La proposta di avviare un’esperienza di scuole pubbliche, del tutto finanziate dallo stato, ma gestite in piena autonomia da privati in stretto rapporto coi genitori; allo Stato il compito dell’informazione e degli esami di stato; l’esperienza delle free school e delle charter school; la libertà nell’assunzione degli insegnanti e la varietà degli indirizzi. Intervista ad Andrea Ichino.
Andrea Ichino è Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato, tra l’altro, con Daniele Terlizzese, Facoltà di Scelta. L’università salvata dagli studenti. Una modesta proposta, Rizzoli, 2013. Il libro di cui si parla nell’intervista è Liberiamo la scuola, di Guido Tabellini e Andrea Ichino, edizione Corriere della Sera, 2013.
Voi proponete di avviare in Italia una sperimentazione delle scuole autonome, quelle che in Inghilterra e altrove si chiamano “free school”, scuole, cioè, completamente autonome nella gestione dell’istruzione, ma pagate interamente dallo Stato. Intanto perché una sperimentazione?
L’idea è che in generale in questo Paese, ma in particolare nel mondo della scuola, sia difficile fare riforme imposte dal centro alla totalità della popolazione e che sia preferibile, invece, percorrere una strada fondata sull’autonomia, consentendo a chi vuole provare modi diversi di fare scuola, di poterlo fare senza togliere risorse a chi, invece, preferisce il sistema tradizionale. Tutti pensiamo che la scuola italiana non funzioni bene, però su quale riforma fare non si trovano due persone con la stessa opinione. Quindi è inutile tentare di fare una riforma che vada bene a tutti. Meglio consentire alla gente di fare scuola in modo diversificato senza che questo debba significare il passaggio a un sistema privato nel senso tradizionale del termine.
È questa, forse la cosa più difficile da far capire alla gente: si può separare la funzione “redistributiva” dello Stato, intesa come impegno a far sì che tutti possano avere accesso alle stesse opportunità educative, dalla funzione di “produrre” istruzione.
La scuola può rimanere pubblica nel senso che è finanziata dallo Stato -e lo Stato ne garantisce l’accesso e la qualità- ma può al tempo stesso essere “prodotta” da privati o comunque da soggetti diversi dallo “Stato centrale”. Se questi altri soggetti riescono a produrre meglio i servizi educativi, non c’è niente di male, purché se ne garantisca a tutti l’accesso. Per esempio, molte aziende che offrono il servizio di trasporto pubblico urbano o extra-urbano sono private, ma lo Stato assicura attraverso sovvenzioni che l’accesso ai servizi sia ovviamente aperto a tutti.
Quindi la regolazione e il finanziamento restano statali e però gli attori, quelli che gestiscono, possono essere sia statali che privati…
Sì, esattamente, è questa la rivoluzione, cioè togliere allo Stato centrale una delle tre funzioni, quella della “produzione” di istruzione. Regolazione e finanziamento rimangono. Quindi è chiaro che non vogliamo lasciare completamente libere le nuove scuole autonome: ci sono dei binari entro i quali devono stare, ma all’interno di quei binari c’è piena autonomia.
In realtà il nostro sistema attuale è l’ibrido forse peggiore, perché abbiamo una scuola privata che, in teoria, doveva essere in grado di finanziarsi da sola e invece è finanziata dallo Stato, senza quasi alcun controllo sulla sua qualità.
Quindi non stiamo parlando di privatizzazione, ma di un terzo modello di scuola…
Sì: la nostra proposta è diretta principalmente alle scuole statali, per offrire loro la possibilità di diventare autonome (su base volontaria) e uscire dal sistema tradizionale.
Non puntiamo a introdurre in Italia un sistema privatistico puro. La scuola finanziata dai privati e gestita dai privati senza regolazioni ha dei difetti, perché crea sorting, cioè gli studenti migliori vanno nelle scuole migliori e si crea segregazione, il che è un male per una società, che ha bisogno, invece, di un sistema di istruzione che serva a tutti, non a pochi eletti. Un sistema che produca persone superskilled e abbandoni tutti gli altri a loro stessi non può funzionare bene; e in ogni caso è necessario che la selezione sia legata al merito, non al reddito, cosa tutt’altro che facile da farsi in concreto, ma possibile. Questo è il motivo per cui è così difficile far passare l’idea di scuole autonome: la gente pensa subito che sia un modo per favorire le scuole per ricchi. Ma il nostro modello non riguarda in realtà la scuola privata: parliamo di scuole statali che possano diventare autonome pur rimanendo finanziate interamente dallo Stato.
Come funzionano? Il punto cruciale è il controllo, la certificazione che lo Stato deve dare come condizione per il finanziamento?
