realizzata da Gianni Saporetti
RECINTI D’OGNI SORTA
Il rischio che l’introduzione di lavagne interattive nella scuola dell’infanzia e nei primi anni delle elementari, in una situazione in cui il bambino a casa è già circondato da schermi e da telefonini, impoverisca grandemente la sua formazione, di cui l’uso del tatto e del corpo, l’osservazione in spazi grandi, il confronto anche duro con la realtà esterna e con gli altri, era parte fondamentale; il rischio di un bambino iperprotetto a suo agio solo di fronte a uno schermo. Intervista a Franco Lorenzoni.
Sono molto preoccupato che i bambini, già a tre anni, vivano circondati da schermi e sono ancor più preoccupato che nella scuola dell’infanzia e nei primi anni della scuola elementare si introducano le Lim (Lavagne interattive multimediali) come strumento del lavoro didattico quotidiano. Il rischio, molto concreto, è che gli schermi diventino, per i bambini, il principale strumento di relazione con il mondo. Da quando ci sono i telefonini di ultima generazione e gli iPhone, tra l’altro, bambine e bambini anche molto molto piccoli sono attratti irresistibilmente da questi piccoli oggetti dotati di schermo, ricchissimi di proposte e seduzioni pensate per l’infanzia. Circondati da adulti spesso immersi per ore nel mondo virtuale, mi piacerebbe che i bambini, almeno a scuola, trovassero adulti capaci di indicare loro altre strade di gioco e di conoscenza. La scuola non dovrebbe mai appiattirsi sul presente e seguire le mode, ma essere un luogo capace di arginare, attenuare e criticare gli effetti di una invasione che sta cambiando profondamente le relazioni sociali ed il rapporto con la realtà.
La mia idea è molto semplice. Se la società si getta a capofitto in una direzione, la scuola dei più piccoli deve muoversi seguendo un principio elementare di precauzione, rifiutando di adeguarsi all’invasione tecnologica. L’idea di insegnare a leggere e a scrivere usando tablet e lavagne interattive mi sembra totalmente discutibile. Da qui nasce il mio appello perché almeno nel tempo scolastico, fino alla fine della seconda elementare, i bambini non incontrino schermi. Usino le mani tutte intere e tocchino la creta e anche un po’ di terra per piantare dei semi, anche in un giardinetto, insomma facciano cose che non li allontanino dalla realtà. Ho riletto di recente un bellissimo e famoso intervento di Elsa Morante contro la bomba atomica, dove nomina quella tecnologia distruttiva come drago dell’irrealtà, a cui l’arte e la poesia si debbono ribellare. Ecco, io penso che in questo momento il drago dell’irrealtà sia rappresentato dall’onnipresente onda tecnologica in cui è costretta a nuotare la prima infanzia. Il mercato non ha remore e non si ferma davanti a nulla. Se i bambini sono attratti da schermi accesi di ogni dimensione, ogni minuto della loro vita sarà riempito di schermi, con la complicità di noi adulti, a nostra volta storditi dalle infinite possibilità di comunicare (o credere di comunicare), che tecnologie sempre nuove offrono, tra l’altro a caro prezzo…
Ho insegnato tre anni nella scuola dell’infanzia e da più di trenta insegno nella scuola elementare. Frequentando quotidianamente bambine e bambini ho maturato la convinzione che esista una “cultura infantile”: una cultura che per sua natura è provvisoria, perché riguarda il nostro guardare e pensare il mondo nei primi anni, ma che in qualche modo sopravvive negli strati più profondi del nostro essere tutta la vita.
Tra le sue caratteristiche c’è lo scambiare il dettaglio con il tutto, il credere all’incredibile, il non soggiacere al principio di non contraddizione e, soprattutto, il sentirsi “sconfinati”, con le emozioni positive e negative che tutto ciò comporta. Sconfinati e sconfinanti, perché bambine e bambini piccoli hanno un modo di rapportarsi ai confini molto diverso dal nostro. I confini tra interno ed esterno, tra ciò che è vivo e non è vivo, tra il percepire e l’immaginare non conoscono frontiere armate e passaporti, come per noi adulti. I bambini attraversano continuamente questi confini perché si mettono in gioco e credono nei giochi che fanno. Perché sanno credere e non credere a una cosa al tempo stesso, lasciando convivere pacificamente le due convinzioni, come avviene per anni con Babbo Natale. E poiché la sospensione di incredulità è la miglior qualità che dovremmo avere noi adulti quando ci concediamo di essere spettatori o lettori di libri, ecco uno dei tanti motivi per cui ha così grande valore la cultura infantile, da cui continuiamo a pescare per tutta la vita.
