Lettera al figlio di Michele Serra, di Nicola Villa – da Gli Asini – Rivista

Il primo impulso, appena finito di leggere Gli sdraiati di Michele Serra, è quello di scrivere una lettera al figlio dell’autore per esprimergli tutta la nostra simpatia e solidarietà. O anche scrivergli un semplice e laconico sms con “coraggio!” o “resisti!”. Oppure un messaggio su facebook di “amicizia” e comprensione.

Potrebbe essere questa la reazione alla lettura di un pamphlet, in forma di lettera al figlio appunto, così auto-indulgente verso il padre, e quindi i genitori, e così prepotente contro i figli, pur ammettendo una responsabilità fasulla. Gli sdraiati è stato “campione d’inverno” della classifica dei libri più venduti proprio perché ha suscitato una sorta di riconoscimento genitoriale. Leggendolo si pensa alle migliaia di genitori – magari divorziati borghesi più o meno ricchi del noto giornalista di “Repubblica” e “L’Espresso”, autore televisivo e umorista – che, rispecchiandosi nel ruolo di genitore esausto e riconoscendo in quello di Serra i propri figli “sdraiati”, potrebbero esclamare: “finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dire che quella dei figli è una generazione di merda”.

“Gli sdraiati” sono i non-partecipanti non solo al mondo degli adulti, ma al mondo tutto e al presente. Sono gli abulici, i depressi, gli apatici, i figli viziati che hanno tutto e non danno nulla. Per rendere l’idea ecco una descrizione del figlio di Serra, un paradigma dell’“essere sdraiato”: “Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso, con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini, laddove una volta ritrovai anche un würstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti”. Raccontare la nuova generazione X, o meglio la “generazione s”, quella degli “sdraiati”, adolescenti inermi e orizzontali davanti a qualsiasi schermo digitale (computer, tv, tablet, smartphone) è la grande promessa non mantenuta di questo libro. Perché quello che interessa a Serra-padre non è ascoltare Serra-figlio o dargli voce in rappresentanza dei suoi coetanei, ma semplicemente lavare “i panni sporchi” in pubblico. È questo, probabilmente, il segreto del successo del libello: fare i conti con il lato “sporco” del rapporto padri-figli in cui molti lettori possono riconoscersi o meglio immergere le mani. Tra l’altro nell’agile libro non ci sarebbe spazio per alcuna altra voce, perché l’ego smisurato e ispirato di Serra-senior l’occupa tutto da cima a fondo.
Di “panni sporchi”, letteralmente, ne Gli sdraiati, ce n’è in grande quantità con la relativa lamentela del padre disperato e sbraitante: “in cucina il lavello è pieno di piatti sporchi” e “macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli”; nel bagno la situazione è addirittura peggiore con “peli pubici nel bidè” e “righe di merda” nel water. Ma la cosa davvero messa alla berlina è l’apatia del figlio unico che non si lascia coinvolgere in alcuna attività paterna preferendo il divano e le sue protesi tecnologiche. Le proposte paterne sono tutte coniugate all’ecologico a voler evidenziare il contrasto di sensibilità tra padre e figlio: la giornata di vacanza e di nuotate nella seconda casa al mare, la vendemmia del Nebbiolo nella vigna sulla Langa di un’amica paterna e la famigerata scalata del fantasioso e metaforico Colle della Nasca, raccordo narrativo del libro. Serra-figlio contrappone a tutte queste proposte ambientaliste una strenua resistenza ostinandosi in eterne docce che irrigherebbero paesi desertici e in sprechi energetici di qualsiasi dispositivo o elettro-domestico. Serra-padre ci descrive, scandalizzato, un giovane campione del consumismo irresponsabile e menefreghista, mentre la sua tremante sensibilità ecologista, in auliche descrizioni di mari e monti, lo presentano come un adulto responsabile e consapevole. Tuttavia il Serra-ecologista risulta assolutamente inedito avendo letto, in un passato neanche troppo lontano, il suo biasimo, ad esempio, verso il movimento ecologista No-Tav colpevole di essere reazionario e anti-progressista contro una grande opera anti-ambientalista o forse solo colpevolmente alla “sinistra” del giornalista. L’ecologismo di Serra è più un passatempo borghese, a vagheggiare sul panorama dello spettacolo della natura, oppure, semplicemente, solo un artefatto pretesto per poter litigare con il figlio.
