Intervista a Franco Lorenzoni, da “Una Città”

 

UNA CITTÀ n. 199 / 2012 Dicembre 2012-Gennaio 2013Intervista a Franco Lorenzoni
realizzata da Gianni Saporetti

RECINTI D’OGNI SORTA
Il rischio che l’introduzione di lavagne interattive nella scuola dell’infanzia e nei primi anni delle elementari, in una situazione in cui il bambino a casa è già circondato da schermi e da telefonini, impoverisca grandemente la sua formazione, di cui l’uso del tatto e del corpo, l’osservazione in spazi grandi, il confronto anche duro con la realtà esterna e con gli altri, era parte fondamentale; il rischio di un bambino iperprotetto a suo agio solo di fronte a uno schermo. Intervista a Franco Lorenzoni.

Fran­co Lo­ren­zo­ni, mae­stro ele­men­ta­re, è coor­di­na­to­re del­la Ca­sa la­bo­ra­to­rio di Cen­ci, Ame­lia.Hai lan­cia­to un al­lar­me, che sta su­sci­tan­do un ac­ce­so di­bat­ti­to, sui ri­schi che può com­por­ta­re l’in­tro­du­zio­ne de­gli stru­men­ti di­gi­ta­li nel­le scuo­le del­l’in­fan­zia e nel­le ele­men­ta­ri. Ce ne par­li?
So­no mol­to pre­oc­cu­pa­to che i bam­bi­ni, già a tre an­ni, vi­va­no cir­con­da­ti da scher­mi e so­no an­cor più pre­oc­cu­pa­to che nel­la scuo­la del­l’in­fan­zia e nei pri­mi an­ni del­la scuo­la ele­men­ta­re si in­tro­du­ca­no le Lim (La­va­gne in­te­rat­ti­ve mul­ti­me­dia­li) co­me stru­men­to del la­vo­ro di­dat­ti­co quo­ti­dia­no. Il ri­schio, mol­to con­cre­to, è che gli scher­mi di­ven­ti­no, per i bam­bi­ni, il prin­ci­pa­le stru­men­to di re­la­zio­ne con il mon­do. Da quan­do ci so­no i te­le­fo­ni­ni di ul­ti­ma ge­ne­ra­zio­ne e gli iPho­ne, tra l’al­tro, bam­bi­ne e bam­bi­ni an­che mol­to mol­to pic­co­li so­no at­trat­ti ir­re­si­sti­bil­men­te da que­sti pic­co­li og­get­ti do­ta­ti di scher­mo, ric­chis­si­mi di pro­po­ste e se­du­zio­ni pen­sa­te per l’in­fan­zia. Cir­con­da­ti da adul­ti spes­so im­mer­si per ore nel mon­do vir­tua­le, mi pia­ce­reb­be che i bam­bi­ni, al­me­no a scuo­la, tro­vas­se­ro adul­ti ca­pa­ci di in­di­ca­re lo­ro al­tre stra­de di gio­co e di co­no­scen­za. La scuo­la non do­vreb­be mai ap­piat­tir­si sul pre­sen­te e se­gui­re le mo­de, ma es­se­re un luo­go ca­pa­ce di ar­gi­na­re, at­te­nua­re e cri­ti­ca­re gli ef­fet­ti di una in­va­sio­ne che sta cam­bian­do pro­fon­da­men­te le re­la­zio­ni so­cia­li ed il rap­por­to con la real­tà.
La mia idea è mol­to sem­pli­ce. Se la so­cie­tà si get­ta a ca­po­fit­to in una di­re­zio­ne, la scuo­la dei più pic­co­li de­ve muo­ver­si se­guen­do un prin­ci­pio ele­men­ta­re di pre­cau­zio­ne, ri­fiu­tan­do di ade­guar­si al­l’in­va­sio­ne tec­no­lo­gi­ca. L’i­dea di in­se­gna­re a leg­ge­re e a scri­ve­re usan­do ta­blet e la­va­gne in­te­rat­ti­ve mi sem­bra to­tal­men­te di­scu­ti­bi­le. Da qui na­sce il mio ap­pel­lo per­ché al­me­no nel tem­po sco­la­sti­co, fi­no al­la fi­ne del­la se­con­da ele­men­ta­re, i bam­bi­ni non in­con­tri­no scher­mi. Usi­no le ma­ni tut­te in­te­re e toc­chi­no la cre­ta e an­che un po’ di ter­ra per pian­ta­re dei se­mi, an­che in un giar­di­net­to, in­som­ma fac­cia­no co­se che non li al­lon­ta­ni­no dal­la real­tà. Ho ri­let­to di re­cen­te un bel­lis­si­mo e fa­mo­so in­ter­ven­to di El­sa Mo­ran­te con­tro la bom­ba ato­mi­ca, do­ve no­mi­na quel­la tec­no­lo­gia di­strut­ti­va co­me dra­go del­l’ir­real­tà, a cui l’ar­te e la poe­sia si deb­bo­no ri­bel­la­re. Ec­co, io pen­so che in que­sto mo­men­to il dra­go del­l’ir­real­tà sia rap­pre­sen­ta­to dal­l’on­ni­pre­sen­te on­da tec­no­lo­gi­ca in cui è co­stret­ta a nuo­ta­re la pri­ma in­fan­zia. Il mer­ca­to non ha re­mo­re e non si fer­ma da­van­ti a nul­la. Se i bam­bi­ni so­no at­trat­ti da scher­mi ac­ce­si di ogni di­men­sio­ne, ogni mi­nu­to del­la lo­ro vi­ta sa­rà riem­pi­to di scher­mi, con la com­pli­ci­tà di noi adul­ti, a no­stra vol­ta stor­di­ti dal­le in­fi­ni­te pos­si­bi­li­tà di co­mu­ni­ca­re (o cre­de­re di co­mu­ni­ca­re), che tec­no­lo­gie sem­pre nuo­ve of­fro­no, tra l’al­tro a ca­ro prez­zo…
Ho in­se­gna­to tre an­ni nel­la scuo­la del­l’in­fan­zia e da più di tren­ta in­se­gno nel­la scuo­la ele­men­ta­re. Fre­quen­tan­do quo­ti­dia­na­men­te bam­bi­ne e bam­bi­ni ho ma­tu­ra­to la con­vin­zio­ne che esi­sta una “cul­tu­ra in­fan­ti­le”: una cul­tu­ra che per sua na­tu­ra è prov­vi­so­ria, per­ché ri­guar­da il no­stro guar­da­re e pen­sa­re il mon­do nei pri­mi an­ni, ma che in qual­che mo­do so­prav­vi­ve ne­gli stra­ti più pro­fon­di del no­stro es­se­re tut­ta la vi­ta.
Tra le sue ca­rat­te­ri­sti­che c’è lo scam­bia­re il det­ta­glio con il tut­to, il cre­de­re al­l’in­cre­di­bi­le, il non sog­gia­ce­re al prin­ci­pio di non con­trad­di­zio­ne e, so­prat­tut­to, il sen­tir­si “scon­fi­na­ti”, con le emo­zio­ni po­si­ti­ve e ne­ga­ti­ve che tut­to ciò com­por­ta. Scon­fi­na­ti e scon­fi­nan­ti, per­ché bam­bi­ne e bam­bi­ni pic­co­li han­no un mo­do di rap­por­tar­si ai con­fi­ni mol­to di­ver­so dal no­stro. I con­fi­ni tra in­ter­no ed ester­no, tra ciò che è vi­vo e non è vi­vo, tra il per­ce­pi­re e l’im­ma­gi­na­re non co­no­sco­no fron­tie­re ar­ma­te e pas­sa­por­ti, co­me per noi adul­ti. I bam­bi­ni at­tra­ver­sa­no con­ti­nua­men­te que­sti con­fi­ni per­ché si met­to­no in gio­co e cre­do­no nei gio­chi che fan­no. Per­ché san­no cre­de­re e non cre­de­re a una co­sa al tem­po stes­so, la­scian­do con­vi­ve­re pa­ci­fi­ca­men­te le due con­vin­zio­ni, co­me av­vie­ne per an­ni con Bab­bo Na­ta­le. E poi­ché la so­spen­sio­ne di in­cre­du­li­tà è la mi­glior qua­li­tà che do­vrem­mo ave­re noi adul­ti quan­do ci con­ce­dia­mo di es­se­re spet­ta­to­ri o let­to­ri di li­bri, ec­co uno dei tan­ti mo­ti­vi per cui ha co­sì gran­de va­lo­re la cul­tu­ra in­fan­ti­le, da cui con­ti­nuia­mo a pe­sca­re per tut­ta la vi­ta.