Non credo che i bambini siano più buoni -perché possono essere capaci di crudeltà piccole e grandi- ma certamente sono più aperti verso il mondo e generalmente più disponibili verso gli altri.
Questo insieme di modi e capacità proprie dell’animo infantile sono un bene così prezioso, che dovremmo averne tutti una grandissima cura. Non solo genitori, parenti o insegnanti, ma chiunque abbia in sorte di trascorrere qualche momento con un bambino.
Odori, sapori e visioni della prima infanzia sono una miniera non solo per gli artisti, che ne hanno sempre fatto bottino a piene mani, ma per chiunque ami l’umano nel senso più pieno del termine, o voglia prenderci per il naso, come fanno i pubblicitari…
Questo è il motivo per cui sono molto preoccupato all’idea che la prima infanzia sia privata di alcune esperienze basilari ed essenziali, che tanto peso hanno poi per tutta la vita. Il gioco simbolico che ti permette di cavalcare una scopa o trovare un mondo sotto al letto, il rendere vive pentole e parlare con ogni tipo di oggetti (non solo con le bambole, purtroppo precluse ai piccoli maschi), insieme all’esplorare e al muoversi nello spazio, nascondersi, fare teatro inventando continuamente giochi e storie da soli o con gli altri, sono tutte esperienze che davanti a uno schermo non si possono fare!
Ma il tuo appello non rischia di dar l’impressione di voler opporsi al progresso?
Io non ho nulla contro la tecnologia. Il figlio della mia compagna è un ragazzo Down e a lui la tecnologia ha dato la possibilità di gestire con autonomia la sua grande passione per il cinema e la musica ed anche nella scuola elementare, rispetto ad alcune difficoltà di apprendimento, come quelle causate dalla dislessia, i computer possono fornire un supporto essenziale.
Uso quotidianamente il computer e trovo straordinaria la facilità con cui oggi si può montare a casa o a scuola un piccolo cortometraggio, con programmi che riesco ad usare facilmente anche io, perché sono alla portata dei bambini.
Penso però che sia molto pericolosa la sovraesposizione agli schermi nella prima infanzia. Ho proposto di liberare la scuola dell’infanzia e i primi due anni della scuola primaria dai computer per un motivo molto semplice. Siccome a casa la grande maggioranza dei bambini, anche i più poveri, hanno un rapporto esagerato con piccoli e grandi schermi, penso che a scuola abbiano il diritto di sperimentare altri modi di incontrare il mondo e la realtà. La scuola, se vuole essere un luogo educativo, deve reagire attivamente al proprio tempo e svolgere una funzione di compensazione.
Devo dire sinceramente che il desiderio di reagire me l’ha fatto scattare un piccolo episodio accaduto a mio figlio più piccolo, che ha sette anni. Noi abitiamo in Umbria, vicino ad Amelia, in una casa in campagna circondata da prati e boschi. Tommaso voleva uscire e fare quelle che chiama esplorazioni, ma il suo amico aveva paura ad uscire nella natura, non voleva seguirlo. Allora li ho accompagnati per un po’, ma era evidente che il suo amico si sentiva a disagio. Poi abbiamo cominciato a rotolarci nelle foglie e naturalmente ha cominciato a divertirsi. Ma al ritorno, osservando la brama con cui ha desiderato riaccendere il piccolo schermo portatile da cui non si separa mai, ho pensato che quella era la sua casa, quello l’oggetto del suo desiderio, il luogo amato che lo rassicurava. Così ho pensato che bisognasse reagire, dire qualcosa e urlare a tutti: fermiamoci, finché siamo in tempo!
Ma poiché vivo in questo tempo, non ho urlato e ho acceso a mia volta il computer, scritto qualcosa e cominciato a fare circolare tra gli amici più vicini le prime idee riguardo a un appello, in cui tra l’altro ho scritto: “Chi prova ad opporsi sa quali battaglie quotidiane deve combattere in casa per limitare l’uso compulsivo di playstation e videogiochi sempre più accattivanti. L’attaccamento a schermi grandi e piccoli ha tutte le caratteristiche di una droga, perché ormai nessuno può più nutrire dubbi sulla dipendenza che crea”.
