Arrevuoto 06/08

Scampia | Napoli

Progetto triennale diretto da Marco Martinelli Teatro delle Albe
a cura di Roberta Carlotta
collaborazione di Maurizio Braucci

PRIMO MOVIMENTO-2006
Pace!
riscrittura da Aristofane

“Permettete, spