Una scuola, una città, Marsilio – Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta

Raffaele Laporta […] Margherita, io ti ho incontrato qui a Rimini quando tu ci stavi già lavorando da diversi anni. Ho seguito il tuo lavoro e ho studiato la tua pedagogia e la tua didattica. Non mi sono mai preoccupato di sapere di dove l’avevi ricavata, quali erano le tue fonti, quali esperienze avevi fatto prima di giungere nell’Italia di una guerra appena finita. Tu venivi da un’attività svolta in Francia e in Spagna durante la guerra civile spagnola, venivi per conto di un’organizzazione che conosco come il Soccorso Operaio svizzero. Incominciamo da questa storia.

 Margherita Zoebeli Sono giunta a Rimini per la prima volta il 17 dicembre del 1945, lo ricordo bene perché mancavano pochi giorni a Natale…

Era stato un viaggio estenuante in quanto avevo impiegato più di due giorni per raggiungere Bologna, parte in treno, parte in pullman; qui dovevo incontrarmi con un dirigente delle cooperative emiliane, Venerine Grazia, il quale in effetti mi accompagnò di persona in automobile fino a Rimini. Attraversai la regione ancora visibilmente segnata dalla guerra appena conclusa; mi colpirono le distese di filo spinato che delimitavano i campi minati e che rendevano estremamente pericoloso il movimento da qualunque parte io guardassi. Nonostante tutto, la giornata era splendida.

Io ero una delegata del Soccorso Operaio presso il Dono Svizzero, struttura federale di coordinamento di tutte le organizzazioni assistenziali e umanitarie presenti nella Confederazione. Il sistema funzionava in questo modo: le singole realtà, come la Croce Rossa, la Caritas, il Soccorso Operaio presentavano proposte o progetti che, se approvati, venivano finanziati parzialmente dal Dono Svizzero e, per la parte restante, dall’ente promotore.

Il Soccorso Operaio, cui io aderii nel 1934, era nato l’anno precedente con il compito di aiutare e proteggere ebrei tedeschi e austriaci perseguitati dai nazisti, nonché antifascisti italiani e oppositori al regime hitleriano; io stessa nel 1934 mi occupai di bambini austriaci, figli di antinazisti, che furono ospitati per diversi mesi nel mio paese.

Invece l’esperienza che feci nel 1936, durante la guerra di Spagna, era coordinata dall’Associazione delle donne socialiste ma riguardava anche in quel caso un gruppo di bambini che doveva essere posto in salvo oltre la frontiera; ricordo di essere scesa all’ultima stazione ferroviaria francese e di lì, attraverso un terreno notevolmente accidentato, aver proseguito da sola verso la Spagna: dovetti anche imparare ad attraversare un fiume senza ponti! Ma senza dubbio le difficoltà maggiori sarebbero sorte dopo, a Barcellona, dove fui costretta a trattenermi per diversi mesi… L’evacuazione di cento bambini che si trovavano in grave pericolo nel loro paese, richiese lunghe e complesse trattative con i ministeri spagnoli in un momento in cui la città era sottoposta a continui bombardamenti; altrettanto difficile fu reperire un mezzo di trasporto adeguato. Giunti finalmente a Sête, sulla costa mediterranea francese, mi occupai personalmente dell’organizzazione della casa-colonia in cui i bambini avrebbero vissuto; l’intera missione, che richiese poco meno di un anno, mi permise di vivere un’esperienza estremamente preziosa sul piano umano, organizzativo e socio-pedagogico. Questo ricco patrimonio si sarebbe rivelato utile in seguito per il lavoro che mi aspettava a Rimini.

Laporta Ma perché proprio Rimini?[…]

Zoebeli Rimini, dilaniata dalla più tremenda delle guerre, era un cumulo di macerie: appena riconoscibili le arterie principali, le piazze, i borghi, sventrato il Tempio malatestiano, fortemente danneggiato l’Arco di Augusto. Ricordo che il Corso, quando vi giunsi, era stato sgomberato dalle macerie affinché ci si potesse transitare, ma la desolazione era estrema. Seppi che i palazzi del centro storico erano stati deliberatamente distrutti dall’esercito tedesco nel corso della ritirata.

Non dimenticherò mai il primo pranzo nella trattoria che ancor oggi è chiamata «da Bruno»; davanti al locale si stendeva un grande spazio vuoto in cui la gente rovistava a mani nude: così, con le mani, come formiche laboriose, i superstiti raccoglievano le macerie caricandole su carretti trainati dagli asini. Io portavo con me dalla Svizzera una preziosa cartella con il progetto che avevo messo a punto a Zurigo; prima di partire, infatti, avevo lavorato per un mese con il Dono Svizzero per definire concretamente tutte le necessità legate al futuro Centro sociale: bisognava pensare agli attrezzi da lavoro per l’idraulico, l’elettricista, il falegname, poi alle abitazioni, alle suppellettili, ai viveri. In quel mese furono stilate tutte le delibere con le quali l’associazione predisponeva l’acquisto dell’occorrente. […]

Laporta Quali erano le condizioni della città, qual era lo spirito della gente?

Zoebeli Ebbi l’impressione che tutti i cittadini fossero animati dall’ansia febbrile della ricostruzione; c’erano fermento, iniziativa, i materiali ammassati nelle strade erano selezionati e riutilizzati, spesso venivano persino rubati! Un clima simile, anche se non identico, avevo sperimentato in Francia a Saint-Etienne nel 1945; là l’entità delle distruzioni era stata molto inferiore ma la miseria era forse maggiore che a Rimini anche perché a città, abitata da famiglie di minatori presso i quali io aro andata a prestare la mia opera sociale, era stata depredata di tutto dall’esercito tedesco… ricordo che si preparavano anche fascine di legna da portare ai vecchi e ai malati e che molti francesi del posto si erano resi disponibili in quest’opera di solidarietà. A Rimini le cose erano meno drammatiche perché la campagna, relativamente accessibile, era in grado di garantire i rifornimenti.

Laporta In che modo il progetto già delineato trovò la sua prima applicazione?

Zoebeli Feci tesoro dell’esperienza vissuta a Saint-Etienne con la popolazione e con gli assistiti; là avevo compreso e sperimentato personalmente il valore del fare insieme, del coinvolgere le persone bisognose per ( non far loro subire la triste esperienza della carità… la via più giusta era quella della partecipazione di tutti interessati e volontari, all’opera di assistenza, ricerca e distribuzione del necessario, alla costruzione degli utensili, al lavoro.

A Rimini, come dicevo, il principale strumento di collegamento con la Svizzera era la ferrovia e per questa via dovevano arrivare gli elementi di legno dei tredici padiglioni che avrebbero dato vita al Centro, oltre a tutte le attrezzature. Era stato un amico viennese, ebreo e profugo a Zurigo, a studiare un sistema razionale per la spedizione del materiale di soccorso: lo chiamavamo «pacco di mobili», e consisteva in un contenitore unico comprendente due letti, un armadio smontato, quattro sedie, un tavolo, due pentole, quattro piatti, qualche posata. Ne arrivarono tanti e furono assegnati a famiglie o persone che avevano perso tutto! C’è chi ricorda ancora, a distanza di quarantacinque anni, il giorno dell’arrivo di questi semplici oggetti in legno e in alluminio.[…]

In Italia, nell’immediato dopoguerra, esistevano rari «asili» infantili e quasi tutti a carattere confessionale; fu molto più tardi che i Comuni più attenti alle problematiche educative e sociali avviarono la costruzione di scuole materne comunali le quali a loro volta funsero da modello per quelle statali, istituite nel 1968. Mi sono chiesta spesso fino a che punto gli amministratori e i politici di allora riuscissero ad apprezzare la valenza, profondamente innovativa sul piano educativo e culturale, di una scuola per i bambini dai tre ai sei anni e non fossero invece mossi prevalentemente da una logica di tipo assistenziale verso la famiglia… credo tuttavia che solo nel corso degli anni sia maturato tale apprezzamento.

Laporta Quali furono i primi rapporti instaurati con l’ambiente sociale e scolastico della città?

Zoebeli […] Con le scuole cittadine non ebbi inizialmente molti rapporti; del resto si sentiva molto la diffidenza di insegnanti e operatori scolastici nei nostri confronti ed io non mi sentivo in diritto, proprio in quanto straniera, di entrare in discussioni di carattere ideologico o culturale. Il primo direttore da cui il CEIS (Centro educativo italo-svizzero) dipese, il dr. Goffredo Franceschini, si dimostrò in realtà abbastanza interessato alla nostra esperienza pur senza condividere sempre le nostre scelte: quando demmo l’avvio nel ’47 alla scuola elementare, il problema maggiore fu costituito dall’adozione del metodo globale che egli non conosceva ma di cui diffidava!

