Tra peluche e cinismo, di Giuseppe Montesano. da “Gli Asini” n. 11 “Ma la vera realtà delle scuole tra Napoli e Caserta è quella dell’obbligo: lì la catastrofe è già avvenuta…”

Io sono un privilegiato: insegnando al liceo la mia platea è diversa da quella delle scuole medie, degli istituti tecnici e professionali. Piccola e media borghesia. È più facile lavorare. Ma la vera realtà delle scuole tra Napoli e Caserta è quella dell’obbligo: lì la catastrofe è già avvenuta, nel senso che tutte le tecniche pedagogiche non hanno senso quando intorno non funziona niente e la scuola non ha un ruolo centrale nella società, ma ne è soltanto un’appendice; quindi il suo malessere è solo sintomatico di un male più vasto ed enfatizzare le responsabilità della scuola è una fissazione da politici, per scaricare le responsabilità.

Bisognerebbe stare più zitti, fare quel che si può fare nel piccolo, nel quotidiano, far circolare idee, far leggere, far vedere cose, sia ai piccoli che ai grandi: i ragazzi sono avidi di sapere, di conoscere, però non lo sanno finché non lo vedono, non lo vivono, non sanno quello che desiderano davvero. L’adolescenza è un’età in cui si può ancora cambiare, è forse l’ultima possibilità, ma quando si vede quello che viene offerto a chi potrebbe cambiare, si capisce che il risultato non può che essere sconfortante.

Loro, i ragazzi, continuano beatamente e tristemente e in modo depresso a essere ignoranti, non sulle cose scolastiche soltanto ma sul mondo, e qui si apre la questione se sia la scuola a dover fare la parte della società, se debba sopperire alle sue mancanze, se debba raddrizzarne le storture: io sinceramente credo di no. La scuola deve dire per esempio chi è Platone, non può non dirlo, e non solo perché sta scritto nel misero programma ministeriale, ma perché è il suo unico compito, la sua unica chance, deve spiegare la geografia astronomica, i terremoti, i pianeti, le cose elementari e importanti della cultura. Però si tratta di un punto di partenza, quando invece è considerato il punto di arrivo, diventando così una stupida gabbia, e non un grimaldello per aprire la gabbia. Questo non succede solo perché molti insegnanti sono pigri, ripetitivi, figli di questa società e quindi uguali agli alunni, ma anche perché gli alunni adolescenti hanno sì una grande potenzialità, che gli insegnanti, adulti, in genere non hanno più, ma questa energia spesso non sanno nemmeno di averla e non sanno che possono usarla per sapere e capire il mondo: tutto gli insegna, dalla scuola alla famiglia alla società, che il mondo devono solo accettarlo senza capirlo. Poi tra gli insegnanti ci sono i soliti “incomprensibili”, come li chiamo io, persone che spontaneamente hanno voglia di resistere, di mettersi in gioco, di usare la propria vita per fare qualcosa, perché avvertono la sensazione di essere altrimenti dei vigliacchi. Credo che questo valga per tutti, non solo per studenti e insegnanti, e se qualsiasi persona che vive qua in Campania avvertisse profondamente questo turbamento, si comporterebbe diversamente già con i figli a casa, con le altre persone: non va dimenticato che i ragazzi vengono educati per strada, in discoteca, in mille altri modi, ma soprattutto a casa, in famiglia, dove per famiglia io però intendo una cosa malefica, che qui è ancora molto più forte di quanto si immagina: la famiglia allargata, l’ambiente. Non a caso i grandi gruppi criminali si chiamano “famiglie”, quella cosa che tende a risucchiarli nel già fatto, già visto, già vissuto, già pensato.

 

Isole a Gomorra

Il familismo è ossessivo, una specie di sistema, di meccanismo, fatto per riassorbire qualsiasi cosa metta in crisi questa catastrofe organizzata che va avanti sulla base di un equilibrio folle, delirante se visto dall’esterno, ma normale per chi ci vive dentro; è una forma di normalizzazione dell’assurdo che tende anche ad “aiutare” perversamente le persone, purché non mettano in discussione questo modello culturale. Per esempio, la scuola in certe zone del casertano dice all’alunno di non preoccuparsi, spiega che in cambio del fatto di non dare fastidio la vita sarà comoda, è semplicemente un meccanismo quotidiano della società che si è completamente impadronito di un’isola, perché la scuola è un’isola, e dal mio punto di vista farebbe meglio a restare un’isola: visto che non possiamo avere la “scuola che vogliamo”, allora meglio isolata piuttosto che ingoiata da questo tipo di società locale e forse ormai globale.

