per strada non potevi parlare, per dare accesso ai contenuti politici laddove la vecchia televisione si censurava da sola. Le tecnologie di oggi, che la destra proprio non ha capito, sono amate dai ragazzi perché sono l’unico luogo in cui la storia è sceneggiata da loro, è commentata o trasformata dalle loro parole e dalle loro immagini, quasi una vendetta contro la realtà delle istituzioni e della vita pubblica, in ostaggio degli adulti, dei vecchi, dei potenti.
Quella realtà, quelle istituzioni e quella vita pubblica sono state negli ultimi anni davvero misere, patetiche, umilianti. Se scorressimo in rapida successione le prime pagine dei giornali di questi anni ci renderemmo conto di quello che a dosi giornaliere omeopatiche forse si sente di meno, la pena di doversi specchiare in un paese governato per interessi personali, da persone senza dignità. Quando in questi anni la politica ha provato a coinvolgere i giovani nel massimo slancio di generosità ha parlato di partecipazione, ha creato i consigli comunali dei ragazzi, i forum giovanili, le quote under 30 o 40 di alcune posizioni. La sensazione è che poco sia cambiato, che non basti e che alcuni di quegli inviti a partecipare fossero cooptazioni, modi per inibire la formazione di dissenso. Oggi abbiamo capito che i giovani non vogliono partecipare di più, vogliono proprio cambiare. E che noi abbiamo bisogno di loro come non mai, se questo paese non ci piace.

Recensione de “Redattore sociale”

Giovani senza valori e senza futuro? No, sono solo l’alibi di adulti in crisi

Il mondo dei grandi da una parte si dice preoccupato, dall’altra isola i ragazzi e ne frustra creatività e voglia di rischiare. In “La congiura contro i giovani”, Stefano Laffi capovolge la tradizionale lettura colpevolizzante del disagio giovanile e denuncia le cause che l’hanno prodotto

29 gennaio 2014

MILANO – I giovani senza lavoro, i giovani senza ambizioni, i giovani senza valori, i giovani senza futuro. Sono davvero così le giovani generazioni? Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto in culture giovanili, pensa di no e con “La congiura contro i giovani” da pochi giorni in libreria per Feltrinelli intende spostare il fuoco dell’analisi da come sono e come stanno i giovani a come sono e come stanno gli adulti, riflettendo sul mondo che hanno creato per i loro figli.