Io pensavo che il bambino dovesse giungere prima alla lettura poi alla scrittura per la semplice ragione che non si può scrivere se non si sa leggere, tutt’al più si ricopia senza consapevolezza! La scrittura, insomma, è una produzione personale che ogni bambino deve affrontare quando ne ha gli strumentale possibilità e quando ne comprende il valore. Comunque, sia nell’uno che nell’altro caso, cioè per l’uno o l’altro apprendimento era indispensabile, a mio parere, una fase propedeutica che consentisse al bambino di maturare sia le capacità ritmico-motorie sia il senso dell’orientamento e della organizzazione spaziale, sia quello delle proporzioni e dei rapporti. […]

Laporta Da quel che dici, nel progetto iniziale la scuola materna era collocata in un intervento molto più ampio: quello del Centro sociale. Qual era la struttura e quale l’attività di questo Centro?

Zoebeli II Centro era costituito da una biblioteca e da una «sala per incontri» che vennero ben presto utilizzate anche per giornate di studio, corsi di perfezionamento professionale, dibattiti; inoltre avevamo appositi locali per i laboratori artigianali allestiti per gli adulti, come ho già detto. In seguito, con l’istituzione della scuola elementare, si dovette rinunciare ad essi e da quel momento ci si servì di ambienti polivalenti per le attività sociali.

In particolare erano le madri dei bambini di scuola materna che venivano regolarmente a cucire da noi realizzando con le nostre stoffe dei capi di vestiario per i loro figli; lavorare insieme aiuta a stabilire rapporti di amicizia, crea occasioni di discussione, di conoscenza, aiuta a concepire nuovi tipi di rapporti interpersonali. L’insieme di questa attività portò il CEIS a contatto con centinaia di persone singole o con famiglie che erano sollecitate e incoraggiate ad avvicinarsi a noi per il fatto che tutto era aperto e a disposizione di tutti: c’erano momenti in cui eravamo quasi presi d’assalto!

Laporta Credo che a questo punto sia necessaria un’immagine generale del Centro alle sue origini. Io l’ho visto la prima volta nel 1951, di notte e solo in parte. Ci incontrammo lì con Emesto Codignola, auspice l’amico Renato Coen, e fu in quella che ancor oggi è la sala da pranzo del personale, che io ti vidi la prima volta: di quel colloquio a diverse voci in cui io venivo a contatto con Codignola e con tè, non ricordo ne gli argomenti dei discorsi ne, se mai ce ne furono, le conclusioni.

Ricordo il clima, la .serenità delle voci e la profondità delle convinzioni che esprimevano.

II Centro, con la «casina», le baracche, gli alberi, l’anfiteatro, lo ebbi tutto intorno a me l’anno successivo quando esso ospitò il primo congresso del MCE (Movimento di cooperazione educativa) ma anche allora afferrai immediatamente le implicazioni organizzative e quel concetto dello spazio su cui vorrei portare anche ora e con tè il discorso.

Zoebeli Il l° maggio del 1946, quando si tenne l’inaugurazione, c’era già piena attività in tutti i settori, comprese le 4 sezioni di scuola materna. Le baracche di legno inviatedalla Svizzera, di cui undici nuove e due usate, erano state collocate secondo un progetto spaziale messo a punto da me e dall’architetto Felice Schwartz di Zurigo. Il progetto non fu condizionato negativamente dal fatto che esse fossero nate per uso militare, anzi, in un certo senso l’estrema semplicità e flessibilità delle strutture ci ha aiutati in un primo momento a dar vita a un vero villaggio articolato e ricco di ambienti, in seguito poi, ci ha permesso di modificare gli spazi con facilità a seconda delle esigenze didattiche e organizzative.

In sostanza, io credo che se in tutti questi anni abbiamo potuto attuare una continua sperimentazione, ciò è stato favorito dal fatto che la nostra scuola non è un blocco rigido e immodificabile ma un insieme di ambienti «plastici» e plasmabili secondo i nostri intenti.

Anche per quanto riguarda il mobilio mi ero preoccupata, nel mese che precedette la mia partenza da Zurigo, di scegliere e far preparare quanto poteva servire per le diverse attività educative: così anche l’arredo e le attrezzature didattiche cominciarono ben presto a giungere dalla Svizzera. Il materiale preferito era il legno che, come si può vedere ancor oggi, ha dato buona prova; le baracche erano costituite da elementi componibili, come pure le parti interne che in taluni casi dotavano il padiglione: ricordo che, grazie alle possibilità della nostra falegnameria fornita di un’attrezzatura da lavoro completa, riuscimmo a utilizzare i letti a castello di una baracca per costruire tutti i tavoli e le sedie per il refettorio oltre a diverse scaffalature. Non avevo previsto la necessità di un refettorio perché nel mio paese, essendoci scuole di quartiere, non occorrevano mense scolastiche.[…]

Le mie preoccupazioni non erano rivolte però solo agli ambienti interni, anzi, conoscendo bene i tempi lunghi della natura, avevo fretta di piantare gli alberi, tanti alberi, per far nascere da quel terreno spoglio un giardino e un bosco; l’architetto mi frenava, voleva aspettare, ma non riuscì a impedirmi di ricevere ben presto la prima fornitura dal Comune: pioppi, aceri, platani, qualche tiglio, questi i tipi di piante, purtroppo non molto varie e ancora piccolissime, che mi furono consegnate; devo dire che hanno trovato una sistemazione ottimale a giudicare dalla crescita che la maggior parte di esse ostenta. Nel corso degli anni ne ottenni altre varietà dalla Svizzera, fra cui le betulle, che hanno dato il nome all’attuale «casa dei ragazzi» (progettata dall’architetto Giancarlo De Carlo: io sostenevo, contro il parere di tutti i miei collaboratori, che potevano vivere e crescere bene anche a livello del mare e le betulle mi hanno dato ragione. Certo, se avessi avuto a disposizione un’area più grande, avrei creato un vero orto botanico…)

Laporta E siamo quindi all’organizzazione dello spazio educativo; parlami un po’ di questo.

Zoebeli Prima di tutto ci si deve chiedere come nasca un progetto spaziale. Ebbene, si deve partire dagli elementi a disposizione, nel nostro caso un’area di novemila metri quadrati, tredici padiglioni di legno, un piano di Centro sociale comprendente una scuola materna.

Ma cos’è una scuola materna? E qualcosa di vivo che tiene insieme bambini e adulti – genitori, educatori, operatori – perciò l’ambito che li unisce, lo spazio, dev’essere comunitario per facilitare la vita collettiva. Diversi sono gli elementi connessi a un’esigenza di questo tipo: prima di tutto per il bambino la comunità stessa valorizzazione della sua individualità, è il gruppo-ambiente in cui egli può crescere, svilupparsi, costruire la sua personalità attraverso la partecipazione. Comunità non è certo sinonimo di gregge indistinto e improvvisato! Al contrario, io credo che lo spazio debba essere pensato e costruito in tutte le sue articolazioni in modo da poter consentire sia una fruizione individuale che una collettiva, condizionando positivamente le persone che vi abitano, verso l’iniziativa e la partecipazione; ma, accanto a questa ragione di fondo, ne esisteva un’altra più circoscritta e datata che consigliava di potenziare la vita comunitaria: si usciva da una guerra feroce per cui bisognava educare prima di tutto alla pace e alla tolleranza.

Questo poteva essere fatto attraverso il vivere insieme che responsabilizza gli individui portandoli ad accettare gli altri anche se molto «diversi»; perciò la nostra scuola si è aperta fin dai primi anni a bambini con handicap oppure irregolari nel comportamento o «stranieri» nella lingua. Tentare di realizzare un simile progetto in un paese come l’Italia che usciva da un ottuso e soffocante autoritarismo, era una prova tanto impegnativa da richiedere tutte le mie risorse ed energie fino al termine della mia vita.

Molto semplicemente si potrebbe dire che, come nell’insieme del villaggio doveva essere presente uno spazio collettivo accanto a spazi specifici destinati ai vari gruppi, allo stesso modo gli ambienti interni, in particolare le aule, dovevano presentare uno spazio per tutti ed altri ambiti più ristretti per i piccoli gruppi di studio o di attività formati di volta in volta. Così, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’area, i padiglioni sono stati collocati sul terreno a mo’ di villaggio con la piazzetta comune e una distribuzione non certo geometrica che fa ben distinguere e caratterizza ogni baracca rispetto alle altre; fra loro sono collegate da vialetti non asfaltati.

È mia convinzione che ogni individuo, ed anche il bambino, sente la necessità di appartarsi di tanto in tanto nel corso della giornata, perciò ho pensato che si dovessero offrire, sia all’interno che all’esterno, anche degli elementi di protezione che favoriscono e consentono attività individuali o di piccolissimo gruppo: all’esterno alberi, siepi o strutture di gioco, all’interno l’angolo della bambola o della fiaba.

