la storia di un rapporto profondo tra una maestra ed una allieva: Maria e Dinushi, di Lea Melandri

Quanto contano i legami di sangue, e quanto gli incontri che si fanno nella vita? Un genitore biologico, che non si è fatto in tempo a conoscere, può restare nell’immaginario, nei pensieri segreti di un bambino, maschio o femmina che sia, ma a segnare in modo duraturo la sua individualità nel momento della maggiore dipendenza è inevitabile che siano le persone che se ne prendono cura, occupandosi materialmente e intellettualmente della sua crescita e della sua educazione.

 

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(rappresentazione plastica del rapporto speciale di un bambino con la sua maestra; Mantova, 2005)

La storia di Dinushi, la prima bambina di pelle scura nella scuola di Maria

A volte capita che storie di questo genere vengano raccontate da chi le ha vissute, attraverso lettere, diari, o scritture pubbliche. In questo caso, la parola più efficace è senza dubbio la loro. Mi riferisco a una maestra «speciale», autrice di saggi storici, femminista impegnata, e a una bambina di «pelle scura» altrettanto sorprendente, ma soprattutto alla loro felice relazione, nata sui banchi della scuola e continuata fino all’età adulta.

Maria Bacchi è stata fino a pochi anni fa insegnante di scuola elementare, e oggi ricercatrice attenta al rapporto tra storia, memoria e costruzione dell’identità. Il suo merito – e l’originalità della sua didattica – è stato quello di interrogarsi su come affrontare con i suoi alunni, preadolescenti, temi essenziali come l’immaginario della nascita, il razzismo, la persecuzione degli ebrei, la differenziazione precoce tra i sessi.

In uno dei suoi libri più interessanti, «Cercando Luisa: Storie di bambini in guerra. 1938-1945» (Sansoni 2000), Maria sceglie l’infanzia come via d’accesso per l’interpretazione della guerra, delle leggi razziali e delle deportazioni. Al centro di una ricerca che procede attraverso materiali eterogenei –scritti inediti, memoria dei testimoni sopravvissuti ai campi di concentramento-, la figura di Luisa Levi, la più giovane dei deportati ebrei che il 4 aprile del 1944 partirono per Auschwitz.

Non è un caso che sia una delle sue allieve ad aver visto con particolare sensibilità e acutezza quanto sia importante per una bambina e poi giovane donna, che diverrà a sua volta madre e maestra, incontrare una figura femminile «autentica», capace di essere prima di tutto una «Maestra di vita», un «modello di donna da seguire», forte delle sue passioni e insieme attenta alla storia di chi le sta davanti.

Dinushi Losi, nata nel 1986 in Sri Lanka, e adottata a pochi mesi da una coppia mantovana, è stata la prima bambina di pelle scura a entrare nella scuola elementare dell’Alto Mantovano, dove insegnava Maria Bacchi. È amore a prima vista.

«Tutto nella pratica didattica mia e di Elida, la mia collega di Tempo Pieno – scrive Maria – era centrato sulla soggettività dei singoli bambini: le loro conoscenze spontanee, il loro immaginario linguistico, storico, spaziale; la loro percezione e la loro conoscenza soggettiva dei fenomeni sociali, del corpo, della nascita, dei generi così come le loro pratiche spontanee di scrittura, di poesia, di musica e d’arte: lì si sarebbe incardinata successivamente la conquista e, se mai, la destrutturazione delle discipline. La scuola era casa e laboratorio, e tutto poteva fluire e diventare materia di discussioni, spesso interminabili, quasi sempre accuratamente trascritte dalle maestre per poter restituire ai bambini le loro stesse parole. Dinushi ascoltava molto e molto taceva. La diversità della sua pelle e della sua storia doveva fare i conti con la storia di ognuno dei suoi compagni e delle sue compagne (…) Lei si proteggeva col silenzio (…) Teneva nel tempo libero una sorta di registro segreto sul quale annotava tutto quanto accadeva a scuola e lo riconvertiva in un suo personale itinerario di ricerca e osservazione su se stessa e sul mondo, con tanto di valutazioni su maestre, genitori e compagni. Passava anche molte ricreazioni a esplorare la mia borsetta in cerca di tracce di quella vita femminile adulta che andava sempre più intrecciandosi con la sua. La guardavo divertita: rispettavo il diritto inviolabile alla reciproca curiosità. Quando, alla fine della terza elementare, mi ha regalato il suo registro segreto, mi è parso che il suo magnifico dono mi risarcisse delle mille perquisizioni alle quali mi aveva sottoposto».