Come riguardo alla televisione, di cui si discusse molto anni fa, il problema non stava nel vietarla ai propri figli, ma di limitarne l’uso, offrendo alternative. A volte basta un minimo di scarto, basta che uno dica: “Andiamo fuori” o “dipingiamo” o “facciamo una costruzione” e i bambini sono disponibili. Ma lo sforzo, l’impegno e la presenza di chi propone altro deve essere proporzionata alla potenza seduttiva che oggi hanno i marchingegni elettronici. Deve essere quindi straordinariamente convinta.
Questa convinzione è necessaria e urgente, perché io penso che si debba reagire. I bambini hanno diritto ad incontrare adulti persuasi, adulti capaci di opporsi alle semplificazioni e ai modi standardizzati di intendere il gioco e il tempo libero, che in verità è un tempo occupato dal mercato e dalle merci che impone.
Noi non possiamo accettare che per i bambini il principale canale di relazione con il mondo passi attraverso uno schermo, che la loro naturale curiosità e apertura verso il mondo sia viziata da uno strumento artificiale permanentemente acceso. E poi stare lì aggiogati a schermi così piccoli non è avvilente? Ricordo un anziano sceneggiatore che raccontava l’effetto che fece sui vecchi del suo paese l’apparizione della televisione. Erano lì stupiti, al bar, a guardare quello schermo così piccolo rispetto al cinema, e uno disse ad alta voce: “Parono tutti topi”. Oggi paiono tutti formiche…
Il senso del tatto, forse il più antico ed arcaico senso che abbiamo, non può ridursi al touchscreen, che è un’invenzione geniale rubata all’infanzia, che ritorna ai bambini nella versione più asettica e incorporea di un tocco che non incontra alcun calore. Se riduciamo il corpo ai polpastrelli, cosa sarà della mente?
Quando un bambino piccolo tocca un oggetto sente calore, consistenza, peso. Ne sperimenta le possibilità date dalla forma e inventa storie. La metafora e il linguaggio -ne sono convinto- nascono da un contatto diretto con le cose e dall’apertura dei sensi. È il nostro muoverci nello spazio che ci insegna fin da piccoli a muovere la mente. La possibilità di immaginare mondi sta in una relazione viva, in un corpo a corpo con gli altri, con le cose e con la natura che sempre ci circonda. Perché l’aria è ovunque e così il cielo, il sole, la pioggia. Basta guardare dalla finestra. La terra magari in città è più difficile da incontrare, ma basta un’ora a un giardinetto e persino un semplice vaso per costruire, poco a poco, un contatto con il mondo vegetale, così vitale ed essenziale non solo perché è alla base della sopravvivenza della nostra specie sul pianeta Terra, ma perché è fonte continua di stupore e bellezza, perché è irriducibile a noi.
Claudio Longo, un mio amico botanico che stupiva i suoi studenti facendogli toccare la terra all’Università, sostiene che per salvare la terra dobbiamo partire da un concetto da cui tutti tendiamo a fuggire: l’incommensurabilità. Ciò che più vorrei far vivere e sperimentare a bambine e bambini con cui lavoro è il senso della vastità.
Ma c’è bisogno di cielo per spaziare con lo sguardo, e per questo mi avvilisco ogni volta che vedo bambini costretti dentro un mondo angusto, interamente costruito dall’uomo. Tra la sensazione di sconfinatezza data da uno sguardo capace di andare lontano e di fantasticare l’oltre e l’invisibile e l’illusione delle infinite possibilità, contenute in un oggetto progettato da un uomo, penso ci sia una differenza di qualità, un salto logico.
Non voglio contrapporre in modo banale natura e tecnologia, ma sento che dobbiamo bilanciare un eccesso ed opporci ad una colonizzazione precoce e violenta dell’immaginario infantile.
Videogiochi sempre nuovi, con stimoli visivi sempre più veloci, sofisticati e accattivanti, film e documentari fantasmagorici in 3D non potranno mai sostituire un contatto corporeo e sensoriale con la natura, perché il senso della vastità lo può dare un piccolo albero o una nuvola se sono lì di fronte a me, veri. Dentro uno schermo ci possono emozionare e coinvolgere, ma si avviliscono rapidamente perché destinati a spegnersi. Nello schermo non troveremo mai la durata. E infatti chi progetta schermi ha bisogno di cambiare continuamente i programmi, e chi li acquista e ne fruisce non si accontenta mai. E poi quando giochi davanti a uno schermo, anche se giochi in due, la relazione è comunque mediata da qualcosa che è incorporeo. Se sottraiamo ai bambini, nella prima infanzia, il corpo, li priviamo di una quantità di stimoli, sensazioni, odori, sapori, gusto che sono vitali, li priviamo della possibilità di incontrare e scontrarsi con la realtà e le sue durezze. Se cado e mi faccio una piccola ferita al ginocchio quella pietra mi insegna qualcosa che nessun altro mi può insegnare. Se perdo l’equilibrio conoscerò qualcosa del mio corpo e della gravità che nessuna simulazione mi può dare. Tutto questo davanti a uno schermo non si può fare.