Non posso dire di aver appreso teoricamente una vera e propria pedagogia dello spazio; forse il fatto di essere nata e cresciuta in Svizzera, la consuetudine di vita con i boschi, le montagne, hanno contribuito a far nascere in me quel profondo attaccamento alla natura e quell’ammirazione per l’armonia del creato che non mi hanno più abbandonata.

Presto è maturata in me la convinzione che lo ‘spazio dev’essere stimolante per il bambino, deve portarlo nel regno della fantasia, permettergli di fare molteplici esperienze: motorie, affettive, estetiche, sociali. Il nostro giardino ha la caratteristica di presentare scorci visuali completamente diversi a seconda del punto di osservazione; sono certa che per quanto lo si attraversi in lungo e in largo non si troveranno due situazioni identiche circa la disposizione degli alberi, la presenza di fiori, arbusti, attrezzature per il gioco all’aperto, sedili, edifici, sentieri; così, per quanto l’area sia relativamente piccola, gli stimoli, le impressioni, le possibilità di fruizione che il bambino trova nell’ambiente, sono molteplici e variegate e nutrono la sua fantasia. Una ricchezza che affiora prima di tutto nel gioco.

Ogni volta che un nuovo bambino entra nel villaggio, non finisce di sorprendermi la facilità e l’immediatezza con cui si appropria dell’ambiente nelle sue pieghe e articolazioni; anche se molto piccoli, i bambini si sentono immediatamente padroni del territorio. Credo che tutto questo debba essere analizzato profondamente per la grande rilevanza educativa: è ben noto infatti che la sicurezza personale nel movimento, la capacità di orientarsi, la possibilità di gestire direttamente il rapporto con lo spazio senza la sorveglianza continua degli adulti o la loro mediazione, sono una risorsa fondamentale per la crescita del bambino.

Laporta Hai parlato della scuola materna e hai accennato alla scuola elementare: l’una e l’altra nell’ambito del centro sociale. Ma il villaggio del Centro quando io l’ho conosciuto comprendeva anche la «casina», e casina significa nel villaggio qualcosa di diverso da una scuola pura e semplice: raccoglieva ragazzi a cui, oltre che la scuola, mancava la famiglia. Quando nacque la «casina», e com’è oggi?

Zoebeli Vuoi sapere come nacque l’idea della «casa»? Fu durante la costruzione del villaggio che il vice sindaco Gomberto Bordoni mi chiese di integrare il progetto già elaborato dal Comune con un orfanotrofio, cosa che avrebbe permesso di agire in direzione dell’infanzia in modo veramente completo; pensammo di allestire subito un padiglione, anche a causa della grande urgenza del problema e in pochi mesi fummo in grado di accogliere venti piccoli orfani. […]

Molte cose sono cambiate da allora ma credo che lo scopo fondamentale sia rimasto inalterato nel tempo consistendo nel fornire una «casa» a bambini che ne sono privi o che hanno una famiglia inidonea ad educarli per cui corrono gravi rischi per un corretto sviluppo psico-fisico, quando non presentano già disturbi di varia entità.

È necessaria comunque chiedersi quali siano i mutamenti più vistosi intervenuti nel corso degli anni in relazione ai nuovi fattori sociali. Cosa chiede oggi il bambino all’adulto? Come reagisce l’organizzazione? Una prima risposta, apparentemente paradossale, consiste nella constatazione che le problematiche infantili, man mano che ci si è allontanati dalla guerra, sono diventate più complesse e di più ardua soluzione; ad esempio, le educatrici nei primi anni vivevano con i bambini giorno e notte, comprese le domeniche, i mesi estivi e le giornate festive, dovendo sostituire la famiglia in tutto e per tutto.

Oggi nessun educatore sarebbe disponibile a sostenere un ritmo di lavoro così intenso, anche per ragioni sindacali, pertanto è necessario dar vita a frequenti turnazioni del personale con la conseguenza di creare continue interruzioni nel rapporto e nei ritmi della vita quotidiana.

Il bambino deve riuscire a realizzare sempre nuovi adattamenti quando già il suo equilibrio psichico è instabile o in pericolo; l’educatore, d’altra parte, deve qualificare maggiormente il proprio intervento educativo che si attua in un tempo più ridotto.

Un altro cambiamento rilevante consiste nel fatto che i bambini non vengono più coinvolti come in passato nella gestione della casa, cioè lo fanno in misura molto minore; credo però che ciò dipenda, più che da scelte interne, da ragioni di tipo culturale, le quali fanno sì che anche nella famiglia italiana di oggi i bambini non vengano chiamati a collaborare se non episodicamente. la società del consumo che rende tutti noi meno attaccati alle cose e ai ritmi della vita quotidiana: il bambino viene sommerso da una quantità di giocattoli e di oggetti veramente eccessiva, come pure viene sottoposto a pesanti condizionamenti televisivi e pubblicitari. Ma gli educatori in genere non ritengono giusto negare ai «nostri» bambini ciò di cui gli altri, i compagni di scuoia, i coetanei dispongono e così, di fatto, la nostra casa cammina secondo i ritmi della società! Nonostante ciò, mi pare che i principi di fondo non siano cambiati: noi abbiamo sempre pensato a una vera casa per i bambini, a un rapporto educativo stretto, continuo, per favorire l’acquisizione di una sicurezza affettiva di tipo familiare; niente che assomigli al «collegio», niente di impersonale, di autoritario, niente che ricordi l’assistenzialismo indifferente alla personalità di chi «riceve»!

Certamente non ci siamo mai nascosti le difficoltà che tale intendimento comporta in quanto è noto che il modello familiare può essere ripetibile solo parzialmente in una comunità educativa: come far nascere il senso di appartenenza alla casa quando essa non vive sullo stipendio o sul salario dei genitori, quando non c’è un bilancio autogestito, quando non si conosce la fatica spesa per comperare il cibo, il vestiario? Stessa cosa sul versante dell’educatore il quale all’interno della casa è più consumatore che produttore. E ancora, come regolare gli interventi educativi, i rimproveri ad esempio, senza quella base di fiducia e pieno abbandono che si costruisce giorno per giorno nel rapporto tra genitori e figli?

Laporta Quando parlavo della casina e dei suoi abitanti di allora ne La comunità scolastica, avevo l’immagine di una vigilia di Natale, un albero, un cerchio di ragazzi, e ancora una volta un tuo discorso con loro di cui non ricordo affatto i contenuti ma di cui ricordo lo spirito, la serenità, l’intimità con quelle che allora potevano essere le speranze di ragazzi abbandonati, fuori di quella casa.

E d’altra parte in altre occasioni ho visto dei giovani già ospiti della casa tornare a parlare con tè, con la cuoca, con il giardiniere. Credo che il clima della casina, senza poter essere quello di una famiglia, fosse però quello di un ambiente capace di dar sicurezza, sostegno psicologico e morale per la presenza concorde e cooperante di persone unite da un’idea di solidarietà umana.

Forse la casina è un esempio di entità umana a metà fra famiglia e società; un’esperienza che, tentata più tardi in chiave più politica che educativa negli anni della contestazione, ha mostrato i suoi limiti. Credo però anche che i limiti fossero nelle persone più che nell’esperienza. Ritieni tu che i problemi della comunità infantile come li vivevi e li vivi nella casina possano avere oggi una soluzione valida nei confronti di tutti i ragazzi, per cui la «casa d’accoglienza» è ancora l’unica soluzione socialmente possibile?

Zoebeli Sento la parola contestazione e rammento un periodo molto duro e doloroso della mia vita nel CEIS, per fortuna un periodo di durata limitata, nei primi anni settanta, ma le cicatrici di quelle ferite sono ancora vive.

C’erano due gruppi di educatori, quello che accusava il CEIS di essere un’«isola felice» sì, però «isola» che non preparava alla vita reale; l’altro che difendeva l’impostazione pedagogica, il diritto del bambino alla protezione. Sono ancora del parere che il bambino per crescere con atteggiamenti aperti ed anche critici verso il mondo debba godere di un’infanzia serena; i bambini non possono vivere i propri impulsi, la propria aggressività indiscriminatamente ma il dialogo, la fiducia nell’educatore, un rapporto costruttivo con lui devono aiutarlo a vincere gli impulsi aggressivi. Per me, in quel periodo, la sofferenza non derivava tanto dalla contestazione in sé ma dalla rinuncia a quelle regole di convivenza e a quei principi d’ordine che comportano necessariamente degli obblighi nei confronti del gruppo e dal constatare gli effetti disorientanti che si manifestavano in bambini già colpiti dal disordine familiare. I comportamenti aggressivi degli ospiti della «Casa dei ragazzi» portarono a gravi danneggiamenti nell’edificio, nell’arredo, negli oggetti. Sono d’accordo con tè quando dici che spesso i limiti sono più nelle persone che nelle esperienze in sé, tanto è vero che la Casa è sempre stata ed è tuttora una struttura ricercata dai servizi sociali, e così posso tornare alla tua domanda se la soluzione della Casa di accoglienza è ancora l’unica socialmente possibile.

