Intervista di Andrea Sola a “Una Città”: il “dopo-non-scuola”

UNA CITTÀ n. 212 / 2014 Aprile
Intervista a Andrea Sola
realizzata da Giovanni Pasini

IL “DOPO-NON-SCUOLA”
Manualità artigiana e pratiche pedagogiche libertarie per offrire ai bambini occasioni attraverso cui esprimersi; una relazione, quella tra adulti e bambini, improntata sempre più sull’autorità anziché sul dialogo; le costanti preoccupazioni delle maestre per il programma da completare che scoraggiano ogni nuova iniziativa; l’esperienza del “dopo-non-scuola”. Intervista ad Andrea Sola.

An­drea So­la ha ini­zia­to a oc­cu­par­si di di­dat­ti­ca del­l’ar­te nel 1983, fon­dan­do a So­ra­no (GR) ­­l’ As­so­cia­zio­ne Pan­do­ra. Si in­te­res­sa del­lo stu­dio e del­la dif­fu­sio­ne del­le pra­ti­che del­l’e­du­ca­zio­ne at­ti­va; è im­pe­gna­to nel­la con­du­zio­ne del­l’Os­ser­va­to­rio sul­la edu­ca­zio­ne e la scuo­la nel­la zo­na del ve­ne­zia­no e nel­la co­stru­zio­ne di espe­rien­ze edu­ca­ti­ve col “Cen­tro Pan­do­ra”, si­tua­to al­l’in­ter­no del par­co di For­te Mar­ghe­ra a Me­stre. È re­dat­to­re del si­to www.educareallaliberta.org do­ve ven­go­no rac­col­ti i ma­te­ria­li e i con­tat­ti re­la­ti­vi al­le pra­ti­che edu­ca­ti­ve al­ter­na­ti­ve in Ita­lia e al­l’e­ste­ro.

Ti occupi da anni di didattica nel settore della ceramica e hai sviluppato attività che coniugano manualità artigiana e pratiche pedagogiche basate sulla libertà. Puoi raccontare?
Si potrebbe cominciare con i laboratori di narrazione per immagini, che è la cosa che faccio da più tempo, quasi esclusivamente nelle scuole. Questi laboratori, che ho chiamato “Il gesto e la parola”, prevedono l’interazione di diverse modalità espressive in un’unica esperienza comunicativa, cioè la narrazione con parole, la rappresentazione per immagini pittoriche e plastiche -l’uso della creta- e l’uso degli strumenti audiovisivi per la registrazione delle voci e delle immagini con la fotografia e il video. Cioè registrare piccole scenette che i bambini creano in creta, quindi dando, come dire, vita a questi personaggi. A loro viene spontaneo, basta dargli l’idea che è possibile e lo fanno. Il racconto può essere autobiografico, di fantasia, o un testo letterario, come abbiamo fatto nella media di Burano con “La storia”, di Elsa Morante.
Facendo queste esperienze si apre per loro una possibilità nuova, cioè quella di raccontare per immagini; la parola perde la centralità e diventa un complemento dell’immagine. Questo ha dei vantaggi secondo me importantissimi, perché tante cose non si riescono a esprimere con la parola. L’ho verificato in tanti casi, soprattutto con bambini difficili, con difficoltà relazionali, che assolutamente non erano in grado di verbalizzare le loro esperienze, ma che, di fronte al mezzo figurativo, si sono liberati. Socializzare a partire da attività manuali ha dimostrato di dare dei bei risultati. E l’argilla è uno strumento estremamente vicino alla sensibilità dei bambini, perché non hanno alcun ostacolo, loro, ad utilizzarla. Direi forse come il disegno o anche di più, si entusiasmano proprio nel vederla.
Riguardo l’uso di mezzi multimediali, io sono perfettamente d’accordo con la critica che fa Franco Lorenzoni all’uso dei monitor nelle scuole, però questo non ha niente a che vedere con un uso consapevole da parte di un insegnante o comunque di un adulto, che dà la possibilità ai bambini di usare il digitale in modo attivo. Voglio dire: perché no? Per me il problema è quando la Lim sostituisce altre forme espressive e ruba spazio mentale ai bambini.