Infatti il grande problema è quello della valutazione. La risposta apparentemente più semplice è quella di mettere in piedi un sistema di valutazione centralizzata: le scuole sono relativamente libere di fare quello che vogliono, ma lo Stato eroga i fondi a seconda di una valutazione centralizzata fatta attraverso un’agenzia apposita. Questo sistema, in teoria, potrebbe sembrare adeguato perché separa il finanziamento e la regolazione dalla produzione di istruzione, ma richiede la soluzione di due problemi difficili. Il primo è: come si valutano le scuole? Test standardizzati? Gli insegnanti lamentano che i test non sono una misura sufficientemente onnicomprensiva della qualità di una scuola. Intanto perché le materie standardizzabili facilmente sono poche e poi perché un test, proprio in quanto standardizzato, non può cogliere la complessità del lavoro dell’insegnante. Peraltro io sono favorevolissimo ai test, ma hanno la stessa funzione di un termometro, che non è una misura perfetta dello stato di malattia di una persona, ma è utile come indicatore; ecco, i test Invalsi sono un indicatore tra i tanti. Ciò detto, non si può ridurre la valutazione della scuola solo ai risultati di questi test. Nessun Paese al mondo lo fa.
In alternativa si può ricorrere alle ispezioni, che però sono costosissime. Provate a immaginarvi quante sono le scuole in Italia; se dovessimo condizionare i soldi da dare a ogni scuola ai risultati di una valutazione annuale fatta dagli ispettori ministeriali, sarebbe un lavoro pazzesco. E comunque resta il problema di scegliere chi sono gli ispettori: dove li troviamo? Chi li forma? I docenti che non vogliono i test Invalsi e chiedono gli ispettori sanno in che mani si mettono? Quando poi gli arriva l’ispettore di cui non si fidano, siamo sicuri che sarebbero così felici? Quindi anche questo metodo di valutazione presenta gravi controindicazioni.
Ammettendo di poter risolvere questi due problemi, come si collega la quantità dei fondi da erogare alla valutazione centralizzata? Non si rischia di dare sempre più soldi a chi va già bene e ne ha meno bisogno?
Questo è l’altro problema rilevante della valutazione centralizzata: se la tua scuola vale cento e la sua cinquanta, quanti soldi do a te e quanti a lui? Questo è un problema per due motivi. Uno è ben evidenziato da un articolo famoso nella letteratura dell’incentivazione, il cui titolo è “On the folly of rewarding A while hoping for B”, cioè la follia di premiare A quando quello che noi veramente vogliamo è B. Ad esempio, se vogliamo limitare l’abbandono scolastico, obiettivo nobile e valido, e quindi condizioniamo i fondi erogati a una scuola a quante persone sono bocciate, questa scuola avrà più fondi se boccerà di meno e il risultato sarà la promozione per tutti.
Il secondo è noto come il problema del multitasking. Ad esempio, supponiamo di dare alle scuole due obiettivi contrapposti: devono avere dei diplomati che facciano bene nel mercato del lavoro e, al tempo stesso, devono ridurre l’abbandono scolastico. Per avere diplomati che fanno bene nel mercato del lavoro, cosa devono fare? Devono mandare via tutti gli studenti peggiori, ma per evitare l’abbandono scolastico, devono invece tenere proprio quegli studenti peggiori. Con questi due obiettivi contrapposti, a seconda di quanti soldi verranno dati alle scuole per l’uno o per l’altro, esse risponderanno di conseguenza.
La vostra conclusione quindi è che la valutazione centralizzata non funziona. Qual è la vostra proposta?
Noi pensiamo che la scelta migliore sia di avere scuole autonome, finanziate dallo Stato, ma con fondi che seguono gli studenti. Quindi non è più lo Stato che valuta le scuole, ma sono gli studenti con le loro scelte, le famiglie con le loro scelte, a finanziare le scuole.
Una sorta di voucher, un buono…
Sì, noi lo chiamiamo “dote”, per evitare parole che poi fanno scattare inutilmente reazioni negative, però il concetto è quello. Noi diciamo: le scuole sono gestite autonomamente, pubbliche o private, e sono finanziate dalle scelte degli studenti: ogni studente che sceglie una certa scuola si porta dietro una certa dote.
Intendiamoci, non è che questo sia un toccasana che risolve tutti i problemi. Il problema più grave di questa soluzione è che le famiglie scelgano il Cepu o la scuola privata che, spesso, in Italia, vende titoli senza reale valore.
L’antidoto allora è che lo Stato si impegni nella importantissima funzione di informatore. Non di valutatore, quindi, ma di informatore delle famiglie, dando massima pubblicità a come funziona ogni scuola, alle statistiche sugli studi successivi dei loro diplomati, su quanto successo hanno avuto nel mercato del lavoro, e così via. Si tratterebbe di cambiare completamente il ruolo dello Stato e in particolare del Miur. In questo modo le famiglie avrebbero tutte le informazioni per poter scegliere. E, a questo punto, in un sistema liberale, noi dobbiamo consentire loro di scegliere.
Ma lo Stato dovrebbe garantirsi comunque un qualche margine di intervento?