A una questione così complessa non si può rispondere univocamente; prima di tutto bisogna notare che ogni bambino ha la sua storia personale con una propria dotazione genetica, le prime esperienze relazionali, l’impatto con un ambiente specifico. Le ragioni per cui si chiede l’assistenza o l’aiuto sociale sono altrettanto diversificate, valgono caso per caso.

Ritengo che la simbiosi, lo stretto rapporto tra madre e neonato non possano essere sostituiti da un intervento estrinseco, seppur corretto professionalmente, per cui è difficilissimo, direi quasi impossibile, recuperare, anche in un ambiente ottimale quanto a sicurezza e protezione, i guasti che possono essersi prodotti a livello psicologico per la mancanza dell’affetto e delle cure materne. Più facile il recupero del danno organico rispetto a quello psicologico.

Dunque non credo che la soluzione più valida sia sempre la Casa d’accoglienza ma, quando l’adozione o l’affido familiare non sono possibili, allora un ambiente come la nostra «Casa dei ragazzi» può svolgere una funzione sostitutiva indispensabile per consentire al bambino di costruire dentro di sé un ordine che gli permetta di integrarsi positivamente nel gruppo con cui si relaziona. Difatti il compito essenziale dell’educatore consiste nella organizzazione di una vita comunitaria caratterizzata dalla comprensione per le difficoltà del singolo bambino e dalla ricerca di mezzi educativi appropriati; il punto di partenza è sempre l’accettazione che fa scaturire in lui un senso di fiducia nell’ambiente che lo accoglie. I ritmi regolari della casa, il calore umano, le amicizie che si instaurano tra i bambini e con gli adulti, diventano il tessuto di base della sicurezza e della fiducia in se stesso da parte del bambino.

Sono del parere dunque che la Casa riesca a fare un lavoro di strutturazione della personalità positivo ed efficace qualora il piccolo le sia affidato totalmente; nel caso in cui il bambino sia costretto a tornare a casa quotidianamente, ad esempio per la notte, si va incontro a gravi problemi perché se la causa dell’affidamento è proprio la situazione familiare precaria o fortemente conflittuale, allora egli è sottoposto a stimoli contrapposti e spesso inconciliabili per cui ogni giorno deve ricominciare la costruzione di punti di riferimento e di un sistema relazionale equilibrato.

In tali condizioni il lavoro di recupero e di formazione è estremamente disturbato. Questa purtroppo è la situazione di alcuni nostri semi-convittori in quanto il servizio sociale ha ritenuto di mantenere il rapporto quotidiano con la famiglia; io non mi trovo molto d’accordo con il concetto che il bambino appartiene a chi lo ha generato ne con l’altro, conseguente a questo e sommamente crudele, secondo cui egli deve comunque abituarsi alla famiglia che la sorte gli ha dato, ma con Mikail Bakunin vorrei ribadire che egli appartiene solo a se stesso, per cui lo sforzo della famiglia e della società dev’essere soltanto quello di aiutarlo a camminare nel mondo che cambia, sulla base di un’integrazione positiva e critica.

Quella che tu chiami «Casa d’accoglienza» e che evoca in me il senso di qualcosa di provvisorio, io preferisco chiamarla «Casa dei ragazzi» e pensarla con un’organizzazione stabile, per la permanenza continuativa e un’integrazione completa dei bambini all’interno.

Dunque, condizione indispensabile per un recupero rispetto alle difficoltà di ordine comportamentale o di apprendimento, è sempre la vita comunitaria; ciò vale per coloro che vivono in casina ma anche per quanti sono inseriti nella scuola elementare e nel «Centro di socializzazione» su cui devo ancora soffermarmi.

Laporta Nel progetto iniziale non era prevista la scuola elementare, come ricorderai; come mai questo ampliamento del Centro sociale?

Zoebeli Fin dal primo anno ci siamo resi conto che gli orfani e i traumatizzati della guerra, presentando forme di disadattamento e irregolarità comportamentali, non riuscivano a trovarsi bene nella scuola pubblicai Essi vivevano una situazione molto conflittuale perché, mentre in casina erano immersi in un clima di accettazione e comprensione, nella scuola cittadina venivano trattati con diffidenza e rimproverati continuamente per ogni piccola «deviazione» nel comportamento. Ogni fatto del genere suscitava espressioni di intolleranza verso i bambini, presto bollati come «quelli delle baracche svizzere» da cui non c’era da aspettarsi niente di buono! Così la scuola elementare, pensata proprio per loro, fu aperta a tutta la città; la convivenza tra i bambini esterni e gli interni era molto proficua e armoniosa malgrado questi ultimi presentassero disturbi

comportamentali notevoli […]

Oggi purtroppo, e qui riprendiamo l’affermazione precedente, le problematiche infantili si sono aggravate; in particolare per quei bambini che presentano caratteri e situazioni problematiche non è possibile, se non con grande fatica, inserirsi con soddisfazione nella società e talvolta neppure nella scuola dell’obbligo, mentre in passato la pressione e le aspettative sociali più deboli influivano in misura minore. Oggi, la fretta di produrre risultati strumentali accentua e finisce per far prevalere il cognitivismo sull’educazione affettiva e sulla socializzazione.

Tutto ciò mi preoccupa e mi dispiace profondamente perché non posso dimenticare che fu proprio per venire incontro a questi figli più sfortunati della società che decidemmo, nel ’47, di aprire anche la scuola elementare; mi preoccupa poi per un’altra ragione più legata al presente che al passato, voglio dire che proprio perché la società cambia secondo frenetici ritmi di sviluppo, si deve rispettare e salvaguardare la globalità dell’individuo curando la dimensione comportamentale, quella espressiva, quella affettiva, quella creativa, quella sociale.

Ora, se è vero che il nostro Centro fa molto meglio e molto di più in tal senso rispetto ad altre realtà, non credo tuttavia che sia esente dal rischio di sopravvalutare i risultati a livello cognitivo in quanto le insegnanti subiscono fortemente la pressione sociale in tal senso e il bambino con difficoltà di apprendimento di vario tipo, è sottoposto a uno sforzo sempre maggiore. L’insegnante è chiamato a rivedere continuamente il principio dell’individualizzazione e del rinforzo dei residui  positivi di ciascuno.

Laporta Le scuole del Centro sono state sempre all’avanguardia della didattica in Italia. La loro influenza sulla scuola ordinaria purtroppo oggi non può essere documentata analiticamente: è consistita e consiste in una innumerevole serie di visite individuali e collettive, di incontri di studio, di corsi residenziali per insegnanti italiani e stranieri, di presenze di esperti di scienze dell’educazione di varie università. Alcune ricerche fondamentali (come ad esempio quel classico della nostra didattica che è il volume di F. De Bartolomeis sulla scuola materna) ne fissano alcuni momenti ed aspetti. Qui si può soltanto accennare, per la completezza del discorso, a tutto ciò. Puoi dare in breve un’idea dell’attività didattica delle scuole del Centro?

Zoebeli Nel corso degli anni sono state introdotte varie sperimentazioni sia organizzative che didattiche: per esempio nella scuola materna abbiamo avuto i bambini aggregati per età, oppure volutamente di età diversa o ancora il gruppo dei piccolini, di tre anni, da solo, e gli altri, dai quattro ai sei anni, insieme. Oggi si è tornati alle classi omogenee per fasce d’età. Così pure nella scuola elementare abbiamo utilizzato diverse formule, fino all’attuale che vede la fusione di due classi parallele di quindici bambini ciascuna, nelle quali vengono integrati quattro bambini handicappati o svantaggiati: pertanto il gruppo così formato è seguito da due insegnanti titolari, due di sostegno e un’assistente scolastica.