Qual è il senso e il valore della rappresentazione figurativa e plastica per i bambini?
I bambini usano il disegno o il racconto fantastico, tutto quello che gli adulti chiamano poesia, arte, eccetera… per capire il mondo. L’uso del mezzo artistico-figurativo nel bambino non ha niente a che vedere con l’atteggiamento dell’artista adulto, dove c’è un’intenzionalità consapevole di compiere un’operazione di trasformazione del reale. Non è che i bambini sono bravi perché sono creativi. Il bambino che fa lo scarabocchio di un albero -un po’ come il primitivo o il malato mentale- pensa che sia quello l’albero! Perché, cognitivamente, lui arriva a comprendere l’albero attraverso quei segni, che, col tempo, si evolvono anch’essi. È una forma di conoscenza, di appropriazione del mondo. Noi dobbiamo partire dalla considerazione che quello che vedono i bambini del mondo non è quello che vediamo noi. È un altro mondo. Infatti, qualsiasi ordine o spiegazione gli diamo, viene da loro compresa usando questi mezzi, questo tipo di intelligenza. È assurdo negarne la specificità assimilandola al nostro schema logico-razionale. Quello viene dopo. Per tutta la fase dell’infanzia e della prima adolescenza, bisognerebbe dare spazio e valorizzare al massimo tutte queste forme di espressione. Anche nelle storie fantastiche che i bambini raccontano in classe, è chiaro che i personaggi sono quelli dei cartoni che vedono alla televisione o dei videogiochi, perché il loro immaginario è fatto di quelli, ma loro hanno un’enorme capacità di trasformarli, facendogli fare cose del tutto inusuali, umanizzandoli, cambiando il contesto: l’alieno che sposa la strega… Con i bambini che disegnano bisogna interloquire, che non significa parlare del disegno, ma di quello che vogliono dire, di quello che stanno pensando mentre fanno quel disegno. Perché il modo in cui un bambino disegna una certa cosa o una certa persona, è il segno di quello che sta cercando di capire in quel momento. Che non ha niente a che vedere con il problema estetico. Il punto è che non si deve credere che con i bambini si sta facendo arte! Esistono loro, il loro mondo. E noi dobbiamo prima di tutto riuscire a capirli e, se possibile, entrare in relazione con loro.
L’argilla in classe che riscontro ha avuto da parte delle maestre?
Devo dire che l’uso dell’argilla a scuola se suscita, di primo acchito, molto favore da parte degli insegnanti, poi viene utilizzata molto sporadicamente, perché è un materiale che si controlla con difficoltà. I bambini la utilizzano in modi molto liberi e questo mette in difficoltà i maestri, che vogliono poter vedere dei risultati precisi, possibilmente omogenei per tutti. Ma le loro opere non sono misurabili in base a schemi o canoni. I maestri si preoccupano che tutti facciano esattamente la stessa cosa o che tutto sia finalizzato al tema specifico, ma questo è fuori della logica dei bambini; non si vuole accettare un uso libero del mezzo al di fuori del “disegno a piacere”, come dicono i bambini, che significa: “Fate quello che volete, non mi importa. È un’attività secondaria che non ha valore”. Ma non è a piacere. È a dovere. Cioè, è quello il lavoro dei bambini, noi dobbiamo aiutarli a fare quello. Se non capiamo questo, siamo fuori strada.