Non cre­do che i bam­bi­ni sia­no più buo­ni -per­ché pos­so­no es­se­re ca­pa­ci di cru­del­tà pic­co­le e gran­di- ma cer­ta­men­te so­no più aper­ti ver­so il mon­do e ge­ne­ral­men­te più di­spo­ni­bi­li ver­so gli al­tri.
Que­sto in­sie­me di mo­di e ca­pa­ci­tà pro­prie del­l’a­ni­mo in­fan­ti­le so­no un be­ne co­sì pre­zio­so, che do­vrem­mo aver­ne tut­ti una gran­dis­si­ma cu­ra. Non so­lo ge­ni­to­ri, pa­ren­ti o in­se­gnan­ti, ma chiun­que ab­bia in sor­te di tra­scor­re­re qual­che mo­men­to con un bam­bi­no.
Odo­ri, sa­po­ri e vi­sio­ni del­la pri­ma in­fan­zia so­no una mi­nie­ra non so­lo per gli ar­ti­sti, che ne han­no sem­pre fat­to bot­ti­no a pie­ne ma­ni, ma per chiun­que ami l’u­ma­no nel sen­so più pie­no del ter­mi­ne, o vo­glia pren­der­ci per il na­so, co­me fan­no i pub­bli­ci­ta­ri…
Que­sto è il mo­ti­vo per cui so­no mol­to pre­oc­cu­pa­to al­l’i­dea che la pri­ma in­fan­zia sia pri­va­ta di al­cu­ne espe­rien­ze ba­si­la­ri ed es­sen­zia­li, che tan­to pe­so han­no poi per tut­ta la vi­ta. Il gio­co sim­bo­li­co che ti per­met­te di ca­val­ca­re una sco­pa o tro­va­re un mon­do sot­to al let­to, il ren­de­re vi­ve pen­to­le e par­la­re con ogni ti­po di og­get­ti (non so­lo con le bam­bo­le, pur­trop­po pre­clu­se ai pic­co­li ma­schi), in­sie­me al­l’e­splo­ra­re e al muo­ver­si nel­lo spa­zio, na­scon­der­si, fa­re tea­tro in­ven­tan­do con­ti­nua­men­te gio­chi e sto­rie da so­li o con gli al­tri, so­no tut­te espe­rien­ze che da­van­ti a uno scher­mo non si pos­so­no fa­re!
Ma il tuo ap­pel­lo non ri­schia di dar l’im­pres­sio­ne di vo­ler op­por­si al pro­gres­so?
Io non ho nul­la con­tro la tec­no­lo­gia. Il fi­glio del­la mia com­pa­gna è un ra­gaz­zo Do­wn e a lui la tec­no­lo­gia ha da­to la pos­si­bi­li­tà di ge­sti­re con au­to­no­mia la sua gran­de pas­sio­ne per il ci­ne­ma e la mu­si­ca ed an­che nel­la scuo­la ele­men­ta­re, ri­spet­to ad al­cu­ne dif­fi­col­tà di ap­pren­di­men­to, co­me quel­le cau­sa­te dal­la di­sles­sia, i com­pu­ter pos­so­no for­ni­re un sup­por­to es­sen­zia­le.
Uso quo­ti­dia­na­men­te il com­pu­ter e tro­vo straor­di­na­ria la fa­ci­li­tà con cui og­gi si può mon­ta­re a ca­sa o a scuo­la un pic­co­lo cor­to­me­trag­gio, con pro­gram­mi che rie­sco ad usa­re fa­cil­men­te an­che io, per­ché so­no al­la por­ta­ta dei bam­bi­ni.
Pen­so pe­rò che sia mol­to pe­ri­co­lo­sa la so­vrae­spo­si­zio­ne agli scher­mi nel­la pri­ma in­fan­zia. Ho pro­po­sto di li­be­ra­re la scuo­la del­l’in­fan­zia e i pri­mi due an­ni del­la scuo­la pri­ma­ria dai com­pu­ter per un mo­ti­vo mol­to sem­pli­ce. Sic­co­me a ca­sa la gran­de mag­gio­ran­za dei bam­bi­ni, an­che i più po­ve­ri, han­no un rap­por­to esa­ge­ra­to con pic­co­li e gran­di scher­mi, pen­so che a scuo­la ab­bia­no il di­rit­to di spe­ri­men­ta­re al­tri mo­di di in­con­tra­re il mon­do e la real­tà. La scuo­la, se vuo­le es­se­re un luo­go edu­ca­ti­vo, de­ve rea­gi­re at­ti­va­men­te al pro­prio tem­po e svol­ge­re una fun­zio­ne di com­pen­sa­zio­ne.
De­vo di­re sin­ce­ra­men­te che il de­si­de­rio di rea­gi­re me l’ha fat­to scat­ta­re un pic­co­lo epi­so­dio ac­ca­du­to a mio fi­glio più pic­co­lo, che ha set­te an­ni. Noi abi­tia­mo in Um­bria, vi­ci­no ad Ame­lia, in una ca­sa in cam­pa­gna cir­con­da­ta da pra­ti e bo­schi. Tom­ma­so vo­le­va usci­re e fa­re quel­le che chia­ma esplo­ra­zio­ni, ma il suo ami­co ave­va pau­ra ad usci­re nel­la na­tu­ra, non vo­le­va se­guir­lo. Al­lo­ra li ho ac­com­pa­gna­ti per un po’, ma era evi­den­te che il suo ami­co si sen­ti­va a di­sa­gio. Poi ab­bia­mo co­min­cia­to a ro­to­lar­ci nel­le fo­glie e na­tu­ral­men­te ha co­min­cia­to a di­ver­tir­si. Ma al ri­tor­no, os­ser­van­do la bra­ma con cui ha de­si­de­ra­to riac­cen­de­re il pic­co­lo scher­mo por­ta­ti­le da cui non si se­pa­ra mai, ho pen­sa­to che quel­la era la sua ca­sa, quel­lo l’og­get­to del suo de­si­de­rio, il luo­go ama­to che lo ras­si­cu­ra­va. Co­sì ho pen­sa­to che bi­so­gnas­se rea­gi­re, di­re qual­co­sa e ur­la­re a tut­ti: fer­mia­mo­ci, fin­ché sia­mo in tem­po!
Ma poi­ché vi­vo in que­sto tem­po, non ho ur­la­to e ho ac­ce­so a mia vol­ta il com­pu­ter, scrit­to qual­co­sa e co­min­cia­to a fa­re cir­co­la­re tra gli ami­ci più vi­ci­ni le pri­me idee ri­guar­do a un ap­pel­lo, in cui tra l’al­tro ho scrit­to: “Chi pro­va ad op­por­si sa qua­li bat­ta­glie quo­ti­dia­ne de­ve com­bat­te­re in ca­sa per li­mi­ta­re l’u­so com­pul­si­vo di play­sta­tion e vi­deo­gio­chi sem­pre più ac­cat­ti­van­ti. L’at­tac­ca­men­to a scher­mi gran­di e pic­co­li ha tut­te le ca­rat­te­ri­sti­che di una dro­ga, per­ché or­mai nes­su­no può più nu­tri­re dub­bi sul­la di­pen­den­za che crea”.