Inizialmente non era così anche perché, partiti con una sola classe, se ne aggiungeva una nuova ogni anno, fino a che si arrivò a sdoppiare tutte le classi e a due cicli completi per un totale di dieci classi. Ma quello che a me premeva particolarmente era creare capacità e abitudine alla cooperazione tra tutte le insegnanti sia di scuola materna che elementare, e fin dai primi anni ho fatto in modo che esse imparassero a lavorare intorno a un progetto di studio o di lavoro, a un progetto educativo…

Se l’insegnante non riesce a collaborare con i colleghi come può educare alla cooperazione in classe e nella scuola? I bambini devono imparare alavorare in gruppo, ad accettare i compagni di altre classi, ad interessarsi a ciò che fanno gli altri! Io credo che il CEIS sia stata una delle prime scuole italiane ad introdurre i gruppi di lavoro a classi aperte che favoriscono notevolmente la, socializzazione e la maturazione dei bambini anche per la diversa età dei componenti; ognuno valorizza e in luce le sue capacità, imparando ad adattarsi a persone, ad orientarsi nell’ambiente, a scoprire le proprie possibilità espressive, creative, manipolative attraverso la drammatizzazione, la tipografìa, la pittura, il modellaggio. Le attività scolastiche furono subito organizzate «a tempo pieno», sia per la scuola materna che per quella elementare, forse perché così ero stata abituata a pensare la scuola in Svizzera! […]

È mia convinzione che le insegnanti e l’organizzazione non siano gli unici fattori veramente importanti nel contesto educativo, in quanto ritengo che l’ambiente sia un condizionatore indiretto, per cui ho cercato di neutralizzare i fattori negativi, quelli limitanti, per favorire quelli positivi: gli spazi per le attività collettive, di gruppo o individuali, sono una risorsa preziosa che aiuta il bambino nella costruzione del suo sapere, della sua sicurezza, del suo mondo affettivo; anche gli arredi sono condizionanti, ed è molto negativo che l’alunno non possa fruirne liberamente! Io preferisco mobili semplici e solidi, accessibili a tutti, senza chiavi o cassetti chiusi, affinché il bambino li viva come suoi e quindi si senta corresponsabile nell’uso; l’ordine non sarà qualcosa di imposto ma un costume quotidiano e consapevole basato sull’attenzione verso le cose e le persone!

Dietro tutto ciò sta il problema di come educare all’autonomia sui diversi piani, quello del pensiero, quello dell’iniziativa, quello dell’azione: autonomia in un clima di collaborazione e non di competizione o di individualismo. E certamente un nodo difficile e delicato i che sembra nascondere una contraddizione in termini laddove si dica di voler «educare» e dunque «condizionare» all’autonomia, ma certo si tratta di un condizionamento dolce, basato sulla convinzione che comunque l’educazione è un processo di adattamento.

Ora, tu mi chiedi informazioni più precise sulla didattica; la domanda è importante perché la scuola è in primo luogo una istituzione preposta alla acquisizione delle conoscenze; ho accennato ripetutamente al metodo necessario per organizzare le conoscenze stesse, al metodo attivo che cerca in vari modi di far partecipe il bambino del processo di apprendimento. Siccome negli anni della scuola materna ed elementare egli è ancora legato al pensiero concreto, l’apprendimento deve avvenire tramite esperienze organizzate; ogni attività deve avere questo carattere senza trascurare però l’aspetto educativo, in quanto apprendimento ed educazione devono procedere insieme.

[…] Mi piace sentir dire che il CEIS, soprattutto perché genitori e bambini vi si fermano volentieri oltre il dovuto, non sembra una scuola! Non ho mai auspicato un ambiente chiuso e statico ma una comunità aperta al territorio e basata sulla partecipazione. Oggi il rapporto con i genitori è istituzionalizzato dai Decreti delegati ma noi già dai primi anni abbiamo stabilito numerosi piani di collaborazione e programmato la partecipazione dei genitori perché volevamo creare una vera comunità educativa e favorire nel bambino l’apprendimento di una vita sociale oltre che la crescita individuale. Per ottenere ciò bisognava evitare la frattura tra attività scolastica ed extrascolastica, pur nella consapevolezza che è molto difficile trasferire in famiglia le direttive pedagogiche della scuola. Se essa è una comunità non lo è solo perché diverse persone stanno insieme ma perché c’è un progetto comune che va continuamente chiarito, discusso, modificato: questo è il valore ultimo della comunità-scuola. […]

Come ho già detto, anche prima della uffìcializzazione della presenza dei genitori nella scuola, numerosi erano i momenti in cui essi venivano convocati e coinvolti; ciò era necessario anche perché, come dici tu stesso, il nostro sistema organizzativo e le nostre scelte pedagogiche erano diverse dall’esperienza comune per cui molti non capivano il senso della nostra attività; c’era chi criticava i gruppi di lavoro, le attività manuali, le attività sociali e di gioco definendole «doposcuoliste», mentre noi credevamo fortemente nel valore educativo degli apprendimenti strumentali, manuali, creativi. Cercavo di far capire che se il bambino sa esprimersi e sa muoversi liberamente col proprio corpo, riuscirà più facilmente a manifestare il suo pensiero e le sue sensazioni a voce o per iscritto; erano necessari anche molti colloqui individuali per far crescere una nuova consapevolezza nel genitore che doveva collaborare con gli insegnanti all’opera di maturazione ed educazione del bambino. Perché, se è vero che egli appartiene prima di tutto a se stesso, sono gli adulti che hanno la responsabilità primaria nei confronti della sua crescita. […]

In Francia esiste un progetto di scuola per genitori, «l’école des parents», in quanto ci si rende conto che tale «mestiere» è sempre più difficile e deve essere sostenuto a livello scientifico, medico, psicologico, pedagogico anche perché i problemi cambiano rapidamente; per esempio in passato era fortemente sentito quello dell’educazione sessuale mentre oggi ci si preoccupa molto di più della prevenzione delle tossicodipendenze. In effetti le influenze che agiscono sul bambino sono molteplici e spesso non si comprende chi le diriga, chi le coordini; il genitore si chiede fino a che punto possa delegare ad altri soggetti, ad esempio ai mass media, l’educazione dei propri figli.

[…]mi rendo conto che, rispetto al passato, oggi essi hanno più consapevolezza, vogliono approfondire i problemi mentre inizialmente mi sembravano più presi da preoccupazioni materiali: allora partii dal concreto, dal vissuto per renderli sempre più consapevoli del progetto educativo. Tale principio continua a restare valido perché se è vero che col pensiero si può arrivare ovunque, è il vissuto che attribuisce un vero significato alle idee, che stimola e sostiene l’impegno: ciò vale per tutti, anche per le insegnanti le quali talvolta falliscono in certe iniziative perché non le conoscono «dal vivo» e le fondano solo sulle teorie pedagogiche, accusando poi i bambini e la loro presunta incapacità. L’esempio più calzante è quello del gioco: se non l’hai mai provato non puoi averlo capito a fondo e dunque non puoi insegnarlo efficacemente. Su questa stessa base abbiamo sempre condotto i corsi di formazione in cui i problemi vengono «vissuti» insieme e il confronto avviene sul vissuto.

Laporta Mi sembra che la formula educativa del Centro investisse fin dal principio con pari intensità gli insegnanti e gli alunni. In Italia quel poco di formazione iniziale prevista dai programmi degli istituti e dalle scuole magistrali comprendeva soltanto un simulacro di tirocinio, senza alcun serio esito didattico. La scuola del Centro aveva un certo vantaggio, in quanto scuola privata, nel reclutamento del personale insegnante: non lo assumeva per prove formali di concorso, ma in base ad una conoscenza diretta delle sue capacità, formate in corsi progettati accuratamente, verificate nel tirocinio presso la scuola stessa, e in seguito incrementate quotidianamente dall’attività di riflessione sul lavoro fatto. Per quanto ne so, era – ed è – questo il metodo formativo del CEIS: esso investe – dicevo – gli insegnanti, ma al tempo stesso i bambini, non soltanto perché ai due livelli educativi sono applicati gli stessi principi e criteri pedagogici fondamentali, ma anche perché i bambini sono costantemente inclusi – come «casi» da esaminare teoricamente e da trattare nell’attività quotidiana – nel la riflessione critico-didattica che fa parte del lavoro! dell’insegnante.

Zoebeli Certamente quello dell’assunzione del personale è stato uno dei primi problemi che mi sono posta anche in seno al Consiglio di amministrazione; […]

quando si trattò di organizzare i corsi di formazione, avviati con tempestività, si discusse a lungo sulle modalità migliori per «formare» i nuovi educatori; c’era dunque un momento di riflessione teorica, coinvolgente anche personale esterno e un momento di formazione «sul campo».

Fu il Dono Svizzero a finanziare, nel ’46 e nel ’47, le prime iniziative rivolte agli educatori di internato e alle insegnanti di scuola materna, e poiché l’ente disponeva di una rete di conoscenze in tutta Italia, indirizzò molte persone impegnate nel rinnovamento della scuola verso le nostre iniziative consentendoci di stabilire relazioni preziose. In genere si trattava di corsi residenziali, guidati inizialmente da insegnanti del Dono Svizzero, con la logica della vita comunitaria, dell’apprendere attraverso il coinvolgimento diretto, l’esperienza di vita; […]

Un cardine della educazione attiva è che il maestro deve crescere con l’alunno, formarsi con lui, quindi non ha influenza solo quanto egli dice ma come si pone col bambino, come si comporta, cosa fa; in questo senso l’educazione è un fatto sociale ed è essenziale il rapporto con gli altri in unità di pensiero e di lavoro; ancora, l’adattamento avviene nei due sensi, dell’adulto verso il bambino, del bambino verso l’adulto. Tuttavia, quando ripenso alle difficoltà delle giovani insegnanti che iniziarono a lavorare con me, provo un senso di grande imbarazzo e di rimorso perché non credo di aver potuto misurare in tutta la sua entità lo sconcerto che deve averle prese nei primi anni; io provenivo da un’altra realtà politica e sociale, mi ero formata all’Università sui metodi della scuola attiva, anche se questa nuova pedagogia non mi era stata proposta a livello teorico ma soltanto didattico; inoltre avevo avuto la possibilità di conoscere l’opera di Jean Piaget e di Alfred Adler arricchendo le mie conoscenze della psicologia dell’età evolutiva.