Lavorare sull’immaginario della nascita, sul luogo d’origine visto come «linea d’ombra tra perdita e inizio», esilio e conquista, non poteva non avere presa su chi, come Dinushi, aveva conosciuto «un doppio esilio e una doppia conquista». Nel momento di diventare a sua volta madre e insegnante, sarà la relazione che l’ha in qualche modo rimessa al mondo, come «figlia simbolica di una madre femminista», a farle da filo di Arianna per riattraversare il deserto delle sue radici, il tema dell’eredità di sangue, a far nascere in lei la voglia di scrivere la sua storia, dedicata, non a caso, al figlio quando stava per nascere. «Caro Leonardo» è il titolo di una sorta di saggio autobiografico, dove Dinushi, partendo da se stessa, affronta con levità e ironia, oltre alla sua storia personale di adozione, colore della pelle diverso dagli altri, anche un nodo cruciale nelle politiche identitarie del Novecento.

«Come mi ha scritto la mia amica Maria in una delle sue lettere, sento anch’io di avere una mente libera e anticonformista, sarà per questo motivo che io non concepisco tutta questa storia del sangue e delle radici comuni. Sono elementi che ritengo siano stati esasperati nel corso della storia, tanto da diventare cause di guerra e morti atroci. Ne voglio provare a dare un’interpretazione personale.

Innanzi tutto vedo sangue e radici come un’«imposizione», alla fine noi non possiamo scegliere se essere figli di una persona piuttosto che di un’altra (…) Io mi sento in tutto e per tutto cittadina del mondo, sulla carta di identità sono stata categorizzata come nata in Sri Lanka con cittadinanza italiana (…)

Caro Leonardo, volevo dirti che non importa che tu abbia parte dei miei geni, che mi somigli fisicamente o che nelle tue vene scorra il mio sangue, perché tu sei semplicemente tu. Quando nascerai io e tuo padre ci prenderemo cura di te, ma ti auguro di trovare nella vita tanti genitori simbolici che possano arricchirti delle loro esperienze, delle loro opinioni e di loro punti di vista, di modo che tu possa avere tante risorse dalle quali attingere (…) Spero che tu comprenda che una casa non è solamente un edificio, bensì le persone con le quali deciderai di convivere la tua vita, che potrai crearti tutte le famiglie che vorrai, imparerai che le radici sono elementi fittizi, l’amore scaturisce dalla stima, dalla fiducia, dalla comprensione, da chi ci sostiene passo dopo passo. Il sangue non per forza è amore».

In un momento in cui si discute molto dei cambiamenti profondi che più o meno vistosamente o sotterraneamente stanno attraversando la famiglia, per quello che è stata tradizionalmente, la testimonianza di chi ha trovato nello «sradicamento» – dal corpo e dai luoghi della sua origine, ma anche dalla pelle dei suoi compagni di scuola e dei suoi genitori adottivi – la possibilità di riconoscimenti, affetti, amicizie impreviste, torna a far sperare che il sogno di un «altro mondo possibile» non resti tale.

Maria Bacchi, Dinushi Losi e Emma Baeri – storica, ex-docente dell’Università di Catania, autrice del libro «Dividua.Femminismo e cittadinanza» (Il Poligrafo, Padova 2013), che ha intrattenuto con loro una sorta di «triangolazione dialogica»-, parteciperanno sabato 11 ottobre al seminario che si terrà alla Libera Università delle donne di Milano con un titolo ispirato dalla loro singolare esperienza: «Partire da sé: la storica, la maestra, la bambina. Come il femminismo ha insegnato le vite e disordinato le discipline».