FAHRENHEIT del 20/10/2014 – Conversazione con Franco Lorenzoni in occasione dell’uscita del libro “I bambini pensano grande”. Con una presentazione di G. Fofi

 

In quarta col maestro Franco

di Goffredo Fofi dal n.22 de “Gli Asini”

A pagina 225 della sua “cronaca di un’avventura pedagogica”
(I bambini pensano grande, Sellerio 2014) Franco Lorenzoni, il maestro elementare
di Giove (Terni) che ha ideato molti anni fa e continua a gestire insieme a Ro-
berta Passoni, maestra elementare anche lei, la Casa Laboratorio di Cenci luo-
go di resistenza e di incontro per chi sogna ancora una pedagogia all’altezza
dei suoi fini e delle sue esperienze di libertà, troviamo una citazione da
Corpo celeste
di Anna Maria Ortese che mi pare esprima il senso e la necessità di que-
sto libro: “Il ragazzo è solo. (…) Nella sua educazione, o nascita al mondo, è
mancato l’apporto della sua propria creatività. Egli ha trovato tutto già fatto.

E il tutto fatto da altri lo distruggerà. (…) Quando si accorgerà della sua
amputazione fantastica, o creativa, vorrà distruggere. Così ho sempre pensato
che il problema massimo del mondo e della sua pace, anche se relativa sia
avere dei bambini in grado di entrare nel mondo cosiddetto adulto creando,
essi stessi, e non, invece, appropriandosi e distruggendo”.
È certamente questo il punto di partenza di questa “avventura”, la sua ne-
cessità: un modo fondamentale di reagire alla condizione in cui bambini e gio-
vani sono costretti, entrando in questo nostro mondo e cercando di trovarvi
un proprio spazio non alienato e soffocante. Si dovrebbe trattare, al contrario,
di offrire loro la possibilità di esprimersi e cercare, come individui e come mem-
bri di una comunità e di una storia dentro un contesto che è quello ovvio del
presente ma anche quello meno ovvio
e oggi avvilito o, a ben vedere, sop-
presso
del
sempre
, della condizione umana e dei suoi limiti e potenzialità.
In questo saggio o cronaca sembrano infine superate le tentazioni quasi to-
talizzanti che ebbero corso tra gli insegnanti negli “anni del riflusso” (della scon-
fitta dei movimenti compreso quello pedagogico) che mi pare siano stati
essenzialmente due, quelle del burocratismo rivendicativo (con al centro lo sta-
tus economico più che la funzione sociale degli educatori lasciando in secon-
do, terzo, ultimo piano quelli degli educandi) e, più subdola, sul piano culturale,
quella dell’illusione di una raggiunta “fine della storia” che stimolò i più blan-
di e consolatori degli spiritualismi. Si torna a vedere la verità dei tempi e, con
la crisi, la loro durezza forse irrimediabile, e non si riescono a intravedere né
immaginare dei tempi futuri migliori di questo, con la paura di doverne af-
frontare di peggiori.
Nel contempo, ci si è resi meglio conto della grande povertà del pensiero
pedagogico attuale, cresciuto su se stesso con scarso interesse per i bisogni del-
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l’epoca esclusi quelli imposti dall’economia dominante, con scarso interesse
per la condizione dell’infanzia della pubertà della gioventù in un mondo in
radicale mutazione. Si è inoltre constatata la veloce e complice recuperabili-
tà alle logiche istituzionali – dimostratesi incapaci di ridefinirsi in modi di-
versi da quelli dell’imperante neoliberismo e della sua visione dei rapporti
sociali
delle poche iniziative sulle quali si era in parte creduto (dai “maestri
di strada” in avanti), iniziative ai margini dell’impresa statale, espressione di
un “privato” sostitutivo, poco inventivo. Nel contempo, si è affievolita e im-
poverita
per non aver ragionato sui compiti nuovi di un’epoca nuova
an-
che l’esperienza dei gruppi di insegnanti che in passato sono stati il sale vero
della nostra pedagogia (si vedano le belle pagine che Lorenzoni dedica alla sto-