Forse non ce ne rendiamo conto, ma montare in una prima elementare un grande schermo al posto della lavagna è lanciare un messaggio simbolico di grandissima portata ai bambini. E quando tu lo accendi cambia tutto. Cambiano le relazioni spaziali, perché la parete schermo rompe necessariamente il cerchio in cui ci si guarda negli occhi e la conversazione stessa viene alterata.
Io penso che, nei primi anni, tutto il lavoro educativo deve avere al suo centro il corpo e la conversazione, il corpo che sperimenta e le parole che nominano, domandano e, soprattutto, chiedono ascolto. Senza ascolto reciproco non c’è scuola degna di questo nome.
Ma l’ascolto reciproco non è la costruzione di un giorno.
Ho voluto ricordare nel mio appello che “Scuole dell’Infanzia e Scuole Primarie, in questi anni, sono state uno dei pochi luoghi pubblici in cui gli immigrati hanno trovato in molti casi spazio e accoglienza. La scuola italiana è tra le poche in Europa che cerca di integrare i disabili. La convivenza non è un insegnamento, ma una pratica difficile e quotidiana, che richiede spazi, tempi e strumenti adatti. Se una generazione di giovani insegnanti entrerà in scuole dotate di Lim e tablet inevitabilmente, inesorabilmente, si troverà a fare cose che fanno male ai bambini, dimenticando ciò che è essenziale, semplice e difficile a farsi”.
Trovo assai grave che si presenti l’ingresso massiccio della tecnologia nella scuola come il centro e la chiave dell’innovazione didattica.
Le Lim stanno arrivando nelle scuole in un momento in cui avanza la desertificazione dell’esperienza diretta. Le batoste della Moratti e della Gelmini hanno aggredito e avvilito una organizzazione del lavoro che aveva permesso importanti sperimentazioni negli ultimi decenni.
Ma aumentare il numero degli alunni per classe da 25 a 30, 31, diminuire drasticamente le ore di compresenza degli insegnanti e, dunque, la possibilità di lavorare in piccoli gruppi e di prestare attenzione e cura a chi più ne ha bisogno, rende pericolosamente attraente un uso “sostitutivo” della tecnologia. In una scuola ho visto un’insegnante piazzare davanti alla Lim bambini di seconda elementare e propinargli un pessimo filmato scaricato a caso da You tube, cliccando “ciclo dell’acqua”.
Certo è più faticoso prendere una pentola, trovare un fornelletto, far bollire l’acqua e ragionare insieme su quello che accade. Ci vuole tempo per aspettare che un panno bagnato si asciughi sopra un termosifone e ci si domandi dov’è finita l’acqua. Bisogna vestirsi per uscire e andare a vedere la pozzanghera che si è formata fuori dalla scuola e avere la pazienza di attendere e osservare la fine che fa.
Il primo effetto dell’introduzione delle nuove tecnologie nella scuola -ne sono certo- sarà che diventeranno la principale attrattiva per insegnanti ed alunni. Forse esagero un po’, e so che la mia è una battaglia minoritaria perché il meccanismo è ormai in moto e ci sono grandi interessi che faranno superare ogni ostacolo e triteranno ogni buon senso. Ma finché starò a scuola desidero battermi perché i luoghi dell’educare siano territori liberi di sperimentazione attiva, luoghi da abitare nel senso più pieno del termine, portandovi oggetti capaci di suscitare curiosità, domande, ipotesi aperte. Luoghi da cui si può uscire per incontrare la città e chi la abita per raccogliere storie.
I genitori sono fuori causa ormai?
Il mondo adulto e moltissimi genitori, compresi i più sensibili e accorti, hanno una grandissima difficoltà a curare la crescita dei loro figli proteggendoli dal diluvio tecnologico. La pubblicità e l’imitazione regnano sovrane e la cultura corrente tende ad esaltare le potenzialità che la tecnologia offre a tutte le età in modo acritico, per cui un bambino oggi sembra non possa vivere se non ha una playstation così come un ragazzo non esiste se non ha un cellulare per tenersi in continuo contatto con i suoi pari.