Sappiamo bene che tutto ciò non era stato possibile in Italia sotto il regime fascista e sappiamo anche che le forze antifasciste furono notevolmente sacrificate: io invece avevo compiuto la parte più rilevante della mia formazione nelle associazioni della gioventù socialista svizzera e confidavo fortemente nei miei ideali.

Io tentavo di far crescere nelle maestre un senso di fiducia e di sicurezza nella propria attività ma credo che esse dovessero compiere un enorme «salto» psicologico perché si erano formate sull’idea che l’educazione fosse basata su continui interventi direttivi con l’obiettivo primario dell’ubbidienza: ora invece si partiva col dare fiducia al bambino e col riconoscergli tutta la libertà di cui aveva bisogno, nella convinzione che proprio su questa base imparasse a responsabilizzarsi.[…]

Come portare le insegnanti giovani ad una totale trasformazione dei loro atteggiamenti verso i bambini? Era per me un problema enorme che cercai di affrontare con la discussione quotidiana sui casi difficili, sui comportamenti dei bambini, sulle loro reazioni: per esempio come affrontare la disubbidienza, l’aggressività, la timidezza, il rifiuto degli altri? Le maestre si fermavano a ragionare con me fino a tarda sera sia sui metodi che sui materiali o sugli strumenti da adottare; in questo modo venivo a conoscere profondamente tutti i bambini, in particolare quelli problematici. Ci si avviava verso l’individualizzazione dell’insegnamento anche nella scuola materna, cosa oltremodo necessaria in quanto i bambini sono tutti diversi, fin da piccolissimi. A tale livello gli apprendimenti non erano differenziati, anzi, fummo una delle prime scuole ad introdurre attività per centri di interesse; ricordo che uno dei primi fu «il mare» che ci fornì numerosi stimoli e abbondante materiale da esaminare, riprodurre, classificare… Lavorare sulla base di un comune centro d’interesse significa anche creare tra i componenti del gruppo un rapporto affettivo particolarmente intenso; questo tema era molto discusso nell’MCE dove si era fortemente legati al metodo Freinet del diario individuale mentre io insistevo affinché nel gruppo ognuno esprimesse sì i suoi sentimenti, ma entro il grande soggetto che riguardava tutta la classe: in questo modo era più facile conoscersi l’un l’altro!

Oggi si parla comunemente di unità didattiche, di «sfondo», ma non credo che sia stato approfondito sufficientemente l’aspetto psicologico del coinvolgimento di tutti intorno allo stesso problema, cosa che le insegnanti dovrebbero valutare maggiormente.

Un altro campo cui nell’attività di formazione ho sempre dato molta importanza è quello riguardante la creatività; la pittura, la drammatizzazione, il teatro dei burattini hanno sempre offerto preziosi stimoli, come pure le attività produttive di tipo artigianale. Credo che oggi più che in passato sia importante far crescere i bambini in un clima attivo e stimolante per neutralizzare i condizionamenti massificanti che rischiano di spersonalizzarli: realizzare qualcosa con le proprie mani, ottenere un prodotto dopo una più o meno lunga attività, è un’esperienza appagante che oggi può costituire un antidoto efficace alla logica del consumismo e dello spreco. Mi premeva particolarmente anche in passato far acquisire alle maestre la consapevolezza dell’importanza delle attività manuali fin dalla scuola materna perché solo sulla base della loro convinzione era possibile coinvolgere i bambini in attività collettive di produzione o trasformazione in relazione ai bisogni del gruppo. Del resto alla base di tutto ciò stava la mia profonda convinzione che per una crescita globale bisognava consentire al bambino di stabilire rapporti socialmente validi, relazioni di amicizia con i coetanei e con gli adulti, bisognava fargli saggiare le proprie possibilità in una condizione di libertà. In questo modo pensavo che i principi informatori dell’attivismo potessero prendere corpo

Laporta Se il bambino ha bisogno di integrarsi crea.Lmente nel mondo che lo aspetta, vicino e lontano, la scuola che interpreta la realtà di questo mondo, può pensare ad offrire ad esso qualcosa di più che la sua azione educativa: può tentare di scoprire nel mondo sterno bisogni, esigenze, problemi a cui occorra una “sposta, per cui occorra un impegno. Tutto questo, se la scuola è capace di farlo, rinsalda e rende fluidi i suoi rapporti con l’ambiente, ne fa una fonte di socializzazione dell’ambiente stesso. Si vuoi attribuire alla scuola ordinaria il compito di centro sociale senza rendersi conto dei suoi limiti istituzionali. Questi limiti possono essere superati se la scuola riesce a trasformarsi anche istituzionalmente in centro sociale. Il CEIS è arrivato a tale livello. Come ha fatto?

Zoebeli Nel progettare il CEIS si è pensato in primo luogo al bambino con i suoi bisogni di crescita e di vita, di bambino, futuro cittadino adulto, che doveva essere in grado di dare un contributo, di partecipare attivamente alla crescita della comunità allargata. Ciò significava pensare agli spazi, ai materiali, alle persone con cui lui entrava in relazione, relazione stabile o limitata nel tempo; certo, il fatto stesso di esser stato concepito come centro sociale ha portato alla ricerca di fili di comunicazione con l’esterno, con la città, per cui lo scambio avveniva nei due sensi: ad esempio la necessità di una nuova professionalità medica è stata avvertita prima di tutto all’interno, ma questo era anche un bisogno della comunità. Così il servizio medico-psico-pedagogico che abbiamo creato è diventato in seguito servizio per la città; e ancora, l’esperienza stessa del Centro al quale affluiscono tanti bambini segnalati per difficoltà di apprendimento, fa nascere un altro servizio, quello per la prevenzione e il recupero della dislessia e comunque a vantaggio di bambini che manifestano difficoltà nell’apprendimento della lettura o della scrittura, difficoltà non legate a carenze intellettive; anche questa struttura si apre alla città. […]

Dunque, io credo che se il CEIS per la sua stessa è un centro sociale, anche le scuole pubbliche potrebbero diventarlo perché le istituzioni possono cambiare e rinnovarsi; anche noi del resto rispondiamo e ci apriamo ad esigenze nuove: l’estate scorsa abbiamo accollo un gruppo di bambini di Chernobyl e i centri estivi sono in funzione di chi li richiede! Mi sembra invece che le scuole pubbliche siano sottoutilizzate se è vero che nella maggior parte dei casi restano aperte solo quattro ore al giorno e che per lunghi periodi sono semi-deserte!

Se la scuola è una istituzione preposta all’acquisizione delle conoscenze, come dicevamo in precedenza, questa non è la sua unica funzione: essa è anche luogo di esperienze sociali, di crescita comunitaria, di educazione democratica-democrazia che non è solo obiettivo ma mezzo educativo. Già nella scuola materna possono essere creati interesse e comprensione per il mondo più ampio, lontano o «diverso»; e credo proprio che siano indispensabili la mediazione dell’insegnante e l’orientamento attraverso gli stimoli che agiscono ogni giorno sul bambino portandogli notizie, immagini, problemi del mondo. La scuola può solo aiutare nella scelta e nella scoperta di valori immutabili; l’apprezzamento per l’armonia naturale, l’interesse e la partecipazione per il mondo animale, possono essere sostenuti dagli adulti con attività coinvolgenti sul piano emotivo e conoscitivo. Da ciò che si è detto risulta che la nostra , scuola è stata ed è tuttora un centro sociale.[…]

Osservo con soddisfazione che l’educazione comunitaria ottiene spesso riscontri positivi: molti nostri ex-alunni da adulti sono attivi nelle organizzazioni politiche, sindacali o del volontariato e quelli di loro che sono diventati insegnanti cercano di informare il loro lavoro ai principi appresi da bambini; questo significa anche che l’inserimento nella società dev’essere critico, non deve limitarsi all’accettazione passiva dell’esistente; nel presente esistono già i germi del futuro. […]

Laporta II personale del CEIS, sia quello insegnante che quello ausiliario, ha sempre avuto per quanto io ricordi una particolare fisionomia educativa, ma ha anche avuto un costante ricambio. Tutto questo implica un discorso di formazione e anche un altro discorso che chiamerei di resistenza allo stress dell’educazione progressiva: quando dirigevo «Scuola e Città», la tensione a cui era sottoposto ogni insegnante per la complessità del lavoro educativo a cui era chiamato, obbligava alcuni a lasciare la scuola con la conseguenza di rendere necessaria una nuova qualificazione professionale per i nuovi insegnanti in arrivo. Ma io stesso ho sperimentato su di me le conseguenze di questo clima di tensione che sembrava l’esito inevitabile dello sforzo fatto per mantenere l’atmosfera di serenità e produttività della scuola. Riconosci in tutto questo un problema anche per il CEIS?