Certo ma quanto stretto deve essere questo margine? È un po’ l’eterno problema dei finanziamenti alla cultura: supponiamo, che, invece di finanziare direttamente un cinema, un teatro, la Scala di Milano, l’Arci o Radio Maria… lo Stato dia a ogni italiano una dotazione da spendere per lo spettacolo che preferisce (o meglio ancora riduca le tasse a questo fine). Poi, i produttori di arte, di cultura, se la giocheranno direttamente con gli utenti. Forse c’è il rischio che il calcio sbanchi tutto e conquisti la fetta maggiore di risorse. Ma se alla gente interessa il calcio, perché lo Stato dovrebbe imporre di leggere Pirandello o sentire l’opera lirica? Perché lo Stato dovrebbe tassare le attività produttive per finanziare attività culturali che interessano solo a pochi intellettuali? È un problema enorme. Qui l’economista liberale risponde dicendo: se ci sono delle esternalità, cioè dei benefici pubblici, allora lo Stato ha il diritto di imporre tasse alla popolazione per finanziare le iniziative che generano appunto quei benefici pubblici. Tornando al caso della scuola, per esempio, se le famiglie scelgono scuole di bassa qualità, il danno per la collettività sarebbe tale da giustificare anche per un liberale un intervento statale che impedisca queste scelte.
Proprio per questo, ad esempio, anche gli Stati liberali impongono un livello minimo di istruzione obbligatoria per evitare che ci siano famiglie che decidano di non istruire i loro figli, con danno per loro ma soprattutto per la collettività.
Questo è un modello teorico, ma lei pensa che una tale riforma, che è una rivoluzione, abbia una qualche possibilità di essere presa in considerazione?
Purtroppo temo di no in tempi brevi, ma se ragioniamo in questo modo questo Paese non cambierà mai e non tornerà mai a crescere. C’è chi sostiene che in Italia perché un’idea nuova venga presa in considerazione nel dibattito politico ci vogliono vent’anni. Ma se io do per scontato che questa proposta non venga ascoltata, non inizio mai e pregiudico anche la possibilità che fra vent’anni qualcuno dica: si potrebbe tentare questa strada.
Poi, in realtà, io non sto dicendo: “Distruggiamo completamente il sistema attuale”, sto solo chiedendo che, in alcune “isole locali”, su base volontaria, si sperimenti anche questa strada diversa. Francamente, perché una sperimentazione su piccola scala dovrebbe spaventare?
Quindi voi pensate a un sistema a cui aderiscano solo poche scuole?
Beh, almeno inizialmente, non credo che saranno tante quelle che vorranno provare a passare allo status di autonomia. Nel Regno Unito, uno dei Paesi a cui ci siamo ispirati nel disegnare la nostra proposta, ci sono voluti circa dieci anni perché un terzo delle scuole che potevano farlo decidessero di tenere un’elezione per decidere se passare allo status di autonomia, e di queste solo due terzi hanno poi votato a maggioranza il passaggio effettivo. Quindi circa il 20% del totale delle scuole in dieci anni.
Ecco parliamo un po’ delle esperienze internazionali a cui vi ispirate.
è interessante riflettere sulla riforma svedese dove sono mancati due ingredienti importanti per il successo delle scuole autonome: l’informazione per le famiglie da parte dello Stato e l’imposizione di vincoli a quelle scelte di istruzione delle famiglie che potevano causare un danno per la collettività.
Il risultato è stato il fallimento sostanziale della riforma, perché le famiglie hanno puntato non a cercare la migliore istruzione per i loro figli, ma a comprare titoli di studio senza valore reale dalle nuove scuole for profit alle quali interessava solo tagliare sui costi! Nel caso svedese, quindi, lo Stato ha abdicato un po’ troppo alle sue funzioni. In un quadro totalmente liberista di scuole senza alcun tipo di vincolo, senza test standardizzati sulla performance degli studenti, dove le famiglie pagavano per quel che volevano avere, senza alcun riguardo per gli interessi collettivi, il risultato è stato decisamente insoddisfacente.
Molto più positive, invece, sono le esperienze delle Charter School americane e soprattutto delle GM (Grant-maintained) School introdotte dal Governo Britannico guidato da Margaret Thatcher.
La riforma delle GM Schools è stata disegnata in modo molto intelligente: ossia, lo Stato ha offerto alle scuole interessate di poter uscire dal “sistema tradizionale” (opting out) se una votazione favorevole dei genitori decideva in questo senso. Le scuole che hanno scelto l’autonomia hanno poi ricevuto dallo Stato un finanziamento iniziale pari alla media storica di quel che avevano ricevuto fino a quel momento. Da lì in poi il finanziamento pubblico è stato proporzionale al numero di studenti che sceglievano ciascuna scuola. Inoltre, le scuole hanno anche ricevuto totale autonomia nella gestione delle risorse umane (in particolare assunzioni e licenziamenti dei docenti) e nel disegno dell’offerta formativa.
Lo Stato si è limitato a chiedere alle scuole di rendere pubblici i criteri di selezione degli studenti per capire quanto del loro buon risultato fosse dovuto a una migliore gestione e quanto fosse semplicemente dovuto alla selezione di migliori studenti. E, soprattutto, lo Stato ha investito nel sistema Ofsted di valutazione dei risultati delle scuole mediante ispezioni e test standardizzati a cui è stata data grande rilevanza mediatica per informare le famiglie (le famose League tables).