Da tempo, sostiene Laffi, è in corso un attacco feroce nei confronti dei giovani, che però nasconde ipocrisia e umiliazione nei loro confronti. Da una parte, gli adulti si dicono preoccupati per i giovani che non hanno futuro nel lavoro, nella società e che non possono avere speranze di rendersi autonomi al fine di trovare una propria strada; dall’altra li si isola, li si protegge, per confinarli fuori dall’universo del lavoro, senza nessuna concessione, frustrandone creatività e voglia di rischiare con l’indifferenza e la solitudine.
I giovani – secondo l’autore – sono l’alibi di adulti in crisi, disorientati di fronte alla perdita di controllo del mondo circostante, increduli agli affetti di una società sempre più “consumista”. Del resto, già in un suo testo precedente “Il furto: mercificazione dell’età giovanile” (Edizioni L’ancora, 2000) Laffi incentrava la sua riflessione su una società che per i suoi giovani aveva deciso un unico destino: quello di consumare. “Il loro tempo – scriveva – è stato letteralmente svenduto per consentire al mercato di smaltire un’iperproduzione di beni e servizi che le altre generazioni non hanno più il tempo (gli adulti) o l’abitudine (gli anziani) di acquistare. E’ in questo contesto che vediamo i giovani sempre più “parcheggiati” in infiniti anni di studi, chiusi nelle classi, con difficoltà a elaborare un progetto di lavoro o di famiglia, e ai quali non resta che la simulazione della vita: si naviga senza viaggiare, si gioca a pallone con un computer, si dialoga senza mai incontrarsi e intanto si brucia l’età che avrebbe una missione precisa: la scoperta della propria identità e del proprio talento”.
Scorrendo le pagine di questa ultima pubblicazione, è piuttosto evidente la responsabilità della profonda crisi dei giovani che l’autore assegna agli adulti. “Tutto lo spazio che li circonda è saturo, è impermeabile ad esigenze di gioco ed espressività, è popolato e normato da adulti che non cedono il passo alle nuove generazioni.” Le città stesse – prosegue Laffi – non li prevedono, parlano a bambini e ragazzi solo in termini di divieti e regole, il paradosso è che solo le affissioni pubblicitarie li evocano per sedurli ancora una volta”. I bambini e i ragazzi non sono ammessi in nessuna discussione, in nessuna decisione pubblica sono coinvolti. L’adulto non vuole cedere nessuna posizione. Ecco dunque di chi è la responsabilità e di chi non accetta di cambiare. “Eppure questa è un’epoca di cambiamenti – tutto sta mutando, come leggiamo, come scriviamo, come nasce un’amicizia e un amore, come studiamo e come viaggiamo – di cui gli interpreti migliori sono proprio quelli che si vorrebbero escludere”.
Sull’immobilismo delle generazioni adulte verte la critica più forte dell’autore: a cominciare da quando un bambino viene messo alla luce, sommerso sin da subito da attese e norme di riferimento che non hanno confronti, ai progressi evolutivi che non sono altro che orgoglio per i genitori, e poi performance scolastiche o di desideri indotti dal mercato fin dai primi anni di vita. Sono così addestrati a rispondere a delle norme che sono altro da sé. Per continuare verso il periodo dell’adolescenza, che è sempre visto come periodo problematico, a rischio, trasgressivo, e la sua fame di esperienza vista con sospetto oppure inibita al contrario dei loro corpi, rubati dal mercato, per farne uso di consumo.
Infine, si arriva al periodo dell’“umiliazione” dei giovani, nei colloqui di lavoro, nella considerazione di cosa hanno studiato, nella gratuità di tutto quello che dovrebbero fare, nelle mansioni loro affidate, negli abusi di potere che devono subire.
Dalla critica a questo immobilismo di fondo, a questa società sterile, Laffi approda verso quella che ritiene l’unica soluzione possibile: “è necessario che gli adulti incomincino ad imparare dai più giovani, incomincino a dialogare con loro, incomincino ad ascoltarli e ad affidarsi a loro per scoprire e sperimentare. Del resto anche nel volontariato è normale che un ragazzo insegni a un cinquantenne appena arrivato.”
Non si tratta pertanto di inventarsi i problemi – incalza Laffi – “le città sono piene di luoghi e persone di cui prendersi cura insieme, anche fra generazioni diverse, sono i giovani a chiederlo, perché si formi l’abitudine a collaborare insieme, nello spazio pubblico, per sentirsi vicini un po’ complici, per vivere finalmente insieme l’emozione di presenti alternativi possibili, contro la retorica della crisi, dell’impotenza del sistema. E si deve essere capaci di riabilitare lo scambio emotivo, la condivisione di idee, la confidenza di debolezze e paure, per trasmettere ai più giovani la certezza di sentirsi parti di uno stesso destino”. (sp)

recensione de “La Repubblica”

Basta con “La congiura contro i giovani”, una ricetta anti-crisi

Stefano Laffi, ricercatore esperto in culture giovanili, invita gli adulti ad accettare il cambiamento, a farla finita con l’attacco e l’esclusione di quella fetta della società che sola potrebbe salvare la società

Di giovani si parla e si sparla molto. Ma poco o nulla si fa per loro. Adulti e istituzioni dichiarano di ritenerli centrali per il futuro, eppure non viene loro riconosciuto né l’effettivo diritto di parola, né la piena cittadinanza. E sono proprio coloro che denunciano e lamentano la situazione giovanile che, rifiutando ogni cambiamento del loro modo di pensare e di comportarsi, si limitano a difendere le loro rendite di posizione, senza lasciare il passo alle nuove generazioni. Ma, poiché tutto sta velocemente mutando, non è possibile, (pena il collasso del sistema), escludere dalla realtà proprio coloro che della rapida trasformazione in atto dovrebbero essere i protagonisti, per età e per logica. Il monito emerge dall’ultimo libro di Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto in culture giovanili, consumi e dipendenze che in La congiura contro i giovani, in libreria per Feltrinelli, invita gli adulti a uscire al più presto dalla crisi e ad accettare il cambiamento. 