ria del Mce e a quanto egli deve a quella organizzazione), esemplare storia di
ieri ma di debole sopravvivenza, per non volersi confrontare faccia a faccia con
un contesto così diverso da quello passato. Ma mentre qualcosa di nuovo si
muove e qualche riflessione motivata e salda c’è pur stata (ai margini della
scuola e non dal suo cuore, esemplari i due migliori resoconti di esperienze
pedagogiche recenti, di Carla Melazzini e di Silvia Dai Pra’), molto meno si-
gnificative sono state le riflessioni venute da dentro la scuola, difensive e re-
toriche, nonostante che dentro la scuola qualcosa abbia continuato a muoversi
a opera di educatori responsabili e intelligenti. E anche per questo si saluta
con entusiasmo, perché viene
da dentro la scuola
, questo libro di Lorenzoni,
un maestro elementare che non intende affatto rinunciare al suo quotidiano
“mestiere” e che cerca di farlo in adesione a principi di sempre e a doveri di
oggi.
La citazione della Ortese spiega assai bene il progetto di Lorenzoni, il suo
rispetto per i bambini –
punto di partenza dei massimi pedagogisti, ribadito da
un aureo saggio di Korczak ricordato da Lorenzoni
e la sua ambizione di ri-
cavare dal rapporto stabilito con loro
da quanto che c’è da impararne e non
solo da quel che si vuole trasmettere
le idee guida per un percorso di cono-
scenza e di crescita che è delle due parti, dei bambini come del maestro. Il li-
bro stupisce per la ricchezza delle suggestioni che vengono dai bambini e anche
perché spesso dice cose che dovrebbero essere ovvie, che dovrebbero far parte
della comune preparazione del maestro, di un comune modo di agire nella
scuola, e che invece non lo sono affatto. I bambini dell’anno scolastico di cui
si racconta (una quinta), in un piccolo paese della nostra vastissima provincia,
vedono e ascoltano, ragionano e immaginano a partire da un punto di parten-
za proposto dal maestro, l’esplorazione del mondo così com’era tra il 600 e il
200 prima della nostra era, nella Grecia mediterranea, nell’epoca da cui scien-
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za arte politica hanno posto le basi della cultura-conoscenza a venire e hanno
definito il loro campo, le loro finalità, i loro strumenti.
Lorenzoni riconosce i suoi debiti di riconoscenza nei confronti di due
grandi donne, Emma Castelnuovo, innovatrice della didattica della matema-
tica e Nora Giacobini, insegnante e fondatrice del Mce romano, ma a loro
vien fatto di aggiungere il nome di Lucio Lombardo Radice, matematico, che
Lorenzoni forse non ha fatto in tempo a conoscere ma che ha certamente let-
to. E tutto è ricondotto alla base, alla filosofia intesa con John Campbell co-
me un “pensare al rallentatore e vedere, come in una moviola, il sorgere e lo
scorrere dei pensieri, chiedendosene ragione”. Partendo dalla Grecia, ma, per
intendersi, quella di Simone Weil.
Su queste fondamenta, Lorenzoni costruisce il suo metodo, un confronto
continuo con gli allievi attuato attraverso tecniche pedagogiche precise, qua-
si sempre desunte dalla storia del Mce e del suo fondatore Freinet: la corri-
spondenza con altre classi e altri bambini ma anche con i grandi personaggi
della storia del periodo studiato, le idee dei filosofi individuati nel grande qua-
dro di Raffaello che arrivano “per posta” attraverso le citazioni e sintesi che
ne dà il maestro, la tipografia, il rapporto con la natura, il teatro non come
mera drammatizzazione ma come invenzione avventura scoperta, l’osserva-
zione di chi ti sta a fianco anche per scrutare all’interno di sé, di conoscere
per conoscersi…
Sul dialogo tra insegnante e allievo, Lorenzoni cita un altro insegnante, Gui-
do Armellini, secondo il quale “legittima è quella domanda di cui non si sa la
risposta. Illegittima la domanda che si formula solo per controllare se chi è in-