Anche nelle situazioni di maggiore povertà, in cui magari non ci sono i giochi più sofisticati, il telefonino non manca mai, perché ci sono più cellulari che abitanti in Italia. E poiché bambine e bambini, prima di cominciare a camminare, incontrano la magica potenza di questo oggetto, che al solo trillare o suonare interrompe ogni attenzione e conversazione e porta altrove chi lo possiede, non possono non provare reverenza e desiderio verso un oggetto tanto piccolo quanto potente. Da quando gli iPhone e la nuova generazione di cellulari permette agli adulti di stare continuamente in rete, in qualunque luogo della casa o del mondo si trovino, i bambini sono costretti a fare i conti con una nuova forma di disconnessione adulta. I bambini hanno sempre dovuto combattere contro la distrazione di adulti che non li stanno a sentire, ben prima dell’attuale innovazione tecnologica. Ciò che mi sembra stia cambiando radicalmente e rapidamente sta nel fatto che, anche da piccolissimi, i bambini rivendicano il diritto ad avere anche loro distrazioni altrettanto potenti. E poiché schermi anche di minima dimensione sono in grado di ammutolire e rimbambire anche i più vivaci tra i piccoli, ecco che si viene a creare un’alleanza micidiale tra esigenze del mercato (che forse sarebbe più proprio tornare a chiamare del Capitale, visto che a guadagnarci tanto sono sempre pochi) ed esigenze degli adulti, tese a neutralizzare gli irriducibili desideri dell’infanzia. È in questo quadro che dobbiamo ricominciare a ragionare su cosa sia importante fare a scuola.
Quando ho cominciato a insegnare, alla fine degli anni Settanta, circolava un piccolo libro del Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) intitolato A scuola con il corpo. Era una proposta e un manifesto programmatico. Insieme ad altri ci credevamo molto, perché ci sembrava il miglior modo per andare verso i bambini assaporando una libertà tutta da scoprire, in una scuola che in tanti, allora, si cercava di reinventare.
Manipolare oggetti, rotolarsi con gli altri, impiastricciarsi di terra o di colore, suonare ogni genere di cose, fare teatro e ancora teatro in ogni luogo, rimodellare gli spazi non dando per scontato nulla dell’architettura delle aule ci sembrava dovesse essere alla base di ogni conoscenza nella scuola materna e nelle elementari. E poi scrivere giornali murali giganti per imparare a leggere a partire da ciò che si vede, si tocca, si sperimenta. Imparare a contare manipolando oggetti e inventando costruzioni… Alessandra Ginzburg, che in quegli anni dirigeva una scuola dell’infanzia del Comune di Roma, pioniera nell’inserimento e nell’accoglienza di bambini disabili, ci diceva una frase che non ho più dimenticato: “l’emozione è la madre del pensiero”. Furono anni, quelli, di riforme davvero rivoluzionarie perché nel 1977, con la legge 517, bambine e bambini disabili cominciarono a entrare nelle scuole, cosa che ancora oggi si fa in ben pochi paesi europei.
Aiutati da questo grande cambiamento, cominciammo a dare un significato più ampio alla parola corpo, che per noi del Mce non era solo la fisicità, ma il bambino tutto intero, che chiedeva anche a noi insegnanti di essere tutti interi e di metterci in gioco. Cominciammo a chiamare allora quella ricerca, difficile e impegnativa, pedagogia dell’ascolto.
Mi viene da ricordare tutto ciò perché sono profondamente convinto che ancora adesso, e forse adesso ancor più di prima, è dal corpo che dobbiamo partire, se vogliamo avere una scuola capace di affrontare i problemi dei bambini di oggi.
Mi viene voglia di ricordare tutto questo perché vedo quanti passi indietro si sono fatti in questi anni nelle scuole.
Anche gli insegnanti rischiano di cambiare…
La cosa più bella che può accadere a scuola, per me, è vedere un bambino assorto che sperimenta o inventa maneggiando un qualsiasi oggetto, vedere un gruppo di bambini che si accorda per fare un gioco o un’impresa e poi basta uno scarto, un inciampo, perché tutti si rida. A volte basta un piccolo stimolo per offrire un altro modo di guardare alle cose e ragionare insieme, bastano due parole incongruenti che si scontrano per far nascere una storia, una rima, perché i bambini hanno straordinarie capacità nell’intrecciare senso e non senso.