Da tempo, sostiene Laffi, è in corso un attacco nei confronti dei giovani, mascherato con l’ipocrisia e camuffato da riflessione, cura, sensibilità educativa e che invece è soltanto mercificazione, umiliazione, patologizzazione. In sostanza, da una parte gli adulti si dicono preoccupati per i giovani che non hanno futuro nel lavoro, nella società, e che non possono avere speranze di rendersi autonomi e trovare una loro strada; dall’altra li si isola, li si iperprotegge, ma per confinarli fuori dall’universo del lavoro, senza nulla concedere, frustrandone creatività e voglia di rischiare con l’indifferenza e la solitudine.

Ed è tutta la nostra società che, pro giovani nell’immaginario e nelle affermazioni, si rivela invece gerontocratica nei fatti. A loro dedichiamo parole “corrotte” e definizioni, ma li usiamo come alibi degli adulti in crisi d’identità che stanno perdendo il controllo del mondo che conoscono e non si rassegnano a cedere il passo. Una via d’uscita, urgente e necessaria però c’è, suggerisce Laffi, ed è praticabile a patto che si accetti di cambiare a trecentosessanta gradi il modo di comportarsi e di pensare e che le istituzioni escano dall’immobilismo, per operare, finalmente, in favore delle nuove generazioni. Per farcela è necessario  trasformare insieme, adulti e giovani, la società e affidarci a loro per scoprire e sperimentare.

Giovani in crisi, di chi sono le responsabilità?

“Quando si parla di “giovani in crisi” credo sia importante intendere non un presunto collasso di motivazione e di fiducia dei ragazzi rispetto alle sfide che li attendono, ma la mancanza di opportunità e di possibilità, che si manifesta nel non trovare esperienze, lavoro, soldi, casa, ma più in generale nel non aver voce, non poter incidere in nulla della realtà che li circonda. La crisi è di cittadinanza, è il non aver diritti davvero esigibili, è crescere sapendo di non poter incidere sul proprio mondo. Tutto lo spazio che li circonda è saturo, è impermeabile ad esigenze di gioco ed espressività, è popolato e normato da adulti, non ha vuoti nei quali agire: le città non li prevedono, parlano a bambini e ragazzi solo in termini di divieti e regole, il paradosso è che solo le affissioni pubblicitarie li evocano per sedurli, tocca entrare in un bar per esistere, ma come consumatori, o in consultorio adolescenti, come utenti. L’esilio di bambini, ragazzi e giovani dall’arena delle discussioni, delle decisioni e delle azioni pubbliche parla in ultima analisi della “crisi degli adulti”, ecco di chi sono le responsabilità: non si vuole più cambiare e non si vogliono cedere le rendite di posizione, ci si illude di poter fare come ieri perché è l’unico modo che si conosce, se non è la paura a guidare gli adulti quando sentono la loro inadeguatezza agli strumenti di oggi. Il fatto è che questa sarà comunque un’epoca di cambiamenti – tutto sta mutando, come leggiamo e scriviamo, come nasce un’amicizia e un amore, come studiamo e come viaggiamo – di cui gli interpreti migliori sono proprio quelli che si vorrebbe escludere”.

Quali sono le cause che hanno portato i giovani alla situazione di oggi?
“Non credo ci sia un muro alla fine di una corsa sfrenata, non penso che non trovar lavoro o credito in banca sia per un ragazzo una bruciante sorpresa, perché c’è nato e cresciuto nella mancanza di riconoscimento. Ci sono generazioni adulte che non vogliono cedere potere e privilegi e si nutrono di questo immobilismo, per questo nel libro parto dalla nascita, mostrando un meticoloso processo di annichilimento del potenziale di cambiamento che i più giovani avrebbero. Pensiamo alla “normalizzazione” dell’infanzia, a come sin dalla nascita si sia circondati da attese e norme di riferimento, fatte prima di parametri medico-clinici, e poi di progressi evolutivi per inorgoglire i genitori, e poi di performance scolastiche o di desideri indotti dal mercato fin dai due anni di vita. Così addestrati a rispondere alla norma e ad altro da sé, si potrà mai credere nel proprio contributo? È un esempio banale, ma se la scuola usa solo “domande illegittime” (ovvero quelle in cui chi domanda conosce la risposta e chi risponde sa di dover indovinare quella giusta) potranno mai i ragazzi pensarsi ed esercitarsi come portatori di pensiero originale? Più tardi comincia invece la “patologizzazione” dell’adolescenza, che è sempre pensata come problematica, a rischio, trasgressiva, e la sua fame di esperienze e prove viene vista con sospetto, se non inibita letteralmente, al contrario dei loro corpi, rubati dal mercato, per farne oggetto di consumo. Si arriva così all’ultimo atto, “l’umiliazione” dei giovani, nei colloqui di lavoro, nella considerazione di quello che hanno studiato, nella gratuità di tutto quello che dovrebbero fare, nelle mansioni loro affidate, negli abusi di potere che devono subire. Cinismo, disincanto, ritiro sociale, spaesamento, tristezza: possiamo davvero sorprenderci se compaiono a 15 o 20 anni, cioè alla fine di questa carriera?”