È anche interessante osservare che è stato possibile valutare ex post l’efficacia di questa riforma in modo quasi sperimentale. Idealmente quello che vorremmo fare prima di introdurre una riforma del genere è un esperimento controllato che consenta il confronto di campioni ex ante simili di scuole che poi diventano autonome o tradizionali. Questo tipo di sperimentazione, normale nelle scienze mediche e nella politica sanitaria per la valutazione degli effetti di terapie, è raramente utilizzata, purtroppo, nelle scienze e nella politica sociale. Nel caso della riforma inglese delle GM schools, però, è stato possibile confrontare le scuole nelle quali per pochi voti la transizione all’autonomia è passata con quelle nelle quali per pochi voti, invece, la scuola è rimasta di tipo tradizionale. Questi due gruppi di scuole erano ragionevolmente simili prima della riforma e solo per una piccola differenza casuale nel risultato delle elezioni hanno poi preso strade diverse. Il confronto tra i due gruppi, quindi, consente di approssimare i risultati di una sperimentazione controllata. E questi risultati dicono in modo molto chiaro che le scuole diventate autonome hanno avuto risultati decisamente migliori nelle ispezioni e nei test standardizzati. La ragione di questo miglioramento è solo in parte la migliore qualità degli studenti (cream skimming): almeno metà del miglioramento è dovuto alla migliore qualità degli insegnanti assunti dalle scuole autonome dopo la riforma.
Le charter school, invece, cosa sono?
Le charter school sono scuole governate in base a un contratto tra lo Stato e un ente che si propone come gestore della scuola stessa. Ad esempio, in un quartiere ghetto, malfamato, che ha una scuola disastrata, si presenta una Ngo che dice: “Stato, dalla a me! Firmiamo un contratto su quello che io mi impegno a fare. Se ottengo i risultati che ho promesso di ottenere tu me la lasci gestire, altrimenti me la togli”. E lo Stato dice: “Beh, se tu pensi di gestirla meglio di me, provaci”. L’impressione è che, soprattutto nei contesti sociali disagiati, queste scuole funzionino molto bene. Anche in questi casi, fra l’altro, è stato possibile valutare in modo quasi sperimentale se la gestione in autonomia ha funzionato meglio. Infatti, nel caso di un eccesso di domande per una charter school, i ragazzi da ammettere sono stati estratti a sorte. In questo modo è stato possibile confrontare due gruppi (gli ammessi e i non ammessi), che, essendo stati estratti a sorte, erano statisticamente uguali ex ante, ma poi hanno frequentato scuole diverse, autonome o tradizionali. Se quelli che hanno frequentato scuole autonome hanno avuto risultati migliori la ragione non può che essere il tipo di scuola e il modo in cui è stata gestita, mentre le caratteristiche individuali degli studenti non possono essere state rilevanti.
Torniamo alla vostra proposta.
Quindi, la nostra proposta è di fare una sorta di integrazione tra il modello delle GM school e quello delle charter school: noi vogliamo, come nelle GM school, che ci sia un elettorato, che poi definiremo, che possa decidere se una certa scuola diventi autonoma oppure no, e vogliamo, però, che come nelle charter school ci sia qualcuno che si propone come gestore della scuola. Soltanto che, mentre nelle charter school chi si propone come gestore della scuola contratta con lo Stato il programma di gestione, qui lo contratta con gli elettori. Esempio: supponiamo che nel bacino di utenza della scuola elementare di Fiesole (dove abito), costituito dai genitori di figli iscritti alla scuola, ma anche da genitori che hanno figli più piccoli ma pensano di iscriverli in futuro a questa scuola, ci sia interesse per la prospettiva di rendere autonoma la scuola. E supponiamo che ci sia un comitato di genitori, uno di insegnanti insieme al preside e uno esterno affiliato a una Ong, che si propongano per la gestione della scuola presentando un programma dettagliato sulla governance, l’offerta formativa, la gestione delle risorse umane e delle strutture, ecc. Si tiene allora un’elezione e possono succedere due cose: o la maggioranza degli aventi diritto al voto preferisce restare nel sistema tradizionale, e allora non cambia nulla e si procede come prima, oppure si passa all’autonomia, e quello dei tre enti di gestione candidatisi che ha avuto più voti, a quel punto, gestirà la scuola. Nel caso delle GM schools sono stati soprattutto i presidi a costituire comitati di gestione che si sono sottoposti al giudizio degli elettori.
In Italia potrebbe succedere?
Io penso che ci siano tanti dirigenti scolastici che soffrono perché non hanno lo spazio di manovra per fare quello che vorrebbero e se lo avessero potrebbero fare molto meglio. Sono come comandanti di nave che non possono governare il timone. E che vorrebbero invece avere questa possibilità. Però non è detto che debbano essere solo i presidi a proporsi.