Ma il primo problema è sempre quello di come ci disponiamo nello spazio. Se l’aula è sempre uguale, se si sta sempre seduti stretti dentro tavolini verdi orientati verso un’unica direzione, sarà difficile far circolare i pensieri.
Perché questo accada c’è bisogno di una grande curiosità da parte di noi adulti e che il nostro desiderio di ascolto sia sincero. I bambini sono spietati in quanto a verità. Si accorgono all’istante se qualcuno li ascolta o fa finta di ascoltarli e io sento che l’arte della conversazione, che per me dovrebbe essere alla base di ogni relazione educativa, sono ben pochi quelli rimasti ad insegnarla.
Da parecchi anni i pochi insegnanti giovani che entrano nella scuola non hanno alcuna formazione riguardo alle forme dell’educare, al metodo, alla cura del contesto. Del resto Giulio Tremonti, il peggior ministro dell’Istruzione che l’Italia abbia avuto, al tempo in cui fingeva di occuparsi di scuola l’orrida Gelmini, disse: “È vero, abbiamo una scuola elementare di qualità, ma non ce la possiamo permettere”. E giù tutte quelle boiate sulla necessità di ritornare al maestro unico, giustificato dalla Moratti per coprire il vero scopo dell’antiriforma, che era quello di togliere soldi alla scuola.
L’effetto che ha avuto tutta la serie di leggi che si è abbattuta sulla scuola è stato quello di abbandonare maggiormente a se stessi quei bambini che, nella pluralità e compresenza di insegnanti e nel tempo lungo della scuola, trovavano la possibilità di essere maggiormente sostenuti.
La cecità dei governi è stata aberrante in questi anni, perché tutti sanno che senza un elevamento del livello di istruzione non ci saranno né innovazioni né alternative di sviluppo, che sono tutte da inventare. Purtroppo devo dire che in questa sottovalutazione del ruolo della scuola anche la sinistra ha le sue responsabilità e il sindacato troppo spesso si trincera in una difesa dell’esistente più che in un ripensamento generale e in una progettazione del futuro. Invece la scuola e noi insegnanti abbiamo bisogno di cultura, di tanta arte e scienza e buona cultura, perché per stare insieme ed ascoltare i bambini, i riferimenti devono essere alti e bisogna avere la capacità di andare in profondità.
Questo è uno dei motivi per cui mi arrabbio tanto quando vedo tutta questa esaltazione intorno alle innovazioni tecnologiche, come se questo fosse il problema della scuola.
Per ogni ora di formazione sulle Lim, che è giusto fare perché non ha senso avere strumenti che poi non sappiamo usare, pretendo almeno due ore di formazione sulla lettura come piacere e come possibilità di inventare e scoprire mondi, anche sulla letteratura infantile, che ben pochi frequentano a scuola e di cui ci sono veri e propri capolavori, capaci di acchiappare l’attenzione dei bambini più ostili alla lettura, come i meravigliosi classici di Roald Dahl e alcuni recenti, bellissimi, di David Almond.
Ore di scienza pratica e praticabile per i bambini, “officine matematiche” per fare appassionare i più piccoli alla logica e alle combinazioni, perché la geometria non si può insegnare senza avvicinarla all’arte e all’architettura, dunque alla bellezza. E poi la musica, tanta musica, perché cantare e suonare insieme non è intrattenimento, ma costruzione di una comunità. Non dovremmo dimenticare mai che una stessa parola -jouer- in diverse lingue nomina insieme il giocare, suonare e recitare. Entrare in questa parola potrebbe essere il tema di un corso di formazione della durata di un anno. Nella mia esperienza nulla come il teatro, realizzato dedicandogli molto tempo, aiuta ciascuno a incontrare se stesso, allontanando almeno un po’ pregiudizi e stereotipi che facilmente si ossificano in ogni classe.