Co­me ri­guar­do al­la te­le­vi­sio­ne, di cui si di­scus­se mol­to an­ni fa, il pro­ble­ma non sta­va nel vie­tar­la ai pro­pri fi­gli, ma di li­mi­tar­ne l’u­so, of­fren­do al­ter­na­ti­ve. A vol­te ba­sta un mi­ni­mo di scar­to, ba­sta che uno di­ca: “An­dia­mo fuo­ri” o “di­pin­gia­mo” o “fac­cia­mo una co­stru­zio­ne” e i bam­bi­ni so­no di­spo­ni­bi­li. Ma lo sfor­zo, l’im­pe­gno e la pre­sen­za di chi pro­po­ne al­tro de­ve es­se­re pro­por­zio­na­ta al­la po­ten­za se­dut­ti­va che og­gi han­no i mar­chin­ge­gni elet­tro­ni­ci. De­ve es­se­re quin­di straor­di­na­ria­men­te con­vin­ta.
Que­sta con­vin­zio­ne è ne­ces­sa­ria e ur­gen­te, per­ché io pen­so che si deb­ba rea­gi­re. I bam­bi­ni han­no di­rit­to ad in­con­tra­re adul­ti per­sua­si, adul­ti ca­pa­ci di op­por­si al­le sem­pli­fi­ca­zio­ni e ai mo­di stan­dar­diz­za­ti di in­ten­de­re il gio­co e il tem­po li­be­ro, che in ve­ri­tà è un tem­po oc­cu­pa­to dal mer­ca­to e dal­le mer­ci che im­po­ne.
Noi non pos­sia­mo ac­cet­ta­re che per i bam­bi­ni il prin­ci­pa­le ca­na­le di re­la­zio­ne con il mon­do pas­si at­tra­ver­so uno scher­mo, che la lo­ro na­tu­ra­le cu­rio­si­tà e aper­tu­ra ver­so il mon­do sia vi­zia­ta da uno stru­men­to ar­ti­fi­cia­le per­ma­nen­te­men­te ac­ce­so. E poi sta­re lì ag­gio­ga­ti a scher­mi co­sì pic­co­li non è av­vi­len­te? Ri­cor­do un an­zia­no sce­neg­gia­to­re che rac­con­ta­va l’ef­fet­to che fe­ce sui vec­chi del suo pae­se l’ap­pa­ri­zio­ne del­la te­le­vi­sio­ne. Era­no lì stu­pi­ti, al bar, a guar­da­re quel­lo scher­mo co­sì pic­co­lo ri­spet­to al ci­ne­ma, e uno dis­se ad al­ta vo­ce: “Pa­ro­no tut­ti to­pi”. Og­gi pa­io­no tut­ti for­mi­che…
Il sen­so del tat­to, for­se il più an­ti­co ed ar­cai­co sen­so che ab­bia­mo, non può ri­dur­si al tou­ch­screen, che è un’in­ven­zio­ne ge­nia­le ru­ba­ta al­l’in­fan­zia, che ri­tor­na ai bam­bi­ni nel­la ver­sio­ne più aset­ti­ca e in­cor­po­rea di un toc­co che non in­con­tra al­cun ca­lo­re. Se ri­du­cia­mo il cor­po ai pol­pa­strel­li, co­sa sa­rà del­la men­te?
Quan­do un bam­bi­no pic­co­lo toc­ca un og­get­to sen­te ca­lo­re, con­si­sten­za, pe­so. Ne spe­ri­men­ta le pos­si­bi­li­tà da­te dal­la for­ma e in­ven­ta sto­rie. La me­ta­fo­ra e il lin­guag­gio -ne so­no con­vin­to- na­sco­no da un con­tat­to di­ret­to con le co­se e dal­l’a­per­tu­ra dei sen­si. È il no­stro muo­ver­ci nel­lo spa­zio che ci in­se­gna fin da pic­co­li a muo­ve­re la men­te. La pos­si­bi­li­tà di im­ma­gi­na­re mon­di sta in una re­la­zio­ne vi­va, in un cor­po a cor­po con gli al­tri, con le co­se e con la na­tu­ra che sem­pre ci cir­con­da. Per­ché l’a­ria è ovun­que e co­sì il cie­lo, il so­le, la piog­gia. Ba­sta guar­da­re dal­la fi­ne­stra. La ter­ra ma­ga­ri in cit­tà è più dif­fi­ci­le da in­con­tra­re, ma ba­sta un’o­ra a un giar­di­net­to e per­si­no un sem­pli­ce va­so per co­strui­re, po­co a po­co, un con­tat­to con il mon­do ve­ge­ta­le, co­sì vi­ta­le ed es­sen­zia­le non so­lo per­ché è al­la ba­se del­la so­prav­vi­ven­za del­la no­stra spe­cie sul pia­ne­ta Ter­ra, ma per­ché è fon­te con­ti­nua di stu­po­re e bel­lez­za, per­ché è ir­ri­du­ci­bi­le a noi.
Clau­dio Lon­go, un mio ami­co bo­ta­ni­co che stu­pi­va i suoi stu­den­ti fa­cen­do­gli toc­ca­re la ter­ra al­l’U­ni­ver­si­tà, so­stie­ne che per sal­va­re la ter­ra dob­bia­mo par­ti­re da un con­cet­to da cui tut­ti ten­dia­mo a fug­gi­re: l’in­com­men­su­ra­bi­li­tà. Ciò che più vor­rei far vi­ve­re e spe­ri­men­ta­re a bam­bi­ne e bam­bi­ni con cui la­vo­ro è il sen­so del­la va­sti­tà.
Ma c’è bi­so­gno di cie­lo per spa­zia­re con lo sguar­do, e per que­sto mi av­vi­li­sco ogni vol­ta che ve­do bam­bi­ni co­stret­ti den­tro un mon­do an­gu­sto, in­te­ra­men­te co­strui­to dal­l’uo­mo. Tra la sen­sa­zio­ne di scon­fi­na­tez­za da­ta da uno sguar­do ca­pa­ce di an­da­re lon­ta­no e di fan­ta­sti­ca­re l’ol­tre e l’in­vi­si­bi­le e l’il­lu­sio­ne del­le in­fi­ni­te pos­si­bi­li­tà, con­te­nu­te in un og­get­to pro­get­ta­to da un uo­mo, pen­so ci sia una dif­fe­ren­za di qua­li­tà, un sal­to lo­gi­co.
Non vo­glio con­trap­por­re in mo­do ba­na­le na­tu­ra e tec­no­lo­gia, ma sen­to che dob­bia­mo bi­lan­cia­re un ec­ces­so ed op­por­ci ad una co­lo­niz­za­zio­ne pre­co­ce e vio­len­ta del­l’im­ma­gi­na­rio in­fan­ti­le.
Vi­deo­gio­chi sem­pre nuo­vi, con sti­mo­li vi­si­vi sem­pre più ve­lo­ci, so­fi­sti­ca­ti e ac­cat­ti­van­ti, film e do­cu­men­ta­ri fan­ta­sma­go­ri­ci in 3D non po­tran­no mai so­sti­tui­re un con­tat­to cor­po­reo e sen­so­ria­le con la na­tu­ra, per­ché il sen­so del­la va­sti­tà lo può da­re un pic­co­lo al­be­ro o una nu­vo­la se so­no lì di fron­te a me, ve­ri. Den­tro uno scher­mo ci pos­so­no emo­zio­na­re e coin­vol­ge­re, ma si av­vi­li­sco­no ra­pi­da­men­te per­ché de­sti­na­ti a spe­gner­si. Nel­lo scher­mo non tro­ve­re­mo mai la du­ra­ta. E in­fat­ti chi pro­get­ta scher­mi ha bi­so­gno di cam­bia­re con­ti­nua­men­te i pro­gram­mi, e chi li ac­qui­sta e ne frui­sce non si ac­con­ten­ta mai. E poi quan­do gio­chi da­van­ti a uno scher­mo, an­che se gio­chi in due, la re­la­zio­ne è co­mun­que me­dia­ta da qual­co­sa che è in­cor­po­reo. Se sot­tra­ia­mo ai bam­bi­ni, nel­la pri­ma in­fan­zia, il cor­po, li pri­via­mo di una quan­ti­tà di sti­mo­li, sen­sa­zio­ni, odo­ri, sa­po­ri, gu­sto che so­no vi­ta­li, li pri­via­mo del­la pos­si­bi­li­tà di in­con­tra­re e scon­trar­si con la real­tà e le sue du­rez­ze. Se ca­do e mi fac­cio una pic­co­la fe­ri­ta al gi­noc­chio quel­la pie­tra mi in­se­gna qual­co­sa che nes­sun al­tro mi può in­se­gna­re. Se per­do l’e­qui­li­brio co­no­sce­rò qual­co­sa del mio cor­po e del­la gra­vi­tà che nes­su­na si­mu­la­zio­ne mi può da­re. Tut­to que­sto da­van­ti a uno scher­mo non si può fa­re.
For­se non ce ne ren­dia­mo con­to, ma mon­ta­re in una pri­ma ele­men­ta­re un gran­de scher­mo al po­sto del­la la­va­gna è lan­cia­re un mes­sag­gio sim­bo­li­co di gran­dis­si­ma por­ta­ta ai bam­bi­ni. E quan­do tu lo ac­cen­di cam­bia tut­to. Cam­bia­no le re­la­zio­ni spa­zia­li, per­ché la pa­re­te scher­mo rom­pe ne­ces­sa­ria­men­te il cer­chio in cui ci si guar­da ne­gli oc­chi e la con­ver­sa­zio­ne stes­sa vie­ne al­te­ra­ta.
Io pen­so che, nei pri­mi an­ni, tut­to il la­vo­ro edu­ca­ti­vo de­ve ave­re al suo cen­tro il cor­po e la con­ver­sa­zio­ne, il cor­po che spe­ri­men­ta e le pa­ro­le che no­mi­na­no, do­man­da­no e, so­prat­tut­to, chie­do­no ascol­to. Sen­za ascol­to re­ci­pro­co non c’è scuo­la de­gna di que­sto no­me.
Ma l’a­scol­to re­ci­pro­co non è la co­stru­zio­ne di un gior­no.
Ho vo­lu­to ri­cor­da­re nel mio ap­pel­lo che “Scuo­le del­l’In­fan­zia e Scuo­le Pri­ma­rie, in que­sti an­ni, so­no sta­te uno dei po­chi luo­ghi pub­bli­ci in cui gli im­mi­gra­ti han­no tro­va­to in mol­ti ca­si spa­zio e ac­co­glien­za. La scuo­la ita­lia­na è tra le po­che in Eu­ro­pa che cer­ca di in­te­gra­re i di­sa­bi­li. La con­vi­ven­za non è un in­se­gna­men­to, ma una pra­ti­ca dif­fi­ci­le e quo­ti­dia­na, che ri­chie­de spa­zi, tem­pi e stru­men­ti adat­ti. Se una ge­ne­ra­zio­ne di gio­va­ni in­se­gnan­ti en­tre­rà in scuo­le do­ta­te di Lim e ta­blet ine­vi­ta­bil­men­te, ine­so­ra­bil­men­te, si tro­ve­rà a fa­re co­se che fan­no ma­le ai bam­bi­ni, di­men­ti­can­do ciò che è es­sen­zia­le, sem­pli­ce e dif­fi­ci­le a far­si”.
Tro­vo as­sai gra­ve che si pre­sen­ti l’in­gres­so mas­sic­cio del­la tec­no­lo­gia nel­la scuo­la co­me il cen­tro e la chia­ve del­l’in­no­va­zio­ne di­dat­ti­ca.
Le Lim stan­no ar­ri­van­do nel­le scuo­le in un mo­men­to in cui avan­za la de­ser­ti­fi­ca­zio­ne del­l’e­spe­rien­za di­ret­ta. Le ba­to­ste del­la Mo­rat­ti e del­la Gel­mi­ni han­no ag­gre­di­to e av­vi­li­to una or­ga­niz­za­zio­ne del la­vo­ro che ave­va per­mes­so im­por­tan­ti spe­ri­men­ta­zio­ni ne­gli ul­ti­mi de­cen­ni.
Ma au­men­ta­re il nu­me­ro de­gli alun­ni per clas­se da 25 a 30, 31, di­mi­nui­re dra­sti­ca­men­te le ore di com­pre­sen­za de­gli in­se­gnan­ti e, dun­que, la pos­si­bi­li­tà di la­vo­ra­re in pic­co­li grup­pi e di pre­sta­re at­ten­zio­ne e cu­ra a chi più ne ha bi­so­gno, ren­de pe­ri­co­lo­sa­men­te at­traen­te un uso “so­sti­tu­ti­vo” del­la tec­no­lo­gia. In una scuo­la ho vi­sto un’in­se­gnan­te piaz­za­re da­van­ti al­la Lim bam­bi­ni di se­con­da ele­men­ta­re e pro­pi­nar­gli un pes­si­mo fil­ma­to sca­ri­ca­to a ca­so da You tu­be, clic­can­do “ci­clo del­l’ac­qua”.
Cer­to è più fa­ti­co­so pren­de­re una pen­to­la, tro­va­re un for­nel­let­to, far bol­li­re l’ac­qua e ra­gio­na­re in­sie­me su quel­lo che ac­ca­de. Ci vuo­le tem­po per aspet­ta­re che un pan­no ba­gna­to si asciu­ghi so­pra un ter­mo­si­fo­ne e ci si do­man­di do­v’è fi­ni­ta l’ac­qua. Bi­so­gna ve­stir­si per usci­re e an­da­re a ve­de­re la poz­zan­ghe­ra che si è for­ma­ta fuo­ri dal­la scuo­la e ave­re la pa­zien­za di at­ten­de­re e os­ser­va­re la fi­ne che fa.
Il pri­mo ef­fet­to del­l’in­tro­du­zio­ne del­le nuo­ve tec­no­lo­gie nel­la scuo­la -ne so­no cer­to- sa­rà che di­ven­te­ran­no la prin­ci­pa­le at­trat­ti­va per in­se­gnan­ti ed alun­ni. For­se esa­ge­ro un po’, e so che la mia è una bat­ta­glia mi­no­ri­ta­ria per­ché il mec­ca­ni­smo è or­mai in mo­to e ci so­no gran­di in­te­res­si che fa­ran­no su­pe­ra­re ogni osta­co­lo e tri­te­ran­no ogni buon sen­so. Ma fin­ché sta­rò a scuo­la de­si­de­ro bat­ter­mi per­ché i luo­ghi del­l’e­du­ca­re sia­no ter­ri­to­ri li­be­ri di spe­ri­men­ta­zio­ne at­ti­va, luo­ghi da abi­ta­re nel sen­so più pie­no del ter­mi­ne, por­tan­do­vi og­get­ti ca­pa­ci di su­sci­ta­re cu­rio­si­tà, do­man­de, ipo­te­si aper­te. Luo­ghi da cui si può usci­re per in­con­tra­re la cit­tà e chi la abi­ta per rac­co­glie­re sto­rie.
I ge­ni­to­ri so­no fuo­ri cau­sa or­mai?
Il mon­do adul­to e mol­tis­si­mi ge­ni­to­ri, com­pre­si i più sen­si­bi­li e ac­cor­ti, han­no una gran­dis­si­ma dif­fi­col­tà a cu­ra­re la cre­sci­ta dei lo­ro fi­gli pro­teg­gen­do­li dal di­lu­vio tec­no­lo­gi­co. La pub­bli­ci­tà e l’i­mi­ta­zio­ne re­gna­no so­vra­ne e la cul­tu­ra cor­ren­te ten­de ad esal­ta­re le po­ten­zia­li­tà che la tec­no­lo­gia of­fre a tut­te le età in mo­do acri­ti­co, per cui un bam­bi­no og­gi sem­bra non pos­sa vi­ve­re se non ha una play­sta­tion co­sì co­me un ra­gaz­zo non esi­ste se non ha un cel­lu­la­re per te­ner­si in con­ti­nuo con­tat­to con i suoi pa­ri.