Per dire, sempre all’insegna di questa falsa creatività, a Pasqua si fanno gli ovetti e a Natale si fa l’angioletto. E guai a non farli, “perché i genitori se lo aspettano”. Io dubito che non sarebbe possibile spiegare che si possono fare altre cose. Purtroppo c’è questo meccanismo della consuetudine, dell’omologazione, che è tremendo. Una maestra se anche vuole fare una cosa diversa non la fa, perché viene additata come quella che vuole distinguersi. Così anche questa pratica dell’argilla non viene utilizzata regolarmente: dopo un iniziale entusiasmo, l’interesse va scemando e capita che smettano di proporla, nonostante la mia disponibilità a seguirli, anche gratis. D’altra parte mi sono capitati anche maestri che durante la mie ore, a volte, mi facevano stare fuori ad aspettare, perché erano in ritardo, dovevano finire di fare una cosa; le maestre sono sempre in ritardo… Bisogna sempre correre, perché c’è il loro programma da seguire. Queste cose sono “extra”.
Poi ci si scontra con la storia della privacy, oppure col pregiudizio o ancora con la paura, per cui fai i video ma non li puoi far vedere. Ho fatto un laboratorio dove i bambini di seconda elementare raccontavano i loro sogni. È stato stupendo. Alla fine ho fatto il montaggio (ovviamente le monto io le cose, perché lì non c’è tempo, mi danno un paio d’ore per due, tre volte). Bene, una volta finito tutto ’sto lavoro, i maestri non hanno dato ai bambini il dvd. Invece era da dare a tutti, e da tenere, perché è una memoria incredibile, che arricchirebbe. In più io ci metto dentro sempre tutto, non c’è la selezione per cui trovi solo il pezzo più bello.
Questi strumenti tra l’altro potrebbero aiutare il genitore a capire cosa passa per la testa al bambino, che altrimenti non glielo racconta. Pensa che comunicazione ci potrebbe essere tra l’insegnante e i genitori, che complicità, se potessero condividere anche queste cose e non solo il voto. Invece non le usano. Nel caso del lavoro sui sogni, addirittura, i genitori non sono stati informati.
Perché?
Penso che le maestre non abbiano voluto dare il dvd ai genitori perché temevano le loro reazioni al sentire che i bambini dicevano, ad esempio: “Ho sognato di far l’amore con la mia vicina di banco”. Oppure: “Ho sognato uno che veniva e ammazzava tutta la famiglia”. Sono esempi estremi, ma il punto è che molte maestre proprio non vedono che c’è la possibilità di usare anche questi strumenti, grazie ai quali vengono fuori delle verità, che, ripeto, si potrebbero condividere con i genitori.
Purtroppo prevale invece l’omertà. Anche recentemente ci sono stati fenomeni di bullismo in una quinta elementare e le maestre si sono rifiutate di affrontare l’argomento con i bambini e con i genitori. Hanno detto: “Vedremo quando sono più grandi”. È un atteggiamento diffuso. Sono in molti ad avere questa mentalità.
C’è proprio un problema di relazione tra adulto e bambino.
Oggi più di ieri assistiamo a un’incapacità generalizzata di sostenere il rapporto con i bambini da parte degli adulti. C’è un’insicurezza di fondo che è paurosa e questo porta a una chiusura, a un tentativo di allontanare tutto quello che può tirar fuori i problemi, che può mettere in discussione la figura dell’adulto. Mi viene in mente quel libro tristissimo, che è diventato un best-seller, intitolato “Gli sdraiati”, di Michele Serra, in cui si parla di questi mondi incomprensibili, di questi adolescenti sdraiati sul divano, di famiglie dove la relazione educativa è venuta meno e rimane solo quell’ atteggiamento stupefatto di incredulità per l’estraneità dei giovani ai nostri valori, per cui ci si rifiuta di accettare l’idea che quel modo di vivere non è che la risposta dei nostri figli al nostro modo di vivere.
Ma perché noi adulti abbiamo paura di metterci in una relazione dialogica con i più giovani? Io credo sia perché ci sentiamo così perduti, così privi di risposte agli interrogativi fondamentali della vita, che davanti ai giovani che si aspettano da noi di capire da che parte si deve andare, non sappiamo dare risposte. In loro, nelle loro insicurezze, nei loro interrogativi taciti, vediamo noi stessi, ci specchiamo e, se lo ammettessimo, saremmo costretti a dichiarare il nostro fallimento. Quindi preferiamo tenerli a distanza. Con tutti i mezzi.