È meglio l’isolamento da questa società dell’illegalità legalizzata che toglie ai ragazzi il respiro, gli toglie qualsiasi forma di diversità possibile; i grandi titoli dei giornali parlano sempre del folclore criminale, non parlano mai della cosa più interessante, cioè l’illegalità diventata legale sia tecnicamente, nella società, ma soprattutto nella testa delle persone. È una mutazione profonda e grave, che rende difficile ogni discorso, ogni ragionamento, perciò da queste parti diventa difficile arrivare al piano etico: ed è per questo che da queste parti «etica» è una parola ipocrita, utilizzata da coloro che ne sono la negazione; una parola che più viene detta, ripetuta, utilizzata dal gruppo familista – che va dal politico all’ultimo dei custodi di edifici pubblici – e meno diventa reale nei comportamenti, nei gesti, nella vita quotidiana delle persone. Ma anche nella dimensione privata, nelle relazioni affettive tra i ragazzi, con le famiglie, che spesso sono o disastrosamente assenti o iperaffettive in senso falso: “Faccio finta di darti tutto perché in realtà non ti sto dando niente di essenziale”, oppure conflittuali in maniera aperta, totale: “la giungla è fuori casa e io la porto anche dentro”, anche se questo è più raro.

Quello che una volta si chiamava proletariato o sottoproletariato ha gli stessi comportamenti della borghesia caramellosa e fasulla: comportamenti tipici di ceti sociali falsificati e falsi per natura e storia, quelli della borghesia culturalmente intesa (“fatti i fatti tuoi e arraffa quel che puoi tramite parenti e politici”) si spostano dentro la giungla dell’ex proletariato o “popolo”, il che non ammorbidisce la giungla, né la coltiva, né funziona da lenitivo, ma aumenta soltanto la scissione dentro le persone e tra le persone. Andate, ma davvero, per esempio come insegnanti, a Scampia o al Parco Verde o al Villaggio Coppola: i ragazzini che nella criminalità ci vivono da sempre anche se non sono tecnicamente “criminali” sono completamente spaccati a metà, tra l’orsetto di peluche comprato all’ipermercato e lo spaccio pomeridiano nei luoghi delle periferie coatte, tra bisogno di affetto morboso, infantile, con un’età mentale e affettiva di tre anni, e un’età reale, fisica, di quaranta, e quaranta vissuti nella totale alienazione da bello e bene. Un ragazzino di tredici anni di certe scuole medie di Scampia oscilla tra un bambino affettivamente disastrato e un adulto disastrato, per cui ha un cinismo da adulto, il peggiore possibile, e nello stesso tempo una fragilità morbosa dal punto di vista affettivo: veramente un miscuglio tragico.

Il ragazzino che vorrebbe essere cullato e amato è lo stesso che dice al compagno “devi morire, ti uccido”, che utilizza la legge del più forte, l’unica filosofia nuova che si sta spandendo dal basso, il che è terrificante, perché questa era la filosofia predatoria e semi-segreta delle classi alte del liberismo ideologico, mentre adesso è filosofia di massa. Di fronte a questo forse valgono sempre le stesse cose, cioè le isole, le minoranze, i singoli, che però non devono restare soli. “Là dove sarete in tre, io ci sarò”, recita un passo degli Apocrifi; non troppi, perché presto diventano massa, ma non uno solo, e nemmeno due, cioè la coppia: il Cristo avventuroso e tagliente degli Apocrifi sa che la coppia può diventare l’inizio di ogni trappola familista, l’origine di ogni egoismo cieco. Nello stesso tempo il Cristo straccione non chiede mai astratti e impossibili sacrifici, e dice di amare il prossimo “come se stessi”, non ipocritamente più di se stessi: chiede un lavoro psicologico su di sé, non chiede la menzogna untuosa e politica della religione.

E qui, senza alcuna coltivazione delle persone e dell’io, la violenza divenuta filosofia inconscia e incosciente (ma ormai attraverso il liberismo ideologizzato e vincente anche apertamente propagandata) disgrega le regole non per farne altre, ma per sopravvivere in mezzo alle macerie. Altrove forse la violenza è più attutita, ma le dinamiche e le mentalità sono identiche, da almeno trenta quarant’anni questo posto è diventato come tutti gli altri.

 

Classismo ex cathedra

Tutta la verità del classismo viene fuori quando vedi la tizia con l’anello di smeraldo – i particolari si fissano perché non sono unici ma diffusi – che dice alla collega: “Guarda com’è bello, costa diecimila euro”, e dice poi nel consiglio di classe di una scuola media: “Questa ragazza non si lava e ha sempre gli stessi stivali e quindi la dobbiamo bocciare”, quando questa ragazza ha il compagno della madre che non lavora, il padre che non c’è, una casa disastrata, si lava da sola comunque i vestiti e mette sempre gli stessi stivali, d’inverno e in primavera, perché non ne ha altri. Non voglio fare del patetismo, è un fatto reale, e non così isolato: nelle scuole medie è diffuso, là si vedono l’odio e l’incomunicabilità di chi ha verso chi non ha, anzi là c’è proprio il vecchio classismo che si credeva legato a epoche diverse, come se non fosse cambiato niente. Il messaggio classista è: “Noi siamo noi, e possediamo”, e voi esclusi avete solo due possibilità: o fingete ipocritamente che la scuola e il mondo siano quelli di un tempo che in realtà non è mai esistito, e quindi sviluppate l’ipocrisia a dodici anni, oppure se la mattina dite che non avete potuto fare delle cose perché dovevate lavarvi gli stivali, ancora sono due le cose: o non vi ascoltiamo, non vi crediamo, oppure vi odiamo perché siete giovani e belli anche se avete gli stivali malmessi… Perché purtroppo, in questo caso che racconto, come in tanti altri simili, si aggiunge un altro elemento: l’insegnante è anche la classica donna locale, moglie insoddisfatta, aggressiva, incattivita, che deve semplicemente avere uno più debole sul quale sfogare le proprie frustrazioni: donna perché tale è la maggioranza. Infatti se l’insegnante è maschio, tutto si ripete uguale in altre forme.