C’è una via d’uscita?

“Non solo c’è ma è obbligatoria, è urgente, e la buona notizia è che libera tutti. Certo, dobbiamo accettare una condizione, quella di esser disposti al cambiamento. Ma partiamo dalla constatazione che la maggior parte delle nostre istituzioni non funzionano, sono in affanno, disorientate: vale per le famiglie, dove i genitori si separano e non sanno come star dietro ai figli, vale per le aziende che sono in crisi, vale per l’istruzione e la formazione che non sanno quali competenze formare e sono superate dagli allievi rispetto al digitale, vale per la politica al minimo storico di fiducia… A furia di escludere i più giovani da tutte le istituzioni ci troviamo oggi intrappolati in routine quotidiane che non funzionano, sono lente, burocratiche, irreali nei tempi e nelle richieste. Bene, in ogni epoca di cambiamento si sa che avviene un ribaltamento dei saperi, la tradizione perde la forza di guida, sono i più giovani i nostri pionieri, saranno loro a guidarci. Certo, senza un’esperienza di riconoscimento sociale sin dall’infanzia non sarà facile ribaltare i ruoli, ma loro nell’incertezza ci sono nati e usano le strategie cognitive più adatte, che dobbiamo imparare da loro: muoversi per tentativi senza certezza sulle mete, valorizzare gli errori perché ricchi di informazioni, moltiplicare i campi di esperienza perché utili a misurare le nostre capacità, scambiarsi saperi e scoperte in modo orizzontale perché non serve chiuderli a chiave, prendere e partire, muoversi insieme per sostenersi e favorire l’apprendimento, superare i confini disciplinari perché la realtà è una e non segmentata… La via di uscita è questa, cambiare insieme questa società e affidarci a loro per scoprire e sperimentare. In alcune aziende c’è già il reverse mentoring e in fondo nel volontariato è normale che un ragazzo insegni a un cinquantenne appena arrivato. Forse ci siamo dimenticati che le più grandi invenzioni del ‘900 sono state fatte da scienziati che avevano fra i 20 e i 30 anni”.

Stefano Laffi
La congiura contro i giovani
Feltrinelli
Pag.174, euro 14.

“Elementare” un documentario di Franco Lorenzoni, presentato a Roma. una recensione di Marzia Coronati