Potrebbero essere, come nelle charter school, delle Ong. Prendiamo, non so, Scampìa, che potrebbe essere paragonabile a Roxbury, un quartiere disagiato di Boston. Ecco, lì ci sono delle Ong che vanno e dicono: “Questa scuola, da qui in avanti, la posso gestire io”. O potrebbero candidarsi i “Maestri di strada”.
Diceva della definizione dell’elettorato attivo; chi ha il diritto di votare?
Il sistema inglese era troppo restrittivo: potevano votare soltanto i genitori con figli iscritti nella scuola. Questo non va molto bene, perché, pensando ad esempio a una scuola media inferiore, c’è il genitore che ha il figlio iscritto in terza al quale il futuro della scuola non interessa quasi più, e c’è quello con il figlio iscritto in una quinta elementare del quartiere e che sta per passare alla media, al quale invece il futuro della scuola interessa molto di più.
Quindi, una soluzione potrebbe essere: fanno parte del bacino di utenza tutti i genitori degli iscritti più chi si registra. Se tu ti registri come elettore della scuola di Fiesole è perché hai un figlio che in futuro potrebbe andare nella scuola di Fiesole. La registrazione ci sembra un modo ragionevole per definire l’elettorato attivo, magari con la precisazione che i genitori con figli iscritti sono automaticamente registrati.
Il bacino di utenza resterà territoriale? Da Firenze uno potrà iscrivere il figlio a Fiesole?
Prima delle elezioni chiunque può iscriversi nell’elettorato attivo della scuola di Fiesole. Anche un genitore di Palermo che ad esempio pensi in futuro di doversi spostare a Fiesole per lavoro. Ma stiamo parlando di prima delle elezioni o di quel che accade dopo?
Dopo…
Una volta che la scuola è transitata al sistema autonomo, chiunque potrà andarci, anche se non ha votato compatibilmente con i posti disponibili. Se la scuola andrà bene, si farà un nome, ci sarà un eccesso di domanda, e allora, a fronte di un numero chiuso, si utilizzerà il sistema delle charter school e si farà a sorte, proprio per evitare il cream-skimming.
Però è anche vero che se la scuola di Fiesole comincia a funzionare bene e c’è un eccesso di domanda, anche la scuola di San Domenico di Fiesole, che è più in basso sulla collina, dirà: “Beh, perché non lo facciamo anche noi?”.
L’esempio dovrebbe avere questo effetto. L’idea è proprio che la concorrenza aiuti, stimoli il miglioramento.
Il rischio più grave resta il “diploma facile”?
Ecco perché è così necessario che lo Stato investa molto nella funzione di informazione delle famiglie. In secondo luogo, gli esami che gli studenti devono superare dovranno essere nazionali e non sotto il controllo delle singole scuole. Esami standardizzati di Stato non solo nel senso che le prove sono uguali per tutti, ma anche e, soprattutto, nel senso che le prove sono valutate in modo uguale per tutti gli studenti e in tutte le scuole. La maturità italiana soddisfa il primo requisito ma non il secondo! Oggi, in Italia, solo i test Invalsi prevedono sia domande che valutazioni uguali per tutti. Mentre in Inghilterra anche gli esami finali della scuola superiore sono valutati in modo uguale per tutti. In Svezia, come abbiamo visto prima, ogni scuola aveva il suo esame e il risultato è stato di consentire una competizione al ribasso, un accesso facile ai diplomi e una dequalificazione della scuola.
Ma affinché lo Stato possa dare informazioni alle famiglie, non si ripropone il problema di cui ha parlato all’inizio, ossia chi sono gli informatori, chi li forma, che informazioni dovranno raccogliere e dare?
Infatti questo è un problema molto delicato. C’è però una differenza sostanziale nella nostra proposta: nel caso delle scuole autonome da noi previste l’informazione non è collegata direttamente all’erogazione dei fondi, che devono invece seguire gli studenti. Lo Stato può quindi limitarsi a rendere disponibili, ad esempio in internet, tutte le informazioni possibili su ciascuna scuola, offrendo eventualmente anche una sua valutazione aggregata, ma lasciando libere le famiglie di osservare i singoli elementi costitutivi delle informazioni e quindi di formare il proprio giudizio. Ad esempio, lo Stato potrebbe dare un giudizio aggregato che sia una sorta di media di tutti gli indicatori raccolti, mentre una singola famiglia potrebbe essere interessata solo ad alcuni indicatori e non agli altri. Penso quindi a un sito internet nel quale il Miur metta tutte le informazioni elementari e poi ciascuno possa aggregarle come preferisce, con i pesi che preferisce, oppure anche usare le aggregazioni di default offerte dal sito.
Gli esami di Stato?
Devono cambiare. In particolare per le scuole superiori. Poiché la nostra proposta lascia libere le scuole di decidere l’offerta formativa, bisogna cambiare l’impostazione dell’esame di maturità. Questo è un punto molto importante: uno dei difetti della scuola italiana attuale è che vende dei pacchetti.