Zoebeli II problema esiste anche per noi; soprattutto in passato il modo di lavorare come educatore-insegnante al CEIS richiedeva un impegno particolarmente forte rispetto a quello dei colleghi della scuola statale. Oggi è cresciuta ovunque la consapevolezza che far l’educatore è in sé cosa di grande responsabilità, per cui molte scuole sono organizzate come la nostra con una continua ricerca di scambio, miglioramento, apertura al sociale; anche i rapporti interni tra le classi sono più frequenti, tanto che l’insegnante ben difficilmente può occuparsi dei «suoi» bambini ignorando gli altri. Ciò comporta incontri, programmazione comune, verifiche più frequenti, rende possibili attività di interclasse che però richiedono maggior impegno per tutti. Mi è capitato spesso, nel corso di questi quarant’anni, di assistere al trasferimento di insegnanti i quali, avendo vinto il concorso, hanno preferito entrare nella scuola pubblica che, fra l’altro, offre loro maggior sicurezza economica: la condizione della nostra scuola parificata che deve lottare continuamente per esistere non è certo rassicurante.

Mi è capitato però anche il caso contrario di persone che, pur avendo vinto il concorso pubblico, hanno preferito restare al CEIS. Valutati tutti i fattori, io credo che molti si rendano conto che la serenità del bambino è anche la serenità dell’insegnante, per cui fa da contrappeso all’ambiente anonimo di troppe scuole pubbliche, l’ambiente ricco e accogliente del CEIS, pensato e costruito per soddisfare i bisogni del bambino.

Il problema della formazione cui tu accenni, è un problema di base mai sottovalutato; ancor oggi abbiamo giovani che si fermano presso di noi come volontari o tirocinanti per completare gli studi avviati all’Istituto Magistrale e per entrare veramente in contatto con i problemi dell’educazione e della didattica. Il ricambio è quasi sempre con persone che fanno già parte della comunità a vario titolo come lavoratori precari per cui l’inserimento dei nuovi insegnanti è facilitato. Ma è interessante constatare che talvolta insegnanti con ottima maturità e preparazione falliscono nella nostra scuola per la difficoltà di assumere la metodologia della scuola attiva: sono vittime essi stessi di quell’insegnamento frontale che hanno subito per vent’anni.

Laporta II Centro è stato tra l’altro, e lo è tuttora, un punto di riferimento per la formazione di personale educativo; inoltre ha saputo costruire una rete di relazioni culturali dalle maglie fittissime, sia in Italia che all’estero. Come iniziò questa attività?

Zoebeli Le radici dell’internazionalismo affondano nell’origine del CEIS medesimo in quanto esso è il risultato, il frutto della cooperazione tra un’organizzazione straniera e il Comune di Rimini; nel momento in cui gli amministratori chiedono al Soccorso Operaio la costruzione di un centro sociale comprendente anche una scuola materna, si afferma la volontà di dare all’iniziativa – nata per rispondere ai bisogni della città devastata – anche un indirizzo culturale. Così si evidenziano i due aspetti fondamentali del CEIS, quello degli scambi internazionali e quello dell’attività culturale in campo socio-educativo.

Per capire la creazione di una fitta rete di rapporti con istituzioni italiane ed estere, bisogna ritornare per un attimo ai primissimi tempi dell’esistenza del Centro. Si deve considerare prima di tutto il clima del dopoguerra con la carica di vitalità e di fermento che lo caratterizzava coinvolgendo in primo luogo quanti non avevano aderito profondamente al fascismo e quanti lo avevano combattuto; l’apertura delle frontiere favoriva l’apertura culturale e spingeva a ricercare contatti che potessero giovare alla ricostruzione della società in un contesto finalmente democratico. C’era una reciprocità in questa ricerca: io potevo conoscere il versante svizzero dove già nel ’45, prima ancora dell’armistizio, si erano formate delle organizzazioni che si impegnavano a dare un contributo materiale e di pensiero ai paesi vicini. Ricordo che partecipai assieme ad altri svizzeri e ad emigranti provenienti dai paesi colpiti dalla guerra, a un corso per assistenti sociali organizzato dal Soccorso Operaio, avente lo scopo di preparare ai compiti socio-educativi che si ponevano in quel frangente.

Nello stesso anno nasce a Zurigo la SEPEG (Semaine international pour l’enfance d’après-guerre), col compito di studiare i problemi dell’infanzia vittima della guerra e di definire forme di intervento assistenziale, educativo e formativo; al primo incontro tra i promotori, gli organizzatori e gli inviati di molti paesi europei, diciotto per la precisione, partecipò per l’Italia Ernesto Codignola il quale poi fu presente anche al secondo convegno, dopo quello di Milano, che si tenne proprio al CEIS dal 4 al 14 maggio del ’47. In quell’occasione ebbi la possibilità di incontrare personalità di fama internazionale in campo pedagogico e psicoanalitico come Carleton Washburne, Pierre Naville, Lucien Bovet, Cesare Musatti, Virgilio Porta, Maria Calogero, Lamberto Borghi.

L’anno successivo si tenne al CEIS anche il terzo convegno, sempre della durata di dieci giorni, alla presenza di validissimi uomini di cultura fra cui Aldo Visalberghi, impegnati sul terreno sociale, giuridico o educativo col riferimento costante all’infanzia; vi parteciparono anche direttori didattici del territorio insieme ad un folto gruppo di insegnanti interessati ai problemi del rinnovamento della scuola. Durante il convegno funzionavano già, oltre alla scuola materna, la Casa dei ragazzi, la prima classe della scuola elementare e un corso residenziale per educatori di comunità. Gli intervenuti prendevano contatto con educatori ed insegnanti, seguivano la loro attività vivendola come esempio concreto delle teorie che si discutevano; in particolare interessava il linguaggio nuovo che si doveva instaurare tra educatore e bambino e interessavano le molteplici attività individuali e di gruppo che venivano svolte nella scuola.

Alcuni rapporti umani instauratisi durante i convegni SEPEG si trasformarono subito in iniziative di collaborazione; a questo proposito devo ricordare il prof. Ernesto Codignola che coinvolse il CEIS immediatamente nel movimento italiano per il rinnovamento della scuola indirizzando a noi persone come Giuseppe Tamagnini, fondatore del Movimento di cooperazione educativa, il quale volle condurre i suoi studenti dell’Istituto Magistrale di Fano al CEIS per prendere contatto concreto con una realtà educativa diversa e poi scelse il nostro Centro quale sede del primo congresso dell’MCE. Eravamo nell’anno 1952.

Nello stesso periodo, il prof. Codignola mette in contatto con noi un gruppo di fiorentini fra cui Marcello Trentanove, Rita Fasolo e altri, per coinvolgerci nell’appena iniziato lavoro dei CEMEA (Centri esercitazione metodi educazione attiva), così la cerchia si allarga ancora!

Sono tutte persone impegnate nel proprio lavoro di insegnanti con l’intento di trasformare la vecchia scuola del ventennio in una nuova scuola centrata sui bisogni del bambino, una scuola organizzata secondo il metodo attivo, così come il CEIS, attraverso le sue sperimentazioni, stava cercando di fare. […]

Parlando dei nostri legami con istituzioni all’estero, mi sembra importante ricordare lo scambio di insegnanti

realizzato con la Friend’s Center School di Filadelfìa. Si tratta di una comunità scolastica gestita dai Quaccheri con una metodologia simile alla nostra e sulla base di un programma educativo che prevede iniziative tese a favorire l’amicizia tra i popoli; una di queste iniziative era proprio lo scambio di insegnanti e ciò fece sì che, mentre Bettina Moore – una esperta maestra della

Friend’s School – era ospite del CEIS, Marisa Fabbri, /nostra insegnante, lavorasse nella scuola americana. Io stessa vi soggiornai nel ’65 per tre mesi, grazie ad una borsa di studio offerta da quella istituzione. Lì ho conosciuto il nuovo insegnamento della matematica con i blocchi logici di Zoltan Dienes, lì sono stata colpita e stimolata dalla partecipazione vivace e articolata dei genitori nei vari campi della gestione della scuola e dalla loro protesta contro la guerra nel Vietnam. Con loro ho partecipato ad una imponente manifestazione a Washington. Per molti anni si è realizzata una regolare corrispondenza tra le nostre scuole e parte di essa viene utilizzata nell’insegnamento della lingua inglese avviata, nella scuola elementare in questi ultimi anni. Ma vorrei ancora tornare brevemente all’incontro con i promotori fiorentini dei CEMEA, con i quali si sono organizzati al CEIS numerosi corsi di esercitazione ai metodi attivi. Fu un incontro fortunato, basato sulla immediata e spontanea adesione agli stessi principi educativi e sulla ricerca comune di obiettivi da perseguire: siamo diventati subito amici e l’amicizia si è protratta fino ad oggi.