An­che nel­le si­tua­zio­ni di mag­gio­re po­ver­tà, in cui ma­ga­ri non ci so­no i gio­chi più so­fi­sti­ca­ti, il te­le­fo­ni­no non man­ca mai, per­ché ci so­no più cel­lu­la­ri che abi­tan­ti in Ita­lia. E poi­ché bam­bi­ne e bam­bi­ni, pri­ma di co­min­cia­re a cam­mi­na­re, in­con­tra­no la ma­gi­ca po­ten­za di que­sto og­get­to, che al so­lo tril­la­re o suo­na­re in­ter­rom­pe ogni at­ten­zio­ne e con­ver­sa­zio­ne e por­ta al­tro­ve chi lo pos­sie­de, non pos­so­no non pro­va­re re­ve­ren­za e de­si­de­rio ver­so un og­get­to tan­to pic­co­lo quan­to po­ten­te. Da quan­do gli iPho­ne e la nuo­va ge­ne­ra­zio­ne di cel­lu­la­ri per­met­te agli adul­ti di sta­re con­ti­nua­men­te in re­te, in qua­lun­que luo­go del­la ca­sa o del mon­do si tro­vi­no, i bam­bi­ni so­no co­stret­ti a fa­re i con­ti con una nuo­va for­ma di di­scon­nes­sio­ne adul­ta. I bam­bi­ni han­no sem­pre do­vu­to com­bat­te­re con­tro la di­stra­zio­ne di adul­ti che non li stan­no a sen­ti­re, ben pri­ma del­l’at­tua­le in­no­va­zio­ne tec­no­lo­gi­ca. Ciò che mi sem­bra stia cam­bian­do ra­di­cal­men­te e ra­pi­da­men­te sta nel fat­to che, an­che da pic­co­lis­si­mi, i bam­bi­ni ri­ven­di­ca­no il di­rit­to ad ave­re an­che lo­ro di­stra­zio­ni al­tret­tan­to po­ten­ti. E poi­ché scher­mi an­che di mi­ni­ma di­men­sio­ne so­no in gra­do di am­mu­to­li­re e rim­bam­bi­re an­che i più vi­va­ci tra i pic­co­li, ec­co che si vie­ne a crea­re un’al­lean­za mi­ci­dia­le tra esi­gen­ze del mer­ca­to (che for­se sa­reb­be più pro­prio tor­na­re a chia­ma­re del Ca­pi­ta­le, vi­sto che a gua­da­gnar­ci tan­to so­no sem­pre po­chi) ed esi­gen­ze de­gli adul­ti, te­se a neu­tra­liz­za­re gli ir­ri­du­ci­bi­li de­si­de­ri del­l’in­fan­zia. È in que­sto qua­dro che dob­bia­mo ri­co­min­cia­re a ra­gio­na­re su co­sa sia im­por­tan­te fa­re a scuo­la.
Quan­do ho co­min­cia­to a in­se­gna­re, al­la fi­ne de­gli an­ni Set­tan­ta, cir­co­la­va un pic­co­lo li­bro del Mo­vi­men­to di Coo­pe­ra­zio­ne Edu­ca­ti­va (Mce) in­ti­to­la­to A scuo­la con il cor­po. Era una pro­po­sta e un ma­ni­fe­sto pro­gram­ma­ti­co. In­sie­me ad al­tri ci cre­de­va­mo mol­to, per­ché ci sem­bra­va il mi­glior mo­do per an­da­re ver­so i bam­bi­ni as­sa­po­ran­do una li­ber­tà tut­ta da sco­pri­re, in una scuo­la che in tan­ti, al­lo­ra, si cer­ca­va di rein­ven­ta­re.
Ma­ni­po­la­re og­get­ti, ro­to­lar­si con gli al­tri, im­pia­stric­ciar­si di ter­ra o di co­lo­re, suo­na­re ogni ge­ne­re di co­se, fa­re tea­tro e an­co­ra tea­tro in ogni luo­go, ri­mo­del­la­re gli spa­zi non dan­do per scon­ta­to nul­la del­l’ar­chi­tet­tu­ra del­le au­le ci sem­bra­va do­ves­se es­se­re al­la ba­se di ogni co­no­scen­za nel­la scuo­la ma­ter­na e nel­le ele­men­ta­ri. E poi scri­ve­re gior­na­li mu­ra­li gi­gan­ti per im­pa­ra­re a leg­ge­re a par­ti­re da ciò che si ve­de, si toc­ca, si spe­ri­men­ta. Im­pa­ra­re a con­ta­re ma­ni­po­lan­do og­get­ti e in­ven­tan­do co­stru­zio­ni… Ales­san­dra Ginz­burg, che in que­gli an­ni di­ri­ge­va una scuo­la del­l’in­fan­zia del Co­mu­ne di Ro­ma, pio­nie­ra nel­l’in­se­ri­men­to e nel­l’ac­co­glien­za di bam­bi­ni di­sa­bi­li, ci di­ce­va una fra­se che non ho più di­men­ti­ca­to: “l’e­mo­zio­ne è la ma­dre del pen­sie­ro”. Fu­ro­no an­ni, quel­li, di ri­for­me dav­ve­ro ri­vo­lu­zio­na­rie per­ché nel 1977, con la leg­ge 517, bam­bi­ne e bam­bi­ni di­sa­bi­li co­min­cia­ro­no a en­tra­re nel­le scuo­le, co­sa che an­co­ra og­gi si fa in ben po­chi pae­si eu­ro­pei.
Aiu­ta­ti da que­sto gran­de cam­bia­men­to, co­min­ciam­mo a da­re un si­gni­fi­ca­to più am­pio al­la pa­ro­la cor­po, che per noi del Mce non era so­lo la fi­si­ci­tà, ma il bam­bi­no tut­to in­te­ro, che chie­de­va an­che a noi in­se­gnan­ti di es­se­re tut­ti in­te­ri e di met­ter­ci in gio­co. Co­min­ciam­mo a chia­ma­re al­lo­ra quel­la ri­cer­ca, dif­fi­ci­le e im­pe­gna­ti­va, pe­da­go­gia del­l’a­scol­to.
Mi vie­ne da ri­cor­da­re tut­to ciò per­ché so­no pro­fon­da­men­te con­vin­to che an­co­ra ades­so, e for­se ades­so an­cor più di pri­ma, è dal cor­po che dob­bia­mo par­ti­re, se vo­glia­mo ave­re una scuo­la ca­pa­ce di af­fron­ta­re i pro­ble­mi dei bam­bi­ni di og­gi.
Mi vie­ne vo­glia di ri­cor­da­re tut­to que­sto per­ché ve­do quan­ti pas­si in­die­tro si so­no fat­ti in que­sti an­ni nel­le scuo­le.
An­che gli in­se­gnan­ti ri­schia­no di cam­bia­re…
La co­sa più bel­la che può ac­ca­de­re a scuo­la, per me, è ve­de­re un bam­bi­no as­sor­to che spe­ri­men­ta o in­ven­ta ma­neg­gian­do un qual­sia­si og­get­to, ve­de­re un grup­po di bam­bi­ni che si ac­cor­da per fa­re un gio­co o un’im­pre­sa e poi ba­sta uno scar­to, un in­ciam­po, per­ché tut­ti si ri­da. A vol­te ba­sta un pic­co­lo sti­mo­lo per of­fri­re un al­tro mo­do di guar­da­re al­le co­se e ra­gio­na­re in­sie­me, ba­sta­no due pa­ro­le in­con­gruen­ti che si scon­tra­no per far na­sce­re una sto­ria, una ri­ma, per­ché i bam­bi­ni han­no straor­di­na­rie ca­pa­ci­tà nel­l’in­trec­cia­re sen­so e non sen­so.