Come nei ristoranti con menu a prezzo fisso. L’utente deve comprare il pacchetto liceo classico, il pacchetto liceo scientifico, il pacchetto istituto tecnico. Non è una scuola organizzata intorno a corsi base e corsi opzionali con i quali gli studenti possono disegnarsi il loro curriculum personalizzato. E così, nella situazione attuale, può succedere che un ragazzo si iscriva al liceo classico perché alle medie magari aveva una professoressa di matematica incapace, che non sapeva appassionarlo alla materia, ma giunto al liceo, con professori magari migliori nelle materie scientifiche, si rende conto che quelle sono la sua vera passione, ma ormai è tardi: o cambia tipo di scuola oppure continua a fare dieci ore settimanali di latino e greco fino in quinta liceo.
Noi vogliamo un sistema in cui gli studenti possano modulare la loro istruzione e magari (perché no?) consentire allo studente che studia il greco di fare anche un corso per imparare a smontare e rimontare un motore.
Però, se questo fosse consentito, come dovrebbero essere disegnati gli esami di maturità? Non avrebbe più senso una maturità a “pacchetti”: classica, scientifica, tecnica. L’esame di maturità dovrebbe essere organizzato invece materia per materia. Ossia lo Stato offre esami separati in matematica, in italiano, in inglese, in storia, in filosofia, in geografia e in tutto il resto. Agli studenti verrebbe quindi chiesto di sostenere l’esame in un certo numero di materie obbligatorie (italiano, matematica e una lingua straniera ad esempio, che dovrebbero essere quindi insegnate in ogni scuola) e in un certo numero di materie opzionali.
Questo sistema risolverebbe anche il problema dei test di accesso alle università. Ogni dipartimento universitario dovrebbe essere libero di stabilire in quali materie gli studenti debbano aver superato gli esami di maturità per essere ammessi, e il punteggio minimo in ciascuna materia. Ad esempio, un dipartimento di matematica potrebbe richiedere il superamento degli esami obbligatori con voti di almeno 90 su cento, e il superamento dell’esame di matematica con voto di almeno 95 su cento. Un dipartimento di lettere antiche, potrebbe invece richiedere il superamento degli esami di maturità in greco e latino, e così via.
Questo sistema di scuole ed esami organizzati per materie, non per pacchetti di materie, aumenterebbe anche la mobilità sociale. Oggi, per una persona con un background culturale sfavorevole, comprarsi il pacchetto intero del liceo classico è molto oneroso e rischioso, mentre, invece, una scuola sostanzialmente “à la carte”, e quindi più capace di aiutare gli studenti a orientarsi gradualmente nella direzione giusta, con l’aiuto di insegnanti preparati, ridurrebbe la segregazione sociale. E renderebbe anche più facile la transizione dalla scuola al mercato del lavoro.
C’è un problema di coesione sociale?
Questa è una delle critiche che viene tipicamente fatta alla nostra proposta: “in questo modo nasceranno le scuole rosse, le scuole blu, le scuole gialle, la scuola islamica, quella cattolica, quella comunista e questo crea disgregazione sociale”. È un problema serio, oggettivamente. Ci sono due correttivi nella nostra proposta: il primo è un controllo pubblico sui comitati di gestione che partecipano alle elezioni e sui loro programmi. Se un gruppo di naziskin si propone per gestire una scuola glielo dobbiamo impedire. Certo che i prerequisiti sono abbastanza difficili da definire, lo sappiamo. Ma, attenzione, stiamo passando da un sistema in cui nessuno può gestire una scuola a un sistema in cui si dice: molti la possono gestire, ma non proprio tutti. E poi, teniamo presente che se ci saranno le scuole rosse, gialle e blu, ci saranno anche le scuole arcobaleno, cioè ci saranno anche genitori e comitati di gestione che, invece, propongono scuole multietniche, multiculturali, aperte, solidali, ecc., ecc.
A quel punto, siamo al solito problema: se poi la gente vuole la scuola rossa, perché lo Stato glielo deve impedire? Glielo può impedire, ed ecco il secondo correttivo, solo se, per esempio, abbiamo la scuola fiamminga dove si impara solo il fiammingo e quella vallone dove si impara solo il vallone, e nessuno impara il francese, così i cittadini non possono più comunicare tra di loro, con un grave danno per la società. Lì deve scattare un vincolo statale. Cioè, il blu non può far studiare solo il blu e il rosso solo il rosso, dovete fare anche un po’ d’arancione. Ecco, con questi correttivi noi crediamo che non avremo gravi problemi di disgregazione sociale.