Questo vale sia in famiglia che nella scuola. Il cosiddetto senso di protezione, l’ansia del controllo, accentuatissimi, che si notano oggi in tutte le relazioni degli adulti nei confronti dei piccoli (quelli che Gardner ha chiamato i “genitori-elicottero”) a ben vedere hanno origine nella preoccupazione di non lasciarli in situazioni aperte, non previste.
I bambini si preferisce tenerli davanti al videogioco. Una volta si andava a casa degli amici, chi aveva più spazio chiamava i bambini a giocare presso di sé. Questo, adesso, non succede quasi più. Troppo impegnativo per i ritmi familiari, troppa responsabilità per chi ospita… Oppure il dormire a casa di un amichetto, che era il massimo dei piaceri per un bambino (e lo sarebbe tuttora, non è cambiato nulla!), beh, è rarissimo! E comunque solo nei prefestivi e come grande concessione. Non è normale, insomma. Mentre è normale lasciare il bambino da solo in casa, col suo videogioco, o dai nonni.
Nella scuola questo si manifesta nelle regole: mantenere le distanze, non confondere i ruoli, “Io sono la maestra che ti deve insegnare un certo numero di cose”. E poi non bisogna sgarrare dalla tabella di marcia, perché gli allievi devono essere pronti ad affrontare le richieste che verranno loro fatte da quelli del ciclo successivo. Questo è un imperativo che vale dalla prima elementare. E adesso, un po’ alla volta, anche dall’asilo. Quindi, io maestro devo preoccuparmi, prima di tutto, di farli essere all’altezza di quello che verrà. Costi quello che costi. Così, tutto quello che esula dalla programmazione è considerato secondario, viene dopo, se c’è tempo. Ma così finisce che è proprio la relazione educativa che esula dal programma. Sembra esserci una paura del dialogo, dell’affettività, di instaurare un rapporto intimo, confidenziale con i piccoli, che altrimenti potrebbero fare domande imbarazzanti o richieste che hanno a che fare con i loro problemi (o con i nostri…). Tutto questo viene assolutamente bandito dalla classe.
I maestri pensano che non sia quello il loro compito. Sembra addirittura che abbiano il sacro terrore che i bambini si divertano a scuola. Per carità, è una cosa che non deve succedere. E se succede, la prima preoccupazione è di calmare gli animi. A intervalli regolari, quando vedono che i bambini sono un po’ troppo euforici, si bloccano e cominciano, scandendo le parole: “Io-non-sono-per-nulla-contenta-di-come-vi-state-comportando”.”Dovete-imparare-a-non-gridare”. “Quante volte -pausa- ve lo devo -pausa- dire?”. Non sono favole, è realtà quotidiana. L’ultima volta che sono andato in una terza elementare, la maestra è stata franca: mi ha detto che io do troppa confidenza ai bambini e poi lei li deve “recuperare” quando vado via.
Questa è la mia esperienza nelle scuole. Mi sono sentito dire: “Ah, tu fai presto perché non stai là tutti i giorni”. La cosa assurda è che questo loro modo di rapportarsi coi bambini è faticosissimo, stressantissimo per loro, oltre che per i bambini. Bisogna andare oltre quest’ansia da prestazione. Se si parte da un’altra visione: “Sto con i bambini perché loro devono, prima di tutto, stare bene” cambia tutto. A quel punto si può fare anche “filosofia a scuola”, ragionare con i bambini dei loro problemi, tirar fuori l’emotività, raccontarsi le cose che si pensano. Ci sono montagne di libri che spiegano come fare: da Maria Montessori a Mario Lodi, anche lui un maestro unico con venticinque bambini! Dov’è la differenza? Che cosa è cambiato se non la sovrastruttura? Ma il rapporto insegnanti-alunni potrebbe essere lo stesso.