Ma il pri­mo pro­ble­ma è sem­pre quel­lo di co­me ci di­spo­nia­mo nel­lo spa­zio. Se l’au­la è sem­pre ugua­le, se si sta sem­pre se­du­ti stret­ti den­tro ta­vo­li­ni ver­di orien­ta­ti ver­so un’u­ni­ca di­re­zio­ne, sa­rà dif­fi­ci­le far cir­co­la­re i pen­sie­ri.
Per­ché que­sto ac­ca­da c’è bi­so­gno di una gran­de cu­rio­si­tà da par­te di noi adul­ti e che il no­stro de­si­de­rio di ascol­to sia sin­ce­ro. I bam­bi­ni so­no spie­ta­ti in quan­to a ve­ri­tà. Si ac­cor­go­no al­l’i­stan­te se qual­cu­no li ascol­ta o fa fin­ta di ascol­tar­li e io sen­to che l’ar­te del­la con­ver­sa­zio­ne, che per me do­vreb­be es­se­re al­la ba­se di ogni re­la­zio­ne edu­ca­ti­va, so­no ben po­chi quel­li ri­ma­sti ad in­se­gnar­la.
Da pa­rec­chi an­ni i po­chi in­se­gnan­ti gio­va­ni che en­tra­no nel­la scuo­la non han­no al­cu­na for­ma­zio­ne ri­guar­do al­le for­me del­l’e­du­ca­re, al me­to­do, al­la cu­ra del con­te­sto. Del re­sto Giu­lio Tre­mon­ti, il peg­gior mi­ni­stro del­l’I­stru­zio­ne che l’I­ta­lia ab­bia avu­to, al tem­po in cui fin­ge­va di oc­cu­par­si di scuo­la l’or­ri­da Gel­mi­ni, dis­se: “È ve­ro, ab­bia­mo una scuo­la ele­men­ta­re di qua­li­tà, ma non ce la pos­sia­mo per­met­te­re”. E giù tut­te quel­le bo­ia­te sul­la ne­ces­si­tà di ri­tor­na­re al mae­stro uni­co, giu­sti­fi­ca­to dal­la Mo­rat­ti per co­pri­re il ve­ro sco­po del­l’an­ti­ri­for­ma, che era quel­lo di to­glie­re sol­di al­la scuo­la.
L’ef­fet­to che ha avu­to tut­ta la se­rie di leg­gi che si è ab­bat­tu­ta sul­la scuo­la è sta­to quel­lo di ab­ban­do­na­re mag­gior­men­te a se stes­si quei bam­bi­ni che, nel­la plu­ra­li­tà e com­pre­sen­za di in­se­gnan­ti e nel tem­po lun­go del­la scuo­la, tro­va­va­no la pos­si­bi­li­tà di es­se­re mag­gior­men­te so­ste­nu­ti.
La ce­ci­tà dei go­ver­ni è sta­ta aber­ran­te in que­sti an­ni, per­ché tut­ti san­no che sen­za un ele­va­men­to del li­vel­lo di istru­zio­ne non ci sa­ran­no né in­no­va­zio­ni né al­ter­na­ti­ve di svi­lup­po, che so­no tut­te da in­ven­ta­re. Pur­trop­po de­vo di­re che in que­sta sot­to­va­lu­ta­zio­ne del ruo­lo del­la scuo­la an­che la si­ni­stra ha le sue re­spon­sa­bi­li­tà e il sin­da­ca­to trop­po spes­so si trin­ce­ra in una di­fe­sa del­l’e­si­sten­te più che in un ri­pen­sa­men­to ge­ne­ra­le e in una pro­get­ta­zio­ne del fu­tu­ro. In­ve­ce la scuo­la e noi in­se­gnan­ti ab­bia­mo bi­so­gno di cul­tu­ra, di tan­ta ar­te e scien­za e buo­na cul­tu­ra, per­ché per sta­re in­sie­me ed ascol­ta­re i bam­bi­ni, i ri­fe­ri­men­ti de­vo­no es­se­re al­ti e bi­so­gna ave­re la ca­pa­ci­tà di an­da­re in pro­fon­di­tà.
Que­sto è uno dei mo­ti­vi per cui mi ar­rab­bio tan­to quan­do ve­do tut­ta que­sta esal­ta­zio­ne in­tor­no al­le in­no­va­zio­ni tec­no­lo­gi­che, co­me se que­sto fos­se il pro­ble­ma del­la scuo­la.
Per ogni ora di for­ma­zio­ne sul­le Lim, che è giu­sto fa­re per­ché non ha sen­so ave­re stru­men­ti che poi non sap­pia­mo usa­re, pre­ten­do al­me­no due ore di for­ma­zio­ne sul­la let­tu­ra co­me pia­ce­re e co­me pos­si­bi­li­tà di in­ven­ta­re e sco­pri­re mon­di, an­che sul­la let­te­ra­tu­ra in­fan­ti­le, che ben po­chi fre­quen­ta­no a scuo­la e di cui ci so­no ve­ri e pro­pri ca­po­la­vo­ri, ca­pa­ci di ac­chiap­pa­re l’at­ten­zio­ne dei bam­bi­ni più osti­li al­la let­tu­ra, co­me i me­ra­vi­glio­si clas­si­ci di Roald Da­hl e al­cu­ni re­cen­ti, bel­lis­si­mi, di Da­vid Al­mond.
Ore di scien­za pra­ti­ca e pra­ti­ca­bi­le per i bam­bi­ni, “of­fi­ci­ne ma­te­ma­ti­che” per fa­re ap­pas­sio­na­re i più pic­co­li al­la lo­gi­ca e al­le com­bi­na­zio­ni, per­ché la geo­me­tria non si può in­se­gna­re sen­za av­vi­ci­nar­la al­l’ar­te e al­l’ar­chi­tet­tu­ra, dun­que al­la bel­lez­za. E poi la mu­si­ca, tan­ta mu­si­ca, per­ché can­ta­re e suo­na­re in­sie­me non è in­trat­te­ni­men­to, ma co­stru­zio­ne di una co­mu­ni­tà. Non do­vrem­mo di­men­ti­ca­re mai che una stes­sa pa­ro­la -jouer- in di­ver­se lin­gue no­mi­na in­sie­me il gio­ca­re, suo­na­re e re­ci­ta­re. En­tra­re in que­sta pa­ro­la po­treb­be es­se­re il te­ma di un cor­so di for­ma­zio­ne del­la du­ra­ta di un an­no. Nel­la mia espe­rien­za nul­la co­me il tea­tro, rea­liz­za­to de­di­can­do­gli mol­to tem­po, aiu­ta cia­scu­no a in­con­tra­re se stes­so, al­lon­ta­nan­do al­me­no un po’ pre­giu­di­zi e ste­reo­ti­pi che fa­cil­men­te si os­si­fi­ca­no in ogni clas­se.