Veniamo al capitolo insegnanti, contratti e sindacati…
Ecco, questo è un altro aspetto fondamentale, importantissimo. Nell’esperienza inglese e in quella americana non c’è dubbio che la gran parte del successo delle scuole autonome è legata al turn-over iniziale dei docenti, cioè al fatto che quando la scuola diventa autonoma cambiano gli insegnanti. C’è un’infinità di evidenza empirica in letteratura, che dice che la buona scuola la fanno i buoni insegnanti e che le architetture istituzionali contano meno. Cioè prendi due bravi insegnanti, li metti in una scuola disastrata e la faranno funzionare bene, prendi due pessimi insegnanti, gli dai le strutture migliori e non verrà fuori nulla…
C’è l’esempio delle scuole ebraiche, sotto la persecuzione, quando si ebbe una concentrazione straordinaria di professori molto bravi…
È un ottimo esempio che andrebbe studiato di più. In quelle condizioni estreme le giovani e i giovani ebrei hanno studiato bene proprio grazie agli ottimi insegnanti che avevano. Ma su questo c’è anche uno studio impressionante di Raj Chetty su 2,5 milioni di bambini Usa che erano alle elementari negli anni Cinquanta e Sessanta e dei quali i ricercatori hanno ottenuto i dati fiscali una volta adulti. Con questi dati è stato possibile osservare una correlazione fortissima, che con buone ragioni può considerarsi causale, tra qualità dell’insegnante avuto alle elementari e successo professionale una volta adulti in termini di frequentazione universitaria, scelte occupazionali, reddito, ecc. Avere un insegnante bravo è decisivo per la vita!
Per inciso, notate che tipo di ricerche (e con quali dati) sono possibili in Usa, dove la legge per la tutela della privacy è usata per impedire le vere violazioni della riservatezza e non per impedire ricerche che aiuterebbero il dibattito di politica economica a essere meno ideologico è più basato sui fatti. In Italia non esiste (soprattutto per i vincoli imposti dal Garante per la Privacy) un’anagrafe che permetta di collegare longitudinalmente le carriere scolastiche degli studenti (con l’indicazione degli insegnanti che hanno avuto) alle loro carriere lavorative.
Tornando alla nostra proposta, l’evidenza empirica suggerisce che i buoni risultati delle GM school siano dovuti in una gran parte al cambiamento della qualità degli insegnanti. Cosa implica questo? Se vogliamo, ad esempio, trasformare in scuola autonoma la scuola elementare di Fiesole, una parte degli insegnanti attualmente impiegati in questa scuola verrà mandata via e ne verranno assunti altri migliori. Perché questa sperimentazione possa essere accettabile dal punto di vista sindacale, proponiamo una fase transitoria in cui la scuola divenuta autonoma possa essere libera di gestirsi come vuole, ma con effetti occupazionali che sono solo temporanei. Perché se poi la sperimentazione fallisce, noi dobbiamo poter tornare indietro e nessuno deve perdere inutilmente (e in quel caso ingiustamente) il posto di lavoro.
Deve essere chiaro però, che riteniamo necessario prevedere questa ipotesi solo per rendere la sperimentazione più accettabile al sindacato e ai lavoratori. Ci è stato detto che in questo modo gli insegnanti peggiori vengono scaricati sulla scuola pubblica. Noi rispondiamo che questo sarà vero solo temporaneamente: se la sperimentazione dimostrerà che questi sono davvero gli insegnanti peggiori, allora è bene che smettano di insegnare in qualsiasi scuola, autonoma o tradizionale: ossia, dovranno lasciare, con tutti gli opportuni ammortizzatori sociali, il mondo della scuola dove farebbero solo danni, per essere spostati altrove, anche se non necessariamente fuori dalla pubblica amministrazione.
Finita la sperimentazione, se avrà avuto successo (quindi se la zavorra… è veramente zavorra), da quel punto in avanti il personale non utilizzato dalle scuole diventate autonome dovrà essere licenziato, a meno che qualche scuola tradizionale (o qualche altra area della pubblica amministrazione) non voglia mantenerlo in servizio. Ma lo Stato qualche riflessione dovrà farla riguardo alla qualità e competenza dei suoi docenti licenziati dalle scuole autonome, se proprio grazie a docenti diversi le scuole autonome diventano migliori.
Tutto ciò ovviamente implica che le nuove scuole autonome, alla fine della sperimentazione, siano a tutti gli effetti assimilate a una fondazione privata che possa fare contratti di lavoro fuori dal sistema pubblico, applicando le regole del contratto di lavoro tra privati.
Passare subito al nuovo sistema e licenziare immediatamente la zavorra sarebbe preferibile? Crediamo di no, e allora bisogna trovare un compromesso per rendere accettabile la sperimentazione. Il compromesso prevede che temporaneamente (e solo temporaneamente in caso di successo) gli insegnanti indesiderati dalle scuole autonome vengano assorbiti da altre aree della pubblica amministrazione
Ma per assumere, le scuole autonome dovranno scegliere in una qualche lista di precari…
No, questo no! La scuola divenuta autonoma deve poter assumere chi vuole, qualsiasi neolaureato o anche un non laureato al limite: se io, per esempio, voglio proporre un corso per smontare un motore, non ho bisogno di un laureato ma di un bravo meccanico. Saranno le famiglie e gli studenti a valutare la qualità degli insegnanti assunti dalle scuole autonome, indipendentemente dalla loro certificazione e sulla base delle informazione che lo Stato dovrà essere in grado di fornire.
E le rette scolastiche?