Si potrebbe inventare qualcosa per tutte le materie. Il bambino potrebbe essere invitato a raccontare qualcosa che gli hai fatto conoscere con i mezzi a lui più congeniali, non per forza col mezzo che vuoi tu. Anche con la musica, con la corporeità, la fisicità, il muoversi, il mimare, elementi fondamentali e inesistenti nella scuola. Ci sono bambini che si esprimono col corpo, hanno proprio bisogno di farlo. E il corpo, il movimento, non c’entrano nulla con la ginnastica. Oggi, lo sappiamo, i bambini hanno una maggiore difficoltà ad ascoltare, il tempo di attenzione al discorso diretto è bassissimo, mentre l’esigenza di muovere il corpo è altissima, ma viene interpretata come indisciplina, irrequietezza. In realtà non è vero che sono più irrequieti. Diventano intrattabili quando avvertono la tensione e poi, francamente, è impossibile tenere un bambino otto ore seduto, come invece succede nelle scuole col tempo pieno. Bisognerebbe che ci fossero dei momenti di libertà del corpo, anche solo la psicomotricità, che è stata teorizzata, ma in realtà è movimento libero, magari con delle attività, con delle tematiche suggerite oppure con degli strumenti. Insomma, parlo di cose molto semplici che potrebbero diventare veramente pratica quotidiana.
Io avevo proposto una cosa del genere nella scuola vicina, l’avevo chiamata “a corpo libero”. Era un’ora di intervallo, da inserire regolarmente nella giornata, in cui i bambini avrebbero potuto muoversi liberamente, con una musica o prendendo spunto da delle tematiche, però dando libero sfogo alla corporeità. Quello che era una volta l’intervallo… Perché adesso negli intervalli non puoi più fare quello che vuoi: ti mangi la tua merendina, seduto, e basta.
Come si esce da questa situazione?
Prima di tutto è una questione di disponibilità. Gruppi di maestre affiatate, meglio se in realtà piccole, ancora oggi riescono a fare una scuola diversa. Uno, da solo, non fa niente. È questa la situazione. Come la modifichi? È difficile, perché poi ci sono i trasferimenti… è un ginepraio! I dirigenti, anche volendo, non hanno la possibilità di scegliere gli insegnanti, è tutto rigido. Pensare poi di formare, riformare gli insegnanti esistenti con corsi di aggiornamento, secondo me è folle. Le abitudini, le pratiche consolidate non cambiano facilmente.
Quindi la soluzione deve venire dagli studenti. Bisognerebbe fare una libera università, non istituzionale. Un luogo virtuale in cui le persone -ce ne sono tante, capaci, intellettualmente preparatissime- si rendono disponibili a trasmettere questo tipo di esperienze, di competenze, di memoria storica, di pratiche, agli studenti. Si potrebbe fare ovunque, ognuno nella zona dove abita, con videoconferenze, con dispense, con incontri periodici.
Oggi, gli studenti che fanno Scienze della formazione o comunque i giovani aperti, curiosi, con una disposizione per l’educazione, secondo me avrebbero una grande fame di queste nozioni, di queste informazioni, di queste esperienze. L’università non mi sembra in grado di cambiare in questo senso. Cioè, abbiamo futuri insegnanti che non sanno neanche cos’è la psicoanalisi, chi è Freud, e hanno a che fare quotidianamente con bambini che vengono fuori da situazioni problematiche. Non conoscono le pratiche, non conoscono i capisaldi dell’educazione alternativa di questo secolo, i personaggi fondamentali. Soprattutto non vengono a contatto con ambienti vivi, dove si fa sperimentazione, dove si provano rapporti diversi. Ma la formazione si fa vedendo, facendo vivere le cose ai ragazzi; i discorsi teorici, comunque importantissimi, devono essere sempre legati a un rapporto dinamico con le persone, le situazioni, le realtà…
Ecco, secondo me questa è una possibilità che ci sarebbe, in maniera praticamente gratuita, e avrebbe un enorme riscontro, perché formerebbe nuove figure professionali. Non sarà un caso se stanno nascendo un po’ dovunque realtà di educazione autonoma, promosse da gruppi di genitori. Comincia a esserci una richiesta di questi tipi di figure che non va sottovalutata.