Di­ce­vi che il bam­bi­no di fron­te a uno scher­mo si sen­te al si­cu­ro, ma è fuo­ri che si com­pio­no dei pic­co­li ri­ti d’i­ni­zia­zio­ne che com­por­ta­no an­che la pau­ra, lo scon­tro con la real­tà…
Per in­con­tra­re la real­tà bi­so­gna non aver­ne pau­ra. Per­so­nal­men­te ero co­sì fis­sa­to con que­sta sto­ria de­gli spa­zi edu­ca­ti­vi che più di 30 an­ni fa, con un grup­po di ami­che e ami­ci, ab­bia­mo fon­da­to la ca­sa-la­bo­ra­to­rio di Cen­ci. De­si­de­ra­va­mo un luo­go do­ve spe­ri­men­ta­re la re­la­zio­ne tra adul­ti e bam­bi­ni in spa­zi e tem­pi po­co fre­quen­ta­ti: il bo­sco e la not­te, ad esem­pio, aven­do per com­pa­gni il si­len­zio e il cie­lo stel­la­to. Quel ti­po di espe­rien­za, sep­pu­re par­zia­le e prov­vi­so­ria per­ché vis­su­ta dai bam­bi­ni per po­chi gior­ni, so che pro­du­ce ef­fet­ti du­ra­tu­ri nel tem­po, per­ché la­scia aper­te sen­sa­zio­ni e do­man­de. Beh, sai co­sa ci è ac­ca­du­to lo scor­so an­no? Una mam­ma, gior­na­li­sta ra­dio­fo­ni­ca ac­cul­tu­ra­ta e su­pe­rin­for­ma­ta, ci ha chie­sto smar­ri­ta se la ca­sa era re­cin­ta­ta. È vo­lu­ta ve­ni­re a ve­der­la e poi ha scel­to di non man­da­re la fi­glia di 10 an­ni al “vil­lag­gio edu­ca­ti­vo” che or­ga­niz­zia­mo in lu­glio. Re­cin­ti. Re­cin­ti d’o­gni sor­ta in cui rin­chiu­de­re i bam­bi­ni. Que­sta la pre­oc­cu­pa­zio­ne prin­ci­pa­le di una gran­de quan­ti­tà di adul­ti! Io pen­so che sia­mo un pae­se di vec­chi im­pau­ri­ti, at­trat­ti dal de­si­de­rio di re­cin­ta­re e si­gil­la­re il mon­do del­l’in­fan­zia. Iper­pro­tet­ti e po­co ascol­ta­ti, i bam­bi­ni si spor­ca­no sem­pre me­no e sem­bra che deb­ba­no vi­ve­re in un mon­do ste­ri­liz­za­to e lio­fi­liz­za­to, sec­co e pu­re un po’ sti­ti­co, per­ché la mer­da che pro­du­cia­mo ce la te­nia­mo tut­ta den­tro. In ogni ca­so po­co ge­ne­ro­so con i più pic­co­li.
Quel­lo che te­mo di più è l’al­lean­za tra tec­no­lo­gia com­pul­si­va e ge­ni­to­ri im­pau­ri­ti, con i vi­deo che di­ven­ta­no il luc­chet­to con cui si chiu­de il re­cin­to che im­pri­gio­na bam­bi­ni sem­pre più pri­va­ti di espe­rien­ze di­ret­te. È chia­ro che poi, ap­pe­na avu­ta la pa­ten­te, trop­pi ra­gaz­zi si an­dran­no a sbal­la­re e a schian­ta­re. Se non per­met­tia­mo più ai bam­bi­ni di mi­su­rar­si con av­ven­tu­re che per­met­ta­no lo­ro di pren­de­re la mi­su­ra del­le co­se, quan­do nel­l’a­do­le­scen­za si tro­ve­ran­no ob­bli­ga­ti a get­tar­si nel mon­do, non avran­no gli stru­men­ti per far­lo. Co­sì cer­che­ran­no l’ec­ces­so o si de­pri­me­ran­no.
Iper­pro­tet­ti e po­co ascol­ta­ti, di­ce­vo, ma straor­di­na­ria­men­te fo­to­gra­fa­ti e fil­ma­ti. Gra­zie al fat­to che or­mai ogni stru­men­to che ab­bia­mo in ma­no è an­che una mac­chi­na fo­to­gra­fi­ca, non c’è mo­men­to del­l’e­si­sten­za che sfug­ga. Una mam­ma in­cin­ta mo­stra­va or­go­glio­sa sul di­splay del suo cel­lu­la­re l’e­co­gra­fia del fi­glio che ave­va in pan­cia e sin­ce­ra­men­te, quel suo ren­de­re pub­bli­ca un’e­spe­rien­za co­sì in­ti­ma, mi ha mes­so a di­sa­gio. Co­sì co­me mi met­te a di­sa­gio ve­de­re le fo­to ri­di­col­men­te osé di bam­bi­ne di quin­ta ele­men­ta­re del pae­se do­ve in­se­gno, che la col­la­bo­ra­tri­ce sco­la­sti­ca con­trol­la in com­but­ta con i ge­ni­to­ri, che non han­no ac­ces­so al­le pa­gi­ne del­le fi­glie…
Sa­rò un vec­chio bab­bio­ne, ma c’è qual­co­sa che non tor­na.
Sem­bra qua­si che la scuo­la deb­ba con­trap­por­si, con­tro­bi­lan­cia­re la ca­sa…
Ri­spet­to al­l’in­va­sio­ne mi­cro-me­dia­ti­co ca­sa­lin­ga a cui mol­ti bam­bi­ni so­no sot­to­po­sti, mi ver­reb­be da di­re: la­scia­mo­li in pa­ce, la­scia­mo­li un po’ so­li. Dia­mo­gli il di­rit­to di na­scon­der­si, di al­lon­ta­nar­si, di fa­re qual­co­sa si­len­zio­si in un an­go­lo, non con­trol­la­ti.
I bam­bi­ni, tra l’al­tro, nel no­stro pae­se so­no po­chi e si sen­te. Ba­sta at­tra­ver­sa­re il Me­di­ter­ra­neo e sul­l’al­tra co­sta ci so­no bam­bi­ni dap­per­tut­to. Sia­mo una so­cie­tà vec­chia in cui i bam­bi­ni so­no un’in­fi­ma mi­no­ran­za e que­sto cam­bia mol­te co­se, per­ché su ogni bam­bi­no si con­cen­tra l’at­ten­zio­ne di due ge­ni­to­ri, quat­tro non­ni, spes­so al­tri non­ni ac­qui­si­ti, cioè una gran­de quan­ti­tà di adul­ti, con tut­te le lo­ro aspet­ta­ti­ve, che per il bam­bi­no e poi per il ra­gaz­zo di­ven­ta­no pre­sto un pe­so, vi­sto che la real­tà del fu­tu­ro che lo aspet­ta è tut­t’al­tro che ro­seo. Ho la sen­sa­zio­ne che gli adul­ti, in qual­che mo­do, ap­pe­san­ti­sca­no la vi­ta dei bam­bi­ni cir­con­dan­do­li di trop­po di tut­to. Ma i bam­bi­ni han­no bi­so­gno an­che di vuo­to, per nu­trir­si.
Pen­so ad esem­pio che il tea­tro spon­ta­neo in­fan­ti­le, la mi­me­si, il fat­to che bam­bi­ne e bam­bi­ni spe­ri­men­ti­no il lin­guag­gio imi­tan­do i suo­ni e la for­ma del­le co­se, “de­li­ran­do” in­tor­no al sen­so de­gli og­get­ti, na­sca dal fat­to che ogni bam­bi­no è in qual­che mo­do ca­pi­ta­to nel­la ca­sa, nel­la fa­mi­glia, nel­la cit­tà che abi­ta, e for­se per­si­no su que­sto pia­ne­ta, sen­za aver­lo scel­to. È pre­ci­pi­ta­to qui, sen­za sa­pe­re co­me. Tut­to il suo sfor­zo di adat­ta­men­to, che è enor­me -cer­te vol­te fe­li­ce, cer­te vol­te me­no- sta nel cer­ca­re di ca­pi­re “per­ché so­no qua”. In que­sta ri­cer­ca di com­pren­sio­ne e di sen­so il tea­tro spon­ta­neo in­fan­ti­le ha una fun­zio­ne fon­da­men­ta­le, nel sen­so che il bam­bi­no si tro­va con­ti­nua­men­te a fin­ge­re che, ac­can­to a que­sto mon­do dif­fi­cil­men­te com­pren­si­bi­le, ce ne sia­no al­tri di mon­di, più vi­ci­ni al suo sen­ti­re.