Elementare

21OTT

Stamattina sono andata a vedere la prima di un film di un maestro e dei suoi venti studenti. Il maestro si chiama Franco Lorenzoni e la scuola è quella di Giove, in Umbria, più volte oggetto delle mie digressioni radiofoniche sull’educazione.
Il film è stato proiettato nella sala cinema del Maxxi, a Roma, nella cornice patinata del Festival del Cinema. La sala ospitava duecento posti ma in molti sono rimasti fuori, la qual cosa sorprende per un appuntamento così lontano dalla mondanità della rassegna.
Il maestro Lorenzoni, dicevo, lo conoscevo già. I suoi alunni però non li avevo mai conosciuti. O meglio, li avevo incontrati indirettamente nei libri e nelle storie del maestro, in aneddoti e pensieri sparsi. Sgorgavano sempre tra le sue parole. Vederli lì mi ha emozionato, hanno partecipato in silenzio, nelle prime file, e a fine proiezione si sono sistemati in riga sotto lo schermo a spiegare e commentare. Così, come fosse la cosa più elementare da fare.
Elementare è anche il titolo di questo documentario, appunti di un percorso educativo è il sottotitolo che lo colloca nel suo giusto spazio. Non è un film sulla scuola, nè un vademecum per gli insegnanti, nè un documentario di denuncia. E’ un collage di frammenti di registrazioni fatte nel corso delle attività scolastiche e durate cinque anni, dalla prima alla quinta. Nelle ultime scene si riconoscono i volti quasi adolescenti di quelli che all’inizio sono solo bambini.
I protagonisti di questo film sono ragazzi che sicuramente meglio della maggior parte degli spettatori, me compresa chiaramente, sanno camminare in un bosco o riconscere le orme degli animali. Persone autodeterminate, sicure, serene.
A me questo film ha emozionato, mi ha commosso come un vecchio filmino di famiglia. Intimo, autentico e artigianale. Sin dalle prime scene mi sono convinta che ogni bambino dovrebbe avere la possibilità di vivere la realtà della piccola scuola di Giove: stare seduto per terra, dare il proprio giudizio su un fatto accaduto, cercare i fossili infilando le mani nel fango. Esperienze elementari, appunto.
Ho pianto per la meraviglia dei ragazzi di fronte alla scoperta del fuoco, attizzato dal solo attrito dei legni; per l’intuizione della prospettiva osservando un ritratto di Raffaello; per la mucca, il maialino, lo sciatore, il pescatore, la sorella, i colori e le gomme che Simone vede guardando dritto nell’iride del suo compagno.
Questo film non è teatro, ma si nutre delle innate capacità teatrali che i bambini ancora riescono a conservare.

Venticinque idee per una scuola diversa, di Paolo Mottana

Della scuola si sente parlare tanto genericamente e poco specificamente. Tutti si fanno belli di slogan tipo investire sulla scuola e sulla ricerca ma omettono singolarmente di aggiungere per quale ricerca e quale scuola. Purtroppo si sa, quasi tutti vogliono una ricerca al servizio del lavoro (dunque eminentemente pragmatica e misurabile) e una scuola più efficiente e razionalizzata (dunque eminentemente pragmatica e informatizzata). Bene, anzi male. Tutto ciò mi irrita e mi indispone enormemente. Allora, per calmarmi, provo, in bella sintassi protocollare, a promulgare il mio PROGRAMMA PER LA SCUOLA:

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l’indice dell’ultimo numero, 215, della rivista “Una Città”



UNA CITTÀ n. 215 / 2014 Settembre

«Men­tre im­per­ver­sa tan­ta fol­lia omi­ci­da, che su­sci­ta or­ro­re an­che nei me­no sen­si­bi­li, mi sem­bran ri­di­co­li cer­ti se­di­cen­ti uma­ni­ta­ri, che sca­glia­no ful­mi­ni con­tro la guer­ra per na­scon­de­re sot­to un no­bi­lis­si­mo man­to le pro­prie in­con­fes­sa­bi­li an­ti­pa­tie per la cau­sa del di­rit­to dei po­po­li in­te­ri mi­nac­cia­ti di sop­pres­sio­ne in vir­tù del­la for­za egoi­sti­ca. Co­sto­ro han­no l’im­man­ca­bi­le al­lea­ta di tut­te le truf­fe: la cre­du­li­tà uma­na! Ma è be­ne che gli al­ti spi­ri­ti nu­tri­ti di amo­re
in­fi­ni­to sen­ta­no che la pa­ce ver­so cer­ti cri­mi­ni col­let­ti­vi sa­reb­be de­lit­to
»
Au­gu­sto Mur­ri (trat­to da Pro Pa­ce. Al­ma­nac­co il­lu­stra­to del 1917)

Uno Sta­to che non ri­spet­ta la sua le­ga­li­tà
Sul­l’er­ga­sto­lo
In­ter­vi­sta ad An­drea Pu­giot­to

Av­vi­ci­na­re i cit­ta­di­ni a scel­te e re­spon­sa­bi­li­tà
Sul de­cen­tra­men­to fi­sca­le
In­ter­vi­sta a Ste­fa­no Pi­per­no

Bra­vi o no, com­pe­ten­ti o no, for­ma­ti o no…
In­se­gnan­ti: ha sen­so par­la­re di me­ri­to?
In­ter­vi­sta a Nor­ber­to Bot­ta­ni

Il me­ri­to non può di­pen­de­re dal­la for­tu­na
La “Buo­na scuo­la” di Ren­zi
In­ter­vi­sta ad An­drea Ichi­no