Il comune lavoro nei corsi CEMEA, cui hanno collaborato anche due insegnanti del CEIS, Lidia Biagini Marina Manzoni, ci ha fatto vivere profondamente il valore e la gioia del progettare insieme la conduzione t tecnica, metodologica e i contenuti dei corsi. Considero l’esperienza del lavoro in équipe degli istruttori CEMEA un contributo prezioso per la crescita socio-culturale di noi insegnanti e per l’autoformazione in campo educativo: un aiuto al pensare e agire democratico.

[…]

Laporta Tu, Margherita, giungesti in Italia inviata dal Soccorso Operaio svizzero, di ispirazione socialista, e nella guerra di Spagna avevi militato nelle file del socialismo. La tua attività in Italia si è svolta in una regione e in una città di tradizione socialista. Tutto questo non è certo casuale: in quale misura l’idea socialista ha ispirato la tua azione educativa? E qual è la valutazione che tu fai oggi delle prospettive di sviluppo della nostra società?

Zoebeli Domandarsi in quale misura i valori del socialismo riuscirono a motivare e sostenere l’azione del CEIS comporta un esame non facile anche perché la nostra esperienza pedagogica si è arricchita nel tempo ed io stessa non sono più quella di quarant’anni fa.

Ma se provo a guardare le cose con gli occhi di allora, ciò che affiora è il grande entusiasmo, sono i tortissimi ideali che mi animavano e guidavano i miei passi: io credevo fermamente nei valori sociali dell’educazione! Non ritengo però di aver maturato tali sentimenti a livello scolastico perché al liceo e all’università mi formai quasi esclusivamente in senso metodologico-didattico; ricordo ancora i miei insegnanti di didattica della matematica e didattica delle scienze e i momenti in cui si parlava della necessità di avvicinarsi scientificamente alle cose, di stabilire con esse un «contatto reale», il cosiddetto Anschauungs-Unterricht, nella mia lingua, secondo le indicazioni di Johann Hemrich Pestalozzi. Anche il corso di didattica della musica che seguii all’università fu così profìcuo e coinvolgente che potei condividere tale passione con molti altri e trasmetterla nel corso di tutta la mia vita.

Dopo aver riflettuto a lungo sui modi in cui il bambino si accosta alla realtà, ho rafforzato le mie conoscenze psicologiche grazie all’opera di Jean Piaget il quale mi ha insegnato a rispettare il bambino di per sé, senza considerarlo una realtà incompleta, un uomo in piccolo.

Tuttavia, per mettere in relazione l’educazione con la società ho avuto bisogno io stesso di un’educazione parallela a quella scolastica e la storia si è incaricata di fornirmi numerose sollecitazioni: l’ascesa del fascismo in Italia e del nazismo in Germania hanno suscitato in me un vivo interesse storico e politico negli anni della mia formazione facendomi accostare ai gruppi della gioventù socialista svizzera. Con loro si discuteva e si prendeva posizione sul futuro non risparmiando critiche neppure alla Confederazione perché la scuola non era comunitaria e la preparazione era solo strumentale, perché il governo non sempre accoglieva degnamente i profughi politici, perché non si faceva abbastanza per superare le ingiustizie sociali di cui la povertà era la più grave ai nostri occhi. Ci nutrivamo dei romanzi di Emile Zola, di Upton Beali Sinclair, di Jack London. Ricordo che mi colpì un giorno la critica rivolta da un mio professore a Pestalozzi; egli sosteneva che i valori educativi cui il pedagogista si richiamava erano funzionali alle esigenze dello sviluppo economico svizzero: ebbene, mi convinsi ben presto del fatto che l’educazione non dev’essere al servizio di chi ha il potere ma dev’essere sempre critica, con l’obiettivo primario dell’autodirezione nella società.

Molti furono i seminari di studio e discussione entro il movimento della gioventù socialista! Insieme affrontammo i temi della psicologia individuale di Alfred Adler apprezzando particolarmente il rapporto da lui stabilito tra educazione psicologica e bisogni delle classi sociali svantaggiate. La psicologia individuale fa leva sul diritto ineliminabile di ogni persona a svilupparsi, ad occupare il suo posto nel mondo, a vedersi riconosciuto un valore in sé, ad esistere: principi che posso ancor oggi sottoscrivere! Certo devo dire di essere stata fortunata in quanto ho avuto la possibilità di investire questi fondamentali criteri prima nell’organizzazione dell’ambiente poi in quella della scuola; perché una comunità educativa non si forma spontaneamente ma va pensata e progettata nei suoi elementi costitutivi: negli spazi, che devono dare a tutti possibilità di movimento e di iniziativa, nelle strutture, nelle persone che devono sentirsi apprezzate, stimate per le qualità che possiedono.

Tutto ciò vale in particolar modo per i casi sociali e i bambini con handicap nei confronti dei quali si cerca di valorizzare tutte le risorse, facendo compiere quelle azioni che hanno già suscitato in loro una reazione positiva e permettendo così il sorgere dell’autostima, base dell’apprendimento; Adier ha insegnato che psicologia e pedagogia non possono essere separate!

L’idea della interdipendenza in campo educativo mi suggerisce un parallelo con il campo biologico: non è forse vero che lo sviluppo stesso dell’uomo da una a molte cellule dimostra la cooperazione tra le parti e che in natura ogni cosa è legata all’altra? Lo stesso rapporto si crea a parer mio tra i membri di una comunità in cui il vivere insieme rafforza i legami e consente la conoscenza reciproca.

La «legge» nasce nella convivenza tra bambini e adulti, non parte dall’insegnante; ecco un altro tema basilare nella costruzione di una comunità educativa, che cercai di far applicare fin dai primi anni: l’educatore rinunciava alla tradizionale autorità per diventare guida, consigliere che entra nel «cerchio» assieme a tutti gli altri. In seguito vennero altre riflessioni, come quella sull’autogestione del gruppo, sul diritto del bambino al gioco, sull’apertura alle altre culture e altro ancora.

Ora, nel fare il punto su quelli che potremmo definire i principi base di un’educazione «socialista» nel senso che il termine possedeva nell’immediato dopoguerra, si devono considerare e il nuovo sentimento di comunità di cui ho appena detto e la fiducia-coscienza del futuro e il rispetto dei bisogni e della personalità infantile; inoltre, la convinzione che la democrazia non è solo lo strumento ma anche l’obiettivo dell’azione educativa. che l’abuso di potere va riconosciuto anche nelle forme più nascoste e raffinate, che l’uomo va educato per il cambiamento e non per la conservazione, per il pieno sviluppo della sua personalità all’interno degli obiettivi di comunità.

Come può reggere tutto ciò dopo il fallimento dei cosiddetti paesi del «socialismo reale»? Prima di tutto io dubito fortemente che tale definizione sia appropriata perché quanto ho appena enunciato non ha trovato certo realizzazione nell’Est europeo. Ma non ritengo neppure che il capitalismo abbia permesso o permetta di realizzare forme di convivenza pacifiche e democratiche nel mondo; il capitalismo ha distrutto culture come quella dell’India, ha creato una vera frattura tra scuola e produzione, tra educazione e produzione. Gandhi ha tentato infatti di difendere il villaggio-educante, centro autosufficiente con unità di produzione e di vita sociale ma tutto ciò è stato spezzato! Viviamo in uno stato di «analfabetismo sociale» anche nei nostri paesi, e per questo è particolarmente importante potenziare il carattere comunitario della scuola, ricreare l’equilibrio psico-fisico nel bambino anche attraverso il lavoro manuale per la comunità.

Non mi sento certo all’altezza di sviscerare fino in fondo il rapporto tra capitalismo e educazione ma mi chiedo a cosa serva insegnare ai bambini a cooperare se poi nella società devono solo imparare a non fidarsi, a scavalcare gli altri. Il sistema capitalistico è puro sfruttamento per il profitto! L’ideale della scuola-comunità non si concilia con la logica del più forte, di un capo assoluto e autoritario, di una burocrazia potente e ottusa; ma in un contemperamento di liberalismo e socialismo forse è possibile tutelare sia l’individuo nel suo bisogno di espressione, libertà e creatività, sia la collettività nelle esigenze comuni.