In que­sta fin­zio­ne il nuo­vo ar­ri­va­to si tro­va a gio­ca­re tan­te par­ti, un po’ co­me so­no co­stret­ti a fa­re gli im­mi­gra­ti. E sce­glie le par­ti da gio­ca­re os­ser­van­do con at­ten­zio­ne le par­ti che gio­ca­no pa­pà e mam­ma o i fra­tel­li e le so­rel­le, se ci so­no… È in que­sto gran­de gio­co del­l’a­dat­ta­men­to che co­min­cia­mo, po­co a po­co, a sco­pri­re chi sia­mo. Sto par­lan­do dei pri­mis­si­mi an­ni di vi­ta e in que­sto tem­po lo spa­zio ha una gran­dis­si­ma im­por­tan­za. Se riem­pia­mo ogni luo­go di og­get­ti, se sti­pia­mo lo spa­zio ed il tem­po, i bam­bi­ni non han­no la for­za di pren­de­re in ma­no le lo­ro espe­rien­ze e fi­ni­sco­no per ce­de­re, sdra­ian­do­si pas­si­va­men­te su un di­va­no da­van­ti al­la te­le­vi­sio­ne o agi­tan­do­si com­pul­si­va­men­te di fron­te al­lo scher­mo ac­ce­so di un vi­deo­gio­co. Co­sì li ren­dia­mo pi­gri, nel­l’e­tà in cui mag­gio­ri so­no gli im­pul­si e le ener­gie del cor­po, e que­sto per me è un de­lit­to.
C’è una fra­se di An­na Ma­ria Or­te­se, in Cor­po ce­le­ste, che mi dà sem­pre mol­to da pen­sa­re.
“Il ra­gaz­zo è so­lo. Il suo ap­pros­si­mar­si -e poi la ca­du­ta, spes­so uno scon­tro con la ter­ra e il mon­do co­sid­det­to rea­le- av­vie­ne co­sì. È un’e­sta­si, e un im­pat­to. Ave­re, in que­ste cir­co­stan­ze, mez­zi espres­si­vi, es­se­re edu­ca­ti a usa­re que­sti mez­zi, po­treb­be vo­ler di­re es­se­re for­ni­ti di un pa­ra­ur­ti, o di un pa­ra­ca­du­te. Si­gni­fi­che­reb­be en­tra­re nel mon­do -del rea­le- per il ver­so giu­sto e pro­prio del­l’a­ni­mo del­l’uo­mo che è il fat­to crea­ti­vo. […] Nel­la sua edu­ca­zio­ne, o na­sci­ta al mon­do, è man­ca­to l’ap­por­to del­la sua pro­pria crea­ti­vi­tà. Egli ha tro­va­to tut­to già fat­to. E il tut­to fat­to -da al­tri- lo di­strug­ge­rà. […] Quan­do si ac­cor­ge­rà del­la sua am­pu­ta­zio­ne fan­ta­sti­ca, o crea­ti­va, vor­rà di­strug­ge­re. Co­sì ho sem­pre pen­sa­to che il pro­ble­ma mas­si­mo del mon­do -e del­la sua pa­ce, an­che se re­la­ti­va- sia ave­re dei bam­bi­ni in gra­do di en­tra­re nel mon­do co­sid­det­to adul­to crean­do, es­si stes­si, e non, in­ve­ce, ap­pro­prian­do­si e di­strug­gen­do”.
Ec­co, di que­sta am­pu­ta­zio­ne fan­ta­sti­ca mi pre­oc­cu­po e sen­to che un abu­so di tec­no­lo­gia, nel­la pri­ma in­fan­zia, può co­sti­tui­re un osta­co­lo al­le pos­si­bi­li­tà of­fer­te dal­l’at­to crea­ti­vo.
E poi­ché il “tut­to già fat­to da al­tri” ha da tem­po la for­ma del­l’au­dio­vi­si­vo, de­cli­na­to in tut­te le sue pos­si­bi­li va­rian­ti, un’i­po­te­si su cui la­vo­ro da an­ni sta in una pic­co­la in­di­ca­zio­ne da pro­por­re ai bam­bi­ni: re­ga­lia­mo lo­ro un po’ di vi­deo sen­za au­dio e un po’ di au­dio sen­za vi­deo. Per vi­deo sen­za au­dio in­ten­do gli sguar­di si­len­zio­si che è pos­si­bi­le de­di­ca­re al­la na­tu­ra. Ho vi­sto bam­bi­ni scal­ma­na­ti so­sta­re si­len­zio­si da­van­ti a un tra­mon­to o a un’al­ba, an­che per mol­to tem­po, stu­pen­do gli in­se­gnan­ti che li ac­com­pa­gna­va­no.
Quan­do di­pin­go a scuo­la con i bam­bi­ni im­pon­go lo­ro il si­len­zio as­so­lu­to, co­me con­di­zio­ne ob­bli­ga­to­ria. Al­l’i­ni­zio fa­ti­ca­no un po’, ma è co­sì evi­den­te la di­ver­sa qua­li­tà dei lo­ro ge­sti, quan­do so­no fat­ti in si­len­zio, che al­la fi­ne lo­ro stes­si sen­to­no il bi­so­gno di quel­la con­cen­tra­zio­ne. Del re­sto ri­ma­si pro­fon­da­men­te col­pi­to quan­do un mae­stro di pia­no­for­te mi do­man­dò a bru­cia­pe­lo, qual­che an­no fa: “Per­ché a scuo­la la­vo­ra­te co­sì po­co sul­la con­cen­tra­zio­ne?”. La con­cen­tra­zio­ne è un’al­lea­ta ef­fi­ca­ce e ge­ne­ro­sa del­la crea­ti­vi­tà, ma è co­sì po­co com­pre­sa og­gi.
Ri­guar­do al­l’au­dio sen­za vi­deo pen­so a quan­to ai bam­bi­ni piac­cia ascol­ta­re del­le sto­rie. Nel­l’ac­com­pa­gna­re il pas­sag­gio pe­ri­co­lo­so dal­la ve­glia al son­no con pa­ro­le che evo­ca­no mon­di lon­ta­ni, c’e­ra una gran­de sag­gez­za. Il bam­bi­no af­fron­ta­va il pas­sag­gio al mon­do del son­no sor­ret­to dal fi­lo di una vo­ce ami­ca che nar­ra e tie­ne com­pa­gnia. Quel­la vo­ce fa ve­de­re a oc­chi chiu­si co­se che con gli oc­chi aper­ti non si ve­do­no. È un’e­spe­rien­za mol­to pro­fon­da que­sta, che è as­sai tri­ste ne­ga­re ai bam­bi­ni. Og­gi, nel­le ca­se, la mag­gior par­te dei bam­bi­ni si ad­dor­men­ta di fron­te ad uno scher­mo ac­ce­so, nel­la più com­ple­ta so­li­tu­di­ne.
Ita­lo Cal­vi­no so­ste­ne­va che le fia­be al­tro non so­no che un ca­ta­lo­go di de­sti­ni. De­sti­ni che si sve­la­no pas­san­do at­tra­ver­so pro­ve, sfi­de e mon­di di­ver­si. Mi­ti, ri­ti, ar­te, fi­lo­so­fie e re­li­gio­ni per se­co­li han­no scan­da­glia­to pau­re e pos­si­bi­li­tà of­fer­te da al­tri mon­di, pos­si­bi­li e im­pos­si­bi­li, vi­ci­ni e lon­ta­nis­si­mi. Se la tec­no­lo­gia apre nuo­vi mon­di, che in­te­ra­gi­sco­no e tra­sfor­ma­no la real­tà, o al­me­no la per­ce­zio­ne che ab­bia­mo del­la real­tà, co­me un tem­po fa­ce­va­no i mi­ti, dob­bia­mo at­trez­zar­ci per l’im­pre­sa. Poi­ché il de­sti­no del­l’in­fan­zia è il no­stro de­sti­no, non vor­rei che si des­se nul­la per scon­ta­to.
(a cu­ra di Gian­ni Sa­po­ret­ti)