Gio­va­ni in Ita­lia
Au­men­ta­no (so­lo) i gio­va­ni non fi­gli di ita­lia­ni
In­ter­ven­to di Fran­ce­sco Cia­fa­lo­ni

La de­ser­ti­fi­ca­zio­ne uma­na
Sul pre­oc­cu­pan­te sta­to del Sud Ita­lia
re­da­zio­ne di neodemos.​it

Con­do­mi­ni a pran­zo nei giar­di­ni la do­me­ni­ca
La sto­ria di una coo­pe­ra­ti­va edi­li­zia
In­ter­vi­sta ad An­drea Vec­chia

Pre­dap­pio. Un pro­get­to per l’ex Ca­sa del Fa­scio
Ser­vi­zio fo­to­gra­fi­co con un in­ter­ven­to
di Mar­cel­lo Flo­res

Nes­su­no po­trà più di­re a un bim­bo “Sei tu­tsi”
Il Rwan­da ven­t’an­ni do­po
In­ter­vi­sta a Yo­lan­de Mu­ka­ga­sa­na

La do­me­ni­ca a in­se­gnar
a far di con­to ai con­ta­di­ni…

Mat­teot­ti rac­con­ta­to da Go­bet­ti
In­ter­vi­sta a Mar­co Sca­vi­no

Il bat­ta­glio­ne Don­bass
Re­por­ta­ge da Do­ne­tsk
In­ter­ven­to di Pao­lo Ber­ga­ma­schi

Il mes­sag­gio dei pa­le­sti­ne­si agli israe­lia­ni
So­no an­co­ra pos­si­bi­li due Sta­ti?
In­ter­ven­to di Jeff Hal­per

Una bom­ba a oro­lo­ge­ria
Sul­l’a­mian­to in Viet­nam
In­ter­ven­to di Mas­si­mo Ti­rel­li

I man­ghi di Mao
Una cu­rio­sa mo­stra ci­ne­se a New York
Let­te­ra di Ila­ria Ma­ria Sa­la

L’ot­ti­mi­smo di Jo­sè
Do­po il re­fe­ren­dum scoz­ze­se
Let­te­ra di Be­lo­na Gree­n­wood

24 dei miei 46 an­ni
Un per­mes­so spe­cia­le
Let­te­ra di Mar­cel­lo Del­l’An­na

Ap­pun­ti di un me­se

Ri­cor­dar­si

Ri­let­tu­re



“Da co­sti­tu­zio­na­li­sta ho sem­pre pen­sa­to il Di­rit­to co­me vio­len­za do­ma­ta, e la Co­sti­tu­zio­ne co­me re­go­la e li­mi­te al po­te­re”: a par­la­re, in aper­tu­ra, per “co­sa suc­ce­de”, è An­drea Pu­giot­to, da tem­po im­pe­gna­to af­fin­ché la pe­na ir­ri­me­dia­bi­le del­l’er­ga­sto­lo, e in par­ti­co­la­re quel­lo osta­ti­vo, quel­lo cioè che con­dan­na a mo­ri­re in car­ce­re, sia ri­co­no­sciu­ta il­le­git­ti­ma.

Per “ri­vo­lu­zio­ne con­cre­ta” (te­sta­ti­na “ru­ba­ta” a “Lo Sta­to Mo­der­no”), ri­pren­den­do an­che al­cu­ne del­le que­stio­ni sol­le­va­te da Bin e Ur­bi­na­ti nel­l’ul­ti­mo nu­me­ro, ab­bia­mo in­ter­vi­sta­to Ste­fa­no Pi­per­no sul de­cen­tra­men­to che è in­nan­zi­tut­to una scel­ta po­li­ti­ca; non si de­cen­tra in­som­ma né per ri­spar­mia­re, né per es­se­re più ef­fi­cien­ti, ma per av­vi­ci­na­re i cit­ta­di­ni al­le scel­te e quin­di re­spon­sa­bi­liz­zar­li. Il pro­ble­ma è che non sap­pia­mo ge­sti­re le dif­fe­ren­ze, ine­vi­ta­bi­li in un pro­ces­so di de­cen­tra­men­to, e co­sì, nei mo­men­ti di cri­si, la ten­ta­zio­ne di ac­cen­tra­re an­cor più sem­bra l’u­ni­ca ri­spo­sta pos­si­bi­le.