Quello del consumo – dell’economia – è un tema fondamentale e forse il più centrato del libro. Non a caso il capitolo più interessante è la visita a un mega-store di felpe per adolescenti Polan&Doompy (come nel caso del Colle della Nasca anche questo un nome di fantasia che ne richiama molti altri di marche famose). L’autore si immerge in questo universo consumistico concentrazionario per capire cosa ci sia dietro il rito che spinge adolescenti di tutte le razze, classi e paesi (il marchio è global ovviamente) a fare la fila per spendere centinaia di euro per una felpa Polan&Doompy. “Saremo mica diventati tutti uguali, per caso?” si chiede con preoccupazione un immaginario ricco ragazzino milanese, perché il punto che coglie Serra è proprio il tramonto del tradizionale status-symbol classista. L’invasione dei barbari del consumismo è totale e inter-classista, una buona parte dei giovani acquirenti provengono dall’hinterland e dai paesi di provincia: “sono i pronipoti di quelli che ci andavano in due giorni con il birroccio, da Baranzate a Milano, per vendere le lattughe e le galline”. Quel mega-store non è più un negozio di felpe, oppure lo è minima parte, poiché si è trasformato in un’esperienza che coinvolge i sensi dall’olfatto alla vista e infine è un produttore di immaginario desiderante narcisistico. Nel negozio Polan&Doompy, descritto da Serra, tutto è studiato, dalla teatrale posizione delle luci alle foto dei modelli neo-ariani, dall’odore dolciastro e stordente per ambienti all’atteggiamento dei commessi (glaciali modelli viventi). Ogni dettaglio è calcolato non per contribuire a un immaginario banalmente omosex, che costringerebbe comunque ad amare un altro, ma per arrivare alla venerazione e contemplazione di se stessi. Le tre domande che Serra si pone, sulla fortuna del narcisismo, sono abbastanza inquietati e condivisibili: “Che probabilità di successo ha la Soluzione Finale in corso d’opera, quella che prevede la trasformazione degli esseri umani in Scemi Totali (e dunque consumatori ideali e sudditi ossequiosi) attraverso il narcisismo di massa? La narcisizzazione dell’umanità ha punti di crisi? è un processo reversibile?”. Stupisce che al termine di queste riflessioni calzanti, l’autore riesca sempre a uscirne illibato, a non sospettare che ci sia da parte sua una certa complicità con i tempi in cui è costretto a vivere il figlio. In un’occasione ammette che il suo unico dovere è provvedere economicamente al mantenimento della prole, ma mai, in nessuna delle cento pagine del libro, Serra contestualizza la crescita del figlio ventenne in questi ultimi vent’anni di cultura berlusconiana. Vent’anni in cui, tra l’altro, il giornalista ha continuato ad arricchirsi, a conseguire un benessere medio-alto e a fornire un esempio sostanzialmente allineato con i tempi. Se con la penna  Serra è stato il rappresentate del buon senso indignato e dubbioso di sinistra contro la corruzione dei tempi, nei fatti questi tempi non li ha ostacolati. Venti anni di “amache”, “satire preventive”, editoriali e testi per Fazio e la tv non sono serviti a creare un argine a questa deriva, a creare un dubbio di autocoscienza nella classe media italiana, ma l’hanno semplicemente conformata e traghettata nel post-berlusconismo consumista. Figli “sdraiati” ci dice Serra, ma verrebbe anche da rispondere genitori “piegati”: piegati innanzi tutto ai consumi, ai desideri di consumo dei figli, e soprattutto piegati dal vento del tempo.