La nostra idea è che le rette debbano essere pari a zero. Mentre per gli studenti universitari il beneficio dell’istruzione è, in misura relativamente maggiore privato piuttosto che collettivo, e quindi è ragionevole che chi lo ottiene ne paghi i costi (vedi a questo proposito il mio libro, con Daniele Terlizzese, “Facoltà di scelta” Rizzoli, 2013), al livello della scuola dell’obbligo il beneficio collettivo è relativamente maggiore e conseguentemente la nostra proposta prevede che il costo dell’istruzione sia a carico dello Stato.
Come ho già detto, ogni studente porta con sé una dote e costituisce quindi il canale attraverso cui il finanziamento pubblico arriva alle scuole. Se attualmente la scuola di Fiesole ha cento studenti e costa un milione di euro vuol dire che ogni studente costa dieci mila euro. Quindi, se la scuola diventasse autonoma, ogni studente dovrebbe portarle in dote diecimila euro. Se domani gli studenti diventano centodieci, la scuola otterrà un finanziamento maggiore.
Si pone però un problema nel caso in cui la scuola voglia espandersi e investire in nuove attrezzature che richiedano maggiori finanziamenti. Oppure nel caso in cui i costi di gestione aumentino. Chi decide se e quando aumentare la dote portata da ciascun studente? Questo è un problema tecnico non facile, ma risolvibile. La nostra idea è che una delle funzioni dello Stato sia proprio quella di valutare se e quando la dote debba essere rivista.
In ogni caso, lo studente deve poter scegliere la scuola preferita con l’unico vincolo che, se ci sono troppi studenti per una scuola, si estrae a sorte chi deve essere ammesso. Ma il reddito dei genitori non deve mai essere rilevante.
Una caratterista importante della proposta di cui ancora non abbiamo parlato, è la possibilità per le scuole autonome di acquisire fondi da privati. Se una scuola trova un finanziatore privato che dice: “Offro i soldi per costruire una nuova aula o per finanziare corsi aggiuntivi”, perché no? La tipica reazione italiana è: “Bravo, così le scuole dei ricchi avranno risorse maggiori di quelle dei poveri”. Ecco perché noi prevediamo che ogni finanziamento privato sia tassato, in misura pari al 20%, e che il gettito di questa tassa sia conferito a un fondo di solidarietà per le scuole che non hanno accesso a un simile tipo di finanziamento.
Concludendo, con le scuole autonome si avranno scuole più e meno buone, ma anche scuole più specializzate in certe materie e meno in altre, eccetera. Tutto questo esige una disponibilità alla mobilità che per l’Italia non è diffusa…
Beh, qui si apre una serie di problemi ben nota negli Stati Uniti. Nel momento in cui le scuole diventano autonome, si dà per scontato che non siano tutte uguali, non solo in termini di qualità ma anche in termini di offerte formative diverse a parità di qualità.
I genitori che vogliono fornire una formazione musicale ai figli si sposteranno nel quartiere in cui la scuola fornisce quel tipo di educazione. E si rivolgerà altrove chi invece aspira a una formazione scientifica. In America è normale che gli yuppies senza figli stiano nel centro della città, dove le scuole sono pessime, mentre appena ci si sposa e si hanno dei figli ci si sposta nei suburbs, dove ci sono le scuole migliori.
Questo tipo di mobilità porta al rischio di differenziazione tra le scuole dei quartieri ricchi e quelle dei quartieri poveri. Per esempio si sa che a Boston, nel quartiere di Brookline, che in realtà è un comune indipendente, le scuole sono ottime perché il Comune di Brookline fa pagare tasse molto alte per finanziare le sue scuole. E inoltre la migliore qualità delle scuole ha attirato famiglie benestanti facendo crescere il prezzo delle case. Questi fenomeni sono possibili. Ma sono un male, sono un bene? Bisogna stare attenti a non demonizzare la ricchezza acquisita in modo onesto. E una società in cui tutti abbiano lo stesso reddito non è necessariamente più equa. Comunque non è un compito della riforma della scuola risolvere ex post il problema dell’esistenza di ricchi e poveri. La scuola deve dare a tutti pari opportunità: le disuguaglianze ex post vanno eventualmente ridotte con gli opportuni strumenti di redistribuzione fiscale. A me, lo ripeto, non fa paura il fatto che ci siano scuole migliori e scuole peggiori, oppure la scuola gialla e la scuola blu, purché tutti abbiano la possibilità di scegliere la scuola che preferiscono.
Detto questo, è vero che la nostra proposta, per funzionare bene, richiede necessariamente alle famiglie, o per lo meno agli studenti, di essere più mobili. Per questo suggeriamo che sia meglio partire con le scuole superiori, dove gli studenti possono essere più mobili senza richiedere la stessa mobilità alle famiglie. Ma a regime, le famiglie dovranno abituarsi a scegliere dove abitare anche in funzione del tipo di scuola che preferiscono.
Mi rendo conto che questo sarebbe un grosso cambiamento culturale per il nostro Paese. Le caratteristiche delle scuole diventeranno un elemento importante (insieme ad altri) per decidere dove andare a vivere, ma non vedo perché questo debba essere un male.
(a cura di Giorgio Calderoni e Gianni Saporetti)