“La do­man­da” ri­guar­da il me­ri­to: co­s’è? Co­me si mi­su­ra? Quan­t’è giu­sto pre­miar­lo? Ora, pre­mes­so che il gran par­la­re di me­ri­to a si­ni­stra fa un po’ spe­cie, per­ché com­pi­to pri­mo del­la si­ni­stra è com­bat­te­re la sfor­tu­na, in­dub­bia­men­te se si vo­glio­no ot­te­ne­re ri­sul­ta­ti bi­so­gna im­pe­gnar­si, lot­ta­re, es­se­re in­tel­li­gen­ti, ec­ce­te­ra ec­ce­te­ra. In que­ste set­ti­ma­ne si è tor­na­ti a par­la­re di me­ri­to de­gli in­se­gnan­ti. Ab­bia­mo in­ter­vi­sta­to Nor­ber­to Bot­ta­ni e An­drea Ichi­no. Il pri­mo ci ha spie­ga­to che un po’ in tut­ta Eu­ro­pa, esclu­sa la Gran Bre­ta­gna, la va­lu­ta­zio­ne de­gli in­se­gnan­ti è ma­te­ria esplo­si­va che quin­di si ma­neg­gia con gran­de cau­te­la, men­tre ne­gli Sta­ti Uni­ti si va­lu­ta mol­tis­si­mo e i ri­sul­ta­ti ven­go­no re­si pub­bli­ci; in Gran Bre­ta­gna ci so­no le ispe­zio­ni, che so­no mol­to co­sto­se, ma ap­pa­ren­te­men­te fun­zio­na­no, e quan­do una scuo­la va ma­le vie­ne ge­mel­la­ta con una che va mol­to be­ne, af­fin­ché si aiu­ti­no; An­drea Ichi­no ci ha par­la­to dei li­mi­ti di una ri­for­ma che par­te as­su­men­do in mo­do in­di­scri­mi­na­to 150.000 pre­ca­ri, ma an­che del­la pro­po­sta, a par­ti­re da una spe­ri­men­ta­zio­ne già fat­ta, di va­lu­ta­re gli in­se­gnan­ti in ba­se al­la “re­pu­ta­zio­ne” di cui go­do­no pres­so stu­den­ti, ge­ni­to­ri e col­le­ghi.

“La mia doc­cia s’af­fac­cia sul­la col­li­na da cui scen­de­va­no gli as­sas­si­ni. Al­le vol­te quan­do va­do al ba­gno la mat­ti­na pre­sto, guar­do fuo­ri e mi di­co: ‘Non ci so­no as­sas­si­ni che scen­do­no’. An­che se so­no pas­sa­ti ven­t’an­ni è il mio pri­mo pen­sie­ro. Quan­do pe­rò ci so­no dei la­vo­ri co­mu­ni­ta­ri può ca­pi­ta­re di im­bat­ter­si in un as­sas­si­no usci­to di pri­gio­ne e suc­ce­de che si par­la… ov­via­men­te non si par­la del ge­no­ci­dio, si par­la di al­tre co­se. Si è crea­ta la pos­si­bi­li­tà di dir­si  ‘buon­gior­no’. Og­gi sia­mo im­pe­gna­ti in­sie­me per il be­ne del pae­se. C’è tan­to da fa­re, le stra­de, i pon­ti, e li stia­mo fa­cen­do in­sie­me… Nel la­vo­ro col­let­ti­vo stia­mo sco­pren­do che si può vi­ve­re in­sie­me. Era una co­sa che non mi aspet­ta­vo”. A ven­t’an­ni dal ge­no­ci­dio, ab­bia­mo in­ter­vi­sta­to Yo­lan­de Mu­ka­ga­sa­na che al­l’e­po­ca per­se i fi­gli e il ma­ri­to.

Per “ri­cor­dar­si”, e nel­l’an­ni­ver­sa­rio del­lo scop­pio del­la Pri­ma guer­ra mon­dia­le, pub­bli­chia­mo le fo­to dei ca­du­ti ebrei. La ri­com­pen­sa che la pa­tria ri­ser­vò a lo­ro la co­no­scia­mo. Le ab­bia­mo pre­se da un li­bro in­tro­va­bi­le in cui li si ri­cor­da no­me per no­me e con lo­ro an­che i de­co­ra­ti al me­ri­to. Nel si­to del­la bi­blio­te­ca Gi­no Bian­co il vo­lu­me è con­sul­ta­bi­le per in­te­ro.