Dicevi che il bambino di fronte a uno schermo si sente al sicuro, ma è fuori che si compiono dei piccoli riti d’iniziazione che comportano anche la paura, lo scontro con la realtà…
Per incontrare la realtà bisogna non averne paura. Personalmente ero così fissato con questa storia degli spazi educativi che più di 30 anni fa, con un gruppo di amiche e amici, abbiamo fondato la casa-laboratorio di Cenci. Desideravamo un luogo dove sperimentare la relazione tra adulti e bambini in spazi e tempi poco frequentati: il bosco e la notte, ad esempio, avendo per compagni il silenzio e il cielo stellato. Quel tipo di esperienza, seppure parziale e provvisoria perché vissuta dai bambini per pochi giorni, so che produce effetti duraturi nel tempo, perché lascia aperte sensazioni e domande. Beh, sai cosa ci è accaduto lo scorso anno? Una mamma, giornalista radiofonica acculturata e superinformata, ci ha chiesto smarrita se la casa era recintata. È voluta venire a vederla e poi ha scelto di non mandare la figlia di 10 anni al “villaggio educativo” che organizziamo in luglio. Recinti. Recinti d’ogni sorta in cui rinchiudere i bambini. Questa la preoccupazione principale di una grande quantità di adulti! Io penso che siamo un paese di vecchi impauriti, attratti dal desiderio di recintare e sigillare il mondo dell’infanzia. Iperprotetti e poco ascoltati, i bambini si sporcano sempre meno e sembra che debbano vivere in un mondo sterilizzato e liofilizzato, secco e pure un po’ stitico, perché la merda che produciamo ce la teniamo tutta dentro. In ogni caso poco generoso con i più piccoli.
Quello che temo di più è l’alleanza tra tecnologia compulsiva e genitori impauriti, con i video che diventano il lucchetto con cui si chiude il recinto che imprigiona bambini sempre più privati di esperienze dirette. È chiaro che poi, appena avuta la patente, troppi ragazzi si andranno a sballare e a schiantare. Se non permettiamo più ai bambini di misurarsi con avventure che permettano loro di prendere la misura delle cose, quando nell’adolescenza si troveranno obbligati a gettarsi nel mondo, non avranno gli strumenti per farlo. Così cercheranno l’eccesso o si deprimeranno.
Iperprotetti e poco ascoltati, dicevo, ma straordinariamente fotografati e filmati. Grazie al fatto che ormai ogni strumento che abbiamo in mano è anche una macchina fotografica, non c’è momento dell’esistenza che sfugga. Una mamma incinta mostrava orgogliosa sul display del suo cellulare l’ecografia del figlio che aveva in pancia e sinceramente, quel suo rendere pubblica un’esperienza così intima, mi ha messo a disagio. Così come mi mette a disagio vedere le foto ridicolmente osé di bambine di quinta elementare del paese dove insegno, che la collaboratrice scolastica controlla in combutta con i genitori, che non hanno accesso alle pagine delle figlie…
Sarò un vecchio babbione, ma c’è qualcosa che non torna.
Sembra quasi che la scuola debba contrapporsi, controbilanciare la casa…
Rispetto all’invasione micro-mediatico casalinga a cui molti bambini sono sottoposti, mi verrebbe da dire: lasciamoli in pace, lasciamoli un po’ soli. Diamogli il diritto di nascondersi, di allontanarsi, di fare qualcosa silenziosi in un angolo, non controllati.
I bambini, tra l’altro, nel nostro paese sono pochi e si sente. Basta attraversare il Mediterraneo e sull’altra costa ci sono bambini dappertutto. Siamo una società vecchia in cui i bambini sono un’infima minoranza e questo cambia molte cose, perché su ogni bambino si concentra l’attenzione di due genitori, quattro nonni, spesso altri nonni acquisiti, cioè una grande quantità di adulti, con tutte le loro aspettative, che per il bambino e poi per il ragazzo diventano presto un peso, visto che la realtà del futuro che lo aspetta è tutt’altro che roseo. Ho la sensazione che gli adulti, in qualche modo, appesantiscano la vita dei bambini circondandoli di troppo di tutto. Ma i bambini hanno bisogno anche di vuoto, per nutrirsi.
Penso ad esempio che il teatro spontaneo infantile, la mimesi, il fatto che bambine e bambini sperimentino il linguaggio imitando i suoni e la forma delle cose, “delirando” intorno al senso degli oggetti, nasca dal fatto che ogni bambino è in qualche modo capitato nella casa, nella famiglia, nella città che abita, e forse persino su questo pianeta, senza averlo scelto. È precipitato qui, senza sapere come. Tutto il suo sforzo di adattamento, che è enorme -certe volte felice, certe volte meno- sta nel cercare di capire “perché sono qua”. In questa ricerca di comprensione e di senso il teatro spontaneo infantile ha una funzione fondamentale, nel senso che il bambino si trova continuamente a fingere che, accanto a questo mondo difficilmente comprensibile, ce ne siano altri di mondi, più vicini al suo sentire.