terrogato sa dire quello che sai già.” Lorenzoni aggiunge: “I bambini sono sen-
sibilissimi a questa differenza”. È inevitabile (per l’educatore è
doveroso
) che si
affrontino con i bambini i grandi temi della condizione umana e della vita
dell’uomo in società: i sentimenti, la vita e la morte, l’interrogazione sul do-
po; la società, il potere, il denaro (e potere e denaro sono senza dubbio i con-
cetti più mistificati dalla cultura dominante): gli adulti e l’ordine che si sono
dati o hanno accettato dagli adulti più potenti o più ricchi; l’idea stessa di ri-
voluzione nella scienza e nella società; l’arte
la pittura, la musica, il teatro,
tutte cose di cui si può e si deve fare esperienza diretta, con metodologie ade-
guate. “Cos’è la cultura, del resto, se non critica e capacità di discussione di ciò
che accade? Che cos’è l’arte, se non ribellione al proprio tempo e proposta di
altri sguardi sul mondo? Cos’è la scienza, se non il rimettere continuamente in
causa ciò che diamo per scontato e per vero? E la scuola non dovrebbe essere
il tempio di cultura, arte e scienza?” (p. 53).
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Forse le pagine più belle di questa “avventura” sono quelle sulle reazioni
dei bambini, del maestro e della comunità alla morte per disgrazia di un al-
lievo di un’altra classe della scuola, ed è qui, si direbbe, che il lavoro pedago-
gico diventa anche impresa filosofica che tenta di rispondere alle grandi
domande sulla condizione umana e la sua vulnerabilità, precarietà, ma al-
trettanto belle sono quelle che riguardano il modo in cui i bambini reagisco-
no ad altre tragedie distanti, le odissee dei bambini migranti, i conflitti che
investono il mondo che li attornia, oltre i confini di Giove e dell’Italia. Il
dialogo con i bambini, le domande che i bambini si pongono e quelle che
pone loro il maestro, le risposte che vengono cercate insieme, e più tra bam-
bini che con il maestro, la cui funzione primaria non è quella di dare delle
risposte a domande che non possono averne di certe e rassicuranti ma di fa-
vorire una comune riflessione e ricerca, rinviano infine a una constatazione
che dovrebbe sembrare ovvia e invece non lo è, in un mondo di risposte su-
perficiali come è generalmente il nostro. I bambini
vedono e ascoltano
,
ragio-
nano e immaginano
. Sono loro,
devono
essere loro i protagonisti delle nostre
preoccupazioni.
La pagina forse più provocatoria, perché più giusta, di questo racconto
(201-2) è quella in cui Lorenzoni afferma l’esistenza di una
cultura infanti-
le
, “una cultura per sua natura provvisoria, perché riguarda il nostro incon-
trare e pensare il mondo nei primi anni, ma che in qualche modo sopravvive
in parti profonde di noi tutta la vita. È una cultura preziosa, perché vicina
all’origine delle cose e capace di continuo stupore. I bambini scambiano il
dettaglio con il tutto, credono all’incredibile, non soggiacciono al principio
di non contraddizione e, soprattutto, si sentono
sconfinati
, con le emozioni
positive e negative che questo comporta. I confini tra mondo esterno e
mondo interno, tra ciò che è vivo e ciò che non è vivo, tra percepire e im-
maginare non conoscono frontiere armate e passaporti, come per noi adul-
ti. I bambini attraversano continuamente questi confini e mescolano mondi
diversi, perché si mettono continuamente in gioco e
credono
nei giochi che
fanno.” La pedagogia
sconfina
naturalmente nella filosofia (e nella “psicolo-
gia dell’età evolutiva”), come sembra ricordarci Lorenzoni. Che continua ben-
sì a credere nella pedagogia e nella scuola perché crede che dai bambini
dobbiamo avere nuovamente il coraggio di imparare, invece di ostinarci a
pretendere di avere chissà cosa da insegnare, a parte i nostri fallimenti uma-
ni e sociali.