Per “ri­let­tu­re” pub­bli­chia­mo un ar­ti­co­lo di Er­ne­sto Ros­si ap­par­so sul Mon­do che po­le­miz­za con Pie­ro Ca­la­man­drei che ave­va di­fe­so l’o­pe­ra­to del sin­da­co di Fi­ren­ze La Pi­ra in fa­vo­re de­gli ope­rai del Pi­gno­ne a ri­schio di li­cen­zia­men­to; pur di­sgu­sta­ti dal­la de­ma­go­gia e dal­la evi­den­te stru­men­ta­li­tà con cui in Ita­lia, nel di­sprez­zo to­ta­le del­la “dot­tri­na” de­mo­cra­ti­ca, si im­prov­vi­sa­no leg­gi le­ga­te a te­mi di fon­do del­la de­mo­cra­zia, non c’è dub­bio che il te­ma del­la “li­ber­tà di li­cen­zia­re” in una re­pub­bli­ca “fon­da­ta sul la­vo­ro” sia un te­ma fon­da­men­ta­le per una de­mo­cra­zia che non vo­glia ri­muo­ve­re il pro­ble­ma dei di­rit­ti so­cia­li e per una si­ni­stra che non vo­glia es­se­re so­lo pro­te­zio­ni­sta e pa­ter­na­li­sta scam­bian­do tu­te­le per di­rit­ti e che con­ti­nui a cre­de­re, co­me un tem­po, in­nan­zi­tut­to nel­la pos­si­bi­li­tà del­l’au­to­no­mia del­le per­so­ne; te­ne­re in­sie­me li­be­ra­li­smo e so­cia­li­smo, li­ber­tà e giu­sti­zia, siam sem­pre lì. (Nb.: non ugua­glian­za, ma “giu­sti­zia”, co­me pre­di­ca­va il sag­gio Prou­d­hon). Ov­via­men­te non sia­mo cer­to noi ad aver ri­spo­ste. Chie­de­re­mo.

Tan­tis­si­mi au­gu­ri ai gio­va­ni di Hong Kong, cui de­di­chia­mo la co­per­ti­na.

 

Intervista a Norberto Bottani sulla valutazione degli insegnanti. Una città n.215

BRAVI O NO, COMPETENTI O NO, FORMATI O NO…

Un tema, quello della valutazione degli insegnanti, affrontato con cautela in tutta Europa, perché a rischio esplosione a differenza degli Stati Uniti dove addirittura il “New York Times” e il “Los Angeles Times” pubblicano l’elenco degli insegnanti pessimi, che alla fine si lasciano a casa; l’esempio di Ginevra, dove non si insegna per tutta la vita e l’idea del gemellaggio tra una scuola eccellente e una in crisi; le retribuzioni, simili in quasi tutta l’Europa. Intervista a Norberto Bottani.

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Roma, Celio Azzurro, centro interculturale per bambini dai tre ai sei anni provenienti da tutti i paesi del mondo, Italia compresa.

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la storia di un rapporto profondo tra una maestra ed una allieva: Maria e Dinushi, di Lea Melandri

Quanto contano i legami di sangue, e quanto gli incontri che si fanno nella vita? Un genitore biologico, che non si è fatto in tempo a conoscere, può restare nell’immaginario, nei pensieri segreti di un bambino, maschio o femmina che sia, ma a segnare in modo duraturo la sua individualità nel momento della maggiore dipendenza è inevitabile che siano le persone che se ne prendono cura, occupandosi materialmente e intellettualmente della sua crescita e della sua educazione.

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il movimento delle “Scuole senza zaino”

 

Togliere lo zaino è  un gesto reale, infatti  gli studenti delle scuole sono dotati di una cartellina leggera per i compiti a casa, mentre le aule e i vari ambienti vengono arredati con mobilio funzionale e dotati di una grande varietà di strumenti didattici sia tattili che digitali.  Ma togliere lo zaino ha anche un significato simbolico in quanto vengono realizzate  pratiche e  metodologie innovative in relazione a tre valori a cui ci si ispira:  la responsabilità, la comunità e l’ospitalità.

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