In questa finzione il nuovo arrivato si trova a giocare tante parti, un po’ come sono costretti a fare gli immigrati. E sceglie le parti da giocare osservando con attenzione le parti che giocano papà e mamma o i fratelli e le sorelle, se ci sono… È in questo grande gioco dell’adattamento che cominciamo, poco a poco, a scoprire chi siamo. Sto parlando dei primissimi anni di vita e in questo tempo lo spazio ha una grandissima importanza. Se riempiamo ogni luogo di oggetti, se stipiamo lo spazio ed il tempo, i bambini non hanno la forza di prendere in mano le loro esperienze e finiscono per cedere, sdraiandosi passivamente su un divano davanti alla televisione o agitandosi compulsivamente di fronte allo schermo acceso di un videogioco. Così li rendiamo pigri, nell’età in cui maggiori sono gli impulsi e le energie del corpo, e questo per me è un delitto.
C’è una frase di Anna Maria Ortese, in Corpo celeste, che mi dà sempre molto da pensare.
“Il ragazzo è solo. Il suo approssimarsi -e poi la caduta, spesso uno scontro con la terra e il mondo cosiddetto reale- avviene così. È un’estasi, e un impatto. Avere, in queste circostanze, mezzi espressivi, essere educati a usare questi mezzi, potrebbe voler dire essere forniti di un paraurti, o di un paracadute. Significherebbe entrare nel mondo -del reale- per il verso giusto e proprio dell’animo dell’uomo che è il fatto creativo. […] Nella sua educazione, o nascita al mondo, è mancato l’apporto della sua propria creatività. Egli ha trovato tutto già fatto. E il tutto fatto -da altri- lo distruggerà. […] Quando si accorgerà della sua amputazione fantastica, o creativa, vorrà distruggere. Così ho sempre pensato che il problema massimo del mondo -e della sua pace, anche se relativa- sia avere dei bambini in grado di entrare nel mondo cosiddetto adulto creando, essi stessi, e non, invece, appropriandosi e distruggendo”.
Ecco, di questa amputazione fantastica mi preoccupo e sento che un abuso di tecnologia, nella prima infanzia, può costituire un ostacolo alle possibilità offerte dall’atto creativo.
E poiché il “tutto già fatto da altri” ha da tempo la forma dell’audiovisivo, declinato in tutte le sue possibili varianti, un’ipotesi su cui lavoro da anni sta in una piccola indicazione da proporre ai bambini: regaliamo loro un po’ di video senza audio e un po’ di audio senza video. Per video senza audio intendo gli sguardi silenziosi che è possibile dedicare alla natura. Ho visto bambini scalmanati sostare silenziosi davanti a un tramonto o a un’alba, anche per molto tempo, stupendo gli insegnanti che li accompagnavano.
Quando dipingo a scuola con i bambini impongo loro il silenzio assoluto, come condizione obbligatoria. All’inizio faticano un po’, ma è così evidente la diversa qualità dei loro gesti, quando sono fatti in silenzio, che alla fine loro stessi sentono il bisogno di quella concentrazione. Del resto rimasi profondamente colpito quando un maestro di pianoforte mi domandò a bruciapelo, qualche anno fa: “Perché a scuola lavorate così poco sulla concentrazione?”. La concentrazione è un’alleata efficace e generosa della creatività, ma è così poco compresa oggi.
Riguardo all’audio senza video penso a quanto ai bambini piaccia ascoltare delle storie. Nell’accompagnare il passaggio pericoloso dalla veglia al sonno con parole che evocano mondi lontani, c’era una grande saggezza. Il bambino affrontava il passaggio al mondo del sonno sorretto dal filo di una voce amica che narra e tiene compagnia. Quella voce fa vedere a occhi chiusi cose che con gli occhi aperti non si vedono. È un’esperienza molto profonda questa, che è assai triste negare ai bambini. Oggi, nelle case, la maggior parte dei bambini si addormenta di fronte ad uno schermo acceso, nella più completa solitudine.
Italo Calvino sosteneva che le fiabe altro non sono che un catalogo di destini. Destini che si svelano passando attraverso prove, sfide e mondi diversi. Miti, riti, arte, filosofie e religioni per secoli hanno scandagliato paure e possibilità offerte da altri mondi, possibili e impossibili, vicini e lontanissimi. Se la tecnologia apre nuovi mondi, che interagiscono e trasformano la realtà, o almeno la percezione che abbiamo della realtà, come un tempo facevano i miti, dobbiamo attrezzarci per l’impresa. Poiché il destino dell’infanzia è il nostro destino, non vorrei che si desse nulla per scontato.
(a cura di Gianni Saporetti)