Se avessi un po’ più di sicurezza e di struttura a livello logistico, mi piacerebbe offrire anche qui una proposta di formazione per gli studenti: “Venite a vedere che cosa stiamo facendo”. Ma il Centro qui a Forte Marghera è solo uno dei mille posti dove i ragazzi potrebbero essere portati; si potrebbero individuare i posti dove si fanno delle esperienze di un certo tipo e poi dare la possibilità ai ragazzi di andare a visitarli, per vedere, vivere, quello che fanno. Certo, bisogna anche cominciare a guardare fuori dall’Italia, dove si stanno facendo tante cose alternative, dal liceo autogestito di Parigi, alle centinaia di freie schulen, di scuole libere, autogestite, in Germania, nei paesi scandinavi, ma anche più lontano, in Israele, negli Stati Uniti. Non è che le devi andare a vedere tutte, però immagina che un ragazzo possa andare a visitarne alcune, stando lì una settimana, gli cambia un po’ il mondo. Ti assicuro che vedere quelle situazioni fa cambiare prospettiva perché è tutto capovolto. Bambini dai tre ai diciott’anni che stanno tutti insieme, che sono appassionati della scuola, che la sentono loro. È un altro mondo. Infatti uno si chiede: ma com’è possibile? Io penso che aprirsi, far vedere queste cose, farle conoscere, sia un dovere nostro, di noi vecchi. Sennò chi lo fa?
Sei impegnato anche in un sito web.
Con il sito “www.educareallaliberta.org” cerchiamo di fare rete e di mettere assieme materiali, da quelli storici, alle esperienze che si stanno facendo. Quindi, nei miei grandi limiti, cerco di andare un po’ in giro e di documentare quello che si fa. Anche con i video, che è la modalità più diretta. Sarebbe bello poter far conoscere e condividere le varie esperienze. Ci sono attività diversissime tra loro, c’è chi lavora nel quartiere, chi con gli stranieri, chi nella scuola, chi fa auto-educazione, chi fa proprio homeschooling, cioè cerca di mettere insieme famiglie e fare una cosa per conto proprio. Non si tratta di stabilire qual è la strada migliore; i percorsi possono essere tanti. Sarebbe invece importante che queste esperienze fossero più visibili, riconoscibili, tante luci che non più isolate, delineassero un profilo. Perché una linea comune c’è. Il sito vorrebbe dare un contributo a questo, però non basta dire la notizia spot della singola iniziativa, dovrebbe essere una cosa un po’ più pensata, e questo è difficile.
Purtroppo, in questo paese siamo imprigionati in questo dibattito micidiale e assurdo su scuola pubblica e scuola privata, che è fuorviante, non arriva al centro del problema, e soprattutto non parla mai di cos’è la scuola. Parla solo di chi la deve gestire. Preferiamo il ministero della pubblica istruzione o la santa sede? Che razza di alternativa è? Il problema è la terza via, ma quando si parla di queste cose, in Italia ci si trova sempre di fronte a un muro: “Ma tu da che parte stai?”. Se solo provi a criticare la scuola pubblica, sei automaticamente arruolato tra quelli che sostengono la scuola privata. Bisognerebbe dare voce e credibilità a questa terza via, avere persone che la sostengono, un movimento di opinione identificabile.
Noi i bambini ce li conquistiamo sul campo. Al nostro “dopo-non-scuola” vengono per caso, dopodiché sono loro che decidono se vogliono tornare. È difficilissimo far capire queste cose. Se invece ci fosse un contorno culturale che le valorizza, che gli dà importanza, allora la cosa sarebbe diversa. Insomma, da fare ce ne sarebbe molto… Però bisogna partire alla lontana. E dire intanto che qui uno dei problemi più gravi è che non ci sono spazi dedicati agli adolescenti. Stanno tanto in chat anche perché non sanno dove altro andare. Le scuole a una certa ora chiudono, non sono spazi utilizzabili, i quartieri sappiamo bene che fine hanno fatto… cosa resta? La pizzeria o la discoteca. Creare per gli adolescenti degli spazi che sentano propri sarebbe una cosa fondamentale.