So che sembra tragico, ma non è meno di questo, c’è una pulsione quasi animale per cui i trova in un gruppo di privilegiati può e vuole e voglio accanirsi contro chi sta sotto di lui. Ma bisogna verificare quanti, della classe degli insegnanti, appartengono alla classe dei privilegiati: un insegnante guadagna 1300 euro, non può essere un privilegiato, ma se è figlio di una famiglia con dieci appartamenti a Posillipo, o con trenta ettari di terreno, o sposata con un evasore fiscale, un avvocato o un imprenditore o un medico, eccetera, socialmente ed economicamente non è più un insegnate. Noi facciamo un errore, consideriamo l’insegnante un personaggio alla Mastronardi, povero e sfigato, ma quanti sono realmente così e quanti invece sono in questa condizione di privilegio? Non certo l’1% degli insegnanti, ma almeno il 30%, e statisticamente, per forza di numeri, si arriva al classismo, perché non è il caso dell’operatore sociale che è precario come il suo assistito: l’insegnante che appartiene per matrimonio o eredità alla classe dei ricchi è un diverso: per quell’insegnate lo stipendio è solo l’ultima cosa, serve per le spese di svago, o per farne mostra. Donne e uomini frustrati, classisti, che fanno gli insegnanti, non possono che portare dentro la scuola frustrazione e classismo, e statisticamente sono in troppi.

Io quasi non credo a me stesso quando dico “classismo”, perché pensavo si trattasse di un concetto-ferrovecchio, ma più passa il tempo in questi ultimissimi anni e più mi sembra un utensile assolutamente indispensabile per capire certe cose, e questo mi riporta a una delle mie ossessioni:la Storianon è cattiva, il fatto è che in certi postila Storianon è ancora cominciata o è a un livello primitivo. Come diceva un vecchio signore, “noi viviamo ancora nella preistoria”, e veramente finché esiste e si rafforza come Storia il regno dell’ingiustizia non trovo niente di più vero di queste parole.

 

Formazione e deformazione

Ciò che gli organismi preposti al comando e al controllo della scuola italiana, dal più alto al più basso, considerano “formazione” è l’esatto contrario di qualsiasi minima educazione e formazione umana. I vari consulenti dei ministeri, i teorici della formazione, sono del resto quelli che hanno creato le leggi, costruito i sistemi formativi, immediatamente creato il disastro. Dopo averlo creato hanno offerto alla politica un sistema perverso di controllo dei giovani e di letterale perdita di tempo con cui stressare e angosciare e ansioliticizzare quelli che dentro la scuola vorrebbero fare gli insegnanti, perché il paradosso è che la signora con lo smeraldo sguazza come un pesce nei corsi di formazione e nel formalismo burocratico, e il professore trentenne o sessantenne che ha voglia di dialogare con i ragazzi e di confrontarsi con le cose reali soffre e si deprime. Ci sarà un motivo, non può essere una cosa casuale, ma sistematica: l’aria va resa irrespirabile, e voi pochi che vorreste “coltivare” esseri umani dovete arrendervi, così pensa e vuole il burocrate al servizio del politico, mentre per la signora con lo smeraldo, che ha tempo da perdere, il corso di formazione e la burocrazia sono una manna.

Tra l’altro quello dei corsi di formazione è un sistema feudale e cooptativo: chi ci va a insegnare, in genere presidi e soprattutto burocrati dei provveditorati, non può che fare le cose peggiori, che gli sono state chieste di fare, e le trasmette a chi ascolta, che in parte lo odia, in parte se ne frega e in parte è semplicemente distrutto e stanco, col risultato che letteralmente il male cresce. Se uno fa l’insegnante e crede ancora alla lezione elementare di Socrate, che in sintesi dice “io e te dobbiamo parlare”, anche all’infinito – e questa è la pedagogia, questa dovrebbe essere la formazione, come dice stupendamente Zanzotto c’è solo “il mutuo insegnamento di tutto a tutto” – scopre che per i teorici italiani della scuola questo concetto è totalmente svanito, e dietro forme fasulle torna l’idea che l’insegnante diriga un piccolo carcere postmoderno, digitalizzato, con la lavagna elettronica e il vuoto necessario a non far pensare. Dietro gli ultimi venticinque anni di teoria e pratica della formazione venuta dai ministeri e dai loro esecutori tecnici, c’è un solo dogma: le persone non devono pensare.

 (Gli asini, n.11, agosto/settembre 2012)