Ma non ci sono solo lamentele disperate, passeggiate simboliche e osservazioni socio-economiche ne Gli sdraiati. C’è anche, purtroppo, una allucinante e allucinata parte “creativa”, quella meno riuscita, dell’invenzione di un romanzo epico-apocalittico, che l’autore sta scrivendo come sfogo per il suo rapporto fallito con il figlio, su una Grande Guerra Finale tra vecchi e giovani. A partire dalla suggestione che verso la metà di questo secolo, la classe dominante, in Occidente, sarà composta da vecchi, Serra si inventa, appunto, un romanzo fantascientifico su uno scontro definitivo vecchi-giovani. Soprassedendo sul nome del protagonista e alter ego dell’autore del romanzo immaginario, Brenno Alzheimer – neanche da parodia del peggior romanzo di Stefano Benni – , Serra fa vincere la guerra ai giovani. Il condottiero degli anziani tradisce la causa dei vecchi, scrivendo una lettera (un’altra!) alla pronipote nella quale ammette le responsabilità della guerra e consegna il futuro alla vita e quindi alle generazioni che verranno. È la parte insieme più modesta e ruffiana de Gli sdraiati: Serra dimostra di aver accolto ideologicamente e demagogicamente la visione di una società con una contrapposizione generazionale in corso. Una visione che è totalmente fallace, creata dai tecnocrati per giustificare precarietà da una parte e taglio delle pensioni dall’altra, mettendo giovani contro vecchi. Forzando un po’ si può notare che Serra abbia anche metabolizzato e sintetizzato i due emergenti immaginari politici del dopo-Berlusconi: il primo è quello guerresco, da ultima spiaggia, del duo Grillo-Casaleggio che oltre al titolo del loro libro Siamo in guerra. Per un nuova politica(Chiarelettere 2011) non perdono occasione per diffondere video paranoici sulle prossime guerre mondiali e utilizzare la parola “guerra” in ogni contesto; il secondo è quello del “largo ai giovani” del “rottamatore” Renzi.
Anche se sale sul carro del vincitore di turno in ottica giovanilista, Grillo o Renzi che siano, Serra resta, pero, un ex-sessantottino convinto. Ne Gli sdraiati questa origine è evidente quando lo scrittore ammette di essere un relativista etico. Il relativismo etico è proprio la formula de-responsabilizzante per chi ha contestato il potere e ora, ottenutolo, non vuole essere confuso con questo. L’espressione – sono parole di Serra – “sta a indicare quella larga fetta di adulti occidentali che, a parte una ridottissima serie di precetti senza tempo e senza copyright (tipo non ammazzare e non rubare), non riescono a trovare indiscutibile alcun assetto etico, specie nella vita privata”. Serra non potrebbe dire la maggior parte dei “sì” e dei “no”, non tanto perché mentirebbe al figlio, non credendo più all’autorità, ma perché mentirebbe alla sua coscienza, alla sua individualità. Quando sembra ammettere di aver abdicato al ruolo del padre per comodità e pigrizia, l’autore si auto-giustifica dicendo che qualsiasi potere è autoritario e non credibile.
Di fronte a questa falsa coscienza paterna è commovente la resistenza a non farsi coinvolgere del figlio che, va ripetuto, non ha mai voce in capitolo se non in una sola occasione, proprio quando fa piacere al padre, dimostrando di avere un’individualità non allineata, di essere anche lui un piccolo relativista etico in erba. Al contrario è impressionante l’auto-indulgenza di Serra nel non riconoscere le proprie responsabilità di educatore, essendo completamente ripiegato su se stesso. Non c’è curiosità per i gusti, i desideri e i linguaggi del figlio. L’unico educatore che compare nel libro è un tatuatore che, rimproverando il padre, gli ricorda che l’importante è l’ascolto padre-figlio. Una pratica totalmente assente per tutto il libro e quindi “sdraiarsi” diventa quasi una misura necessaria di disobbedienza.
Una lettera al figlio di Michele Serra si concluderebbe, però, con un augurio: caro Serra-figlio, resisti sdraiato… e se mai dovrai, alzati per ribellarti al tuo e agli altri padri.