Cos’è il “dopo-non-scuola”?
È una cosa impostata in maniera libera, senza imposizioni; non sono corsi, è proprio uno spazio a disposizione dei bambini, dove io chiedo che l’adulto sia lì per loro. Nessuno di noi viene qua per insegnare qualche cosa. Ognuno sa delle cose, anche un ragazzo di diciott’anni sa tantissime cose che può trasmettere a un bambino, però ognuno lo fa nel modo che sa, secondo le sue predisposizioni e soprattutto aspettando la richiesta del bambino, cioè è il bambino che deve dire: “Mi interessa fare questo”. Questo è l’atteggiamento che io chiamo dialogico. Ed è quello che, nella scuola, non passa, perché c’è l’imposizione dell’attività direttiva, precostituita e non c’è neanche fuori dalla scuola, con le attività dei bambini tutte impostate sull’apprendimento: il corso di, lo sport. I ragazzi che vengono qui da me a collaborare al “dopo-non-scuola” la capiscono questa cosa, non fanno fatica a rapportarsi ai bambini. Non è come aver a che fare con uno che ha insegnato vent’anni o a un genitore e dirgli: “Guarda che tu adesso non devi insegnare nulla al bambino”. Quello va in crisi. Non è proprio capace di mettersi psicologicamente in quell’atteggiamento, magari lo accetta mentalmente, ma dopo cinque minuti: “No, non fare quello, si fa così…”. È più forte di loro.
È la questione della differenza tra invito e persuasione, che è la versione moderna dell’imposizione. Se ti invito a fare una cosa, ti do la possibilità di accettare o meno. Se tu aderisci al mio invito, sarai tu che chiedi a me come si fa quella cosa. Se non aderisci, io ho esaurito il mio compito in quel momento. È la differenza tra l’atteggiamento libertario e quello non libertario, tra un rapporto di dialogo e un rapporto di potere. Qui, per esempio, è raro che utilizziamo il voi. Usiamo il tu. Perché il tu vuol dire che io dico una cosa proprio a te, mi interessa qualcosa che stai facendo tu, voglio interagire proprio con te. Posso decidere di esercitare il potere trasmettendo il mio sapere, oppure decidere che non lo voglio esercitare e offrirti il mio sapere. Il bambino ha un estremo bisogno di me, come adulto. Ha una sua dignità, ma non può essere autosufficiente. È un travisamento, quello. Nessuno dei grandi educatori l’ha mai pensato. Allora, lo stimolo è anche forzato, perché il bambino, a volte, ha bisogno, da te, di essere accompagnato verso qualche cosa. E allora tu puoi proporre delle cose, nel senso che non devi solo essere lì, fermo e passivo.
Qui facciamo questo, suggeriamo delle cose, ma soprattutto le mettiamo lì. Non abbiamo bisogno di inventarci nulla di speciale, basta che gli diamo gli strumenti e loro si divertono con le cose più semplici. E si divertono davvero. I bambini in fondo sono sempre gli stessi e il gioco, come il disegno o la creazione con gli objet trouvé, è una componente fondamentale del loro modo di assimilare la realtà esterna. Non so, quella vela di barca attaccata fuori, non devi dire niente, il bambino la vede e si mette a giocare da sé. Il windsurf per terra, lo capisce da solo, saltano e fanno un gioco. O il volante di un’automobile appoggiato da qualche parte, oppure la macchina da cucire a manovella, la macchina da scrivere, i colori, la stoffa; ecco: “Ti sporchi tutto. Senti, ma ti piacerebbe farti un grembiule?”, e se risponde sì, allora lo aiuti a farsi il grembiule. Non dici: “Non ti sporcare”, non dici: “Oggi facciamo il grembiule!”, è tutta lì la differenza.
(a cura di Giovanni Pasini)

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