Intervista a Cesare Moreno e Santa Parrello. da UNA CITTÀ n. 221 / 2015 aprile

 

LA FRAGILITA’ COMUNE
Il complesso rapporto degli operatori di Maestri di strada, che operano nelle scuole “difficili”, con insegnanti e dirigenti, in un’istituzione dove il burnout fa indossare a tutti una corazza; la crisi del ruolo dell’insegnante, che risente di quella dei modelli adulti, e la figura del “fratello maggiore” che risponde al bisogno dei ragazzi di relazioni orizzontali; una scuola dove si fatica a lavorare in équipe, e si abusa delle categorie: Bes, Dsa… Intervista a Cesare Moreno e Santa Parrello.

Ce­sa­re Mo­re­no è uno dei coor­di­na­to­ri di ”Mae­stri di stra­da” (mae­stri­di­stra­da. it) , On­lus di Na­po­li che, do­po aver la­vo­ra­to per an­ni nei quar­tie­ri, è en­tra­ta con pro­get­ti spe­ci­fi­ci nel­le scuo­le “dif­fi­ci­li” del­la cit­tà. San­ta Par­rel­lo è ri­cer­ca­tri­ce al­l’U­ni­ver­si­tà Fe­de­ri­co II di Na­po­li ed è re­spon­sa­bi­le del­le at­ti­vi­tà psi­co­lo­gi­che e di ri­cer­ca di “Mae­stri di stra­da”. “Mae­stri di stra­da”, do­po an­ni al­l’e­ster­no, ha por­ta­to il suo la­vo­ro den­tro le scuo­le. Co­me fun­zio­na il rap­por­to con gli in­se­gnan­ti? San­ta. En­tra­re nel­la scuo­la ci ha con­sen­ti­to di sta­re vi­ci­no agli in­se­gnan­ti, di es­se­re te­sti­mo­ni del­le dif­fi­col­tà che vi­vo­no, an­che en­tran­do in gran­de con­flit­to con lo­ro. I no­stri ope­ra­to­ri nel­le scuo­le era­no spiaz­za­ti: “Noi an­dia­mo a of­frir­gli ri­sor­se ma­te­ria­li, uma­ne, di so­li­da­rie­tà, per­ché ci ri­fiu­ta­no? ”. La­vo­ra­re nel­la scuo­la per com’è di­ven­ta­ta è stres­san­te, a più li­vel­li e per tut­ti gli in­se­gnan­ti, da quel­li con una buo­na mo­ti­va­zio­ne e buo­ne ri­sor­se per­so­na­li di for­ma­zio­ne fi­no agli al­tri, più re­stii o che han­no fat­to scel­te più stru­men­ta­li. Co­sì ab­bia­mo co­min­cia­to a in­ter­ro­gar­ci, e ab­bia­mo ca­pi­to che avrem­mo do­vu­to an­che noi in­for­mar­ci sul­la di­men­sio­ne del bur­nout, an­che leg­gen­do la vo­stra in­ter­vi­sta a Vit­to­rio Lo­do­lo D’O­ria sul­l’ar­go­men­to (Una cit­tà 217/2014) . Ce­sa­re. Al­l’i­ni­zio ci pa­re­va nor­ma­le che un sog­get­to che va in un al­tro am­bien­te ve­nis­se ac­col­to con ge­lo­sia, in­vi­dia e de­lu­sio­ne. Nor­ma­li emo­zio­ni che si pro­va­no di fron­te al­l’e­stra­neo. Sia­mo an­da­ti avan­ti a lun­go a dir­ci che sba­glia­va­mo noi, che ci pre­sen­ta­va­mo ma­le, che era­va­mo in­va­si­vi, ma poi ab­bia­mo ca­pi­to che c’è un’in­ca­pa­ci­tà a pren­de­re quel­lo che di buo­no una si­tua­zio­ne dif­fi­ci­le of­fre. Una del­le co­se che col­pi­sce di più è che se i ra­gaz­zi han­no una pre­sta­zio­ne po­si­ti­va, al­cu­ni in­se­gnan­ti non espri­mo­no so­lo in­vi­dia, ma an­che di­strut­ti­vi­tà. Nei no­stri con­fron­ti è un con­to, ma quan­do ar­ri­vi a di­sco­no­sce­re o smi­nui­re i ri­sul­ta­ti po­si­ti­vi dei ra­gaz­zi an­che quan­do so­no evi­den­ti…
Co­me si ma­ni­fe­sta la di­strut­ti­vi­tà? Ce­sa­re. “Bel com­pi­to, ma hai fat­to gli er­ro­ri di gram­ma­ti­ca” qua­si rien­tra nel­la nor­ma. Ma quan­do il ra­gaz­zo fa un com­pi­to sen­za er­ro­ri di­co­no: “Tan­to non du­ra, fi­ni­rai ma­le, ver­rai boc­cia­to lo stes­so”. So­no due le co­se: o è sa­di­smo al­lo sta­to pu­ro o c’è una sof­fe­ren­za che im­pe­di­sce di ac­co­glie­re i da­ti po­si­ti­vi an­che quan­do si ve­do­no. San­ta. È que­sta la strut­tu­ra che cer­chia­mo di com­pren­de­re. I mec­ca­ni­smi di di­fe­sa fan­no par­te del­la quo­ti­dia­ni­tà e del­le re­la­zio­ni di tut­ti, ma in cer­te si­tua­zio­ni si ir­ri­gi­di­sco­no. Nel tem­po, con­fron­tan­do­ci an­che a li­vel­lo in­ter­na­zio­na­le, ab­bia­mo vi­sto che gli in­se­gnan­ti vi­vo­no una dif­fi­col­tà ge­ne­ra­le che ri­guar­da il rap­por­to adul­to-gio­va­ni. Og­gi c’è pro­prio una que­stio­ne di le­git­ti­mi­tà del­l’e­re­di­tà che ar­ri­va da­gli adul­ti che fa sì che l’a­dul­to che va in clas­si in par­ti­co­la­re di ado­le­scen­ti deb­ba co­struir­si un ri­spet­to per la pro­pria fun­zio­ne, a co­min­cia­re da quel­lo che è sta­to de­fi­ni­to il va­lo­re del­la te­sti­mo­nian­za, del­l’e­sem­pio. Co­sa si in­ten­de per “va­lo­re del­la te­sti­mo­nian­za”? San­ta. Con­ta mol­to co­me sei e quel­lo che fai “qui e ora”, non sei sti­ma­to in quan­to me­ro rap­pre­sen­tan­te del mon­do de­gli adul­ti. Que­sto “mon­do” ha da­to sto­ri­ca­men­te pro­ve di sé che dan­neg­gia­no la rap­pre­sen­ta­zio­ne che i gio­va­ni ne fan­no. Su ogni in­se­gnan­te gra­va tut­to que­sto, ed è un pri­mo li­vel­lo che met­te in gran­de dif­fi­col­tà, che mol­ti o non so­no pre­pa­ra­ti ad af­fron­ta­re, o sul qua­le non han­no avu­to il tem­po di ri­flet­te­re du­ran­te la for­ma­zio­ne. Qual è il pri­mo im­pat­to del neo in­se­gnan­te con la clas­se? San­ta. C’è un gros­so scar­to tra le aspet­ta­ti­ve dei gio­va­ni in­se­gnan­ti e un si­ste­ma che non im­ma­gi­na­no sia fat­to pro­prio co­sì. Si tro­va­no spiaz­za­ti. Ar­ri­va­no im­ma­gi­nan­do un mo­del­lo di rap­por­to adul­to-gio­va­ne che ri­spec­chi quel­lo del pas­sa­to, e in­ve­ce si tro­va­no a do­ver ri­co­strui­re da ze­ro. Al­cu­ni non reg­go­no. Ov­via­men­te… [ con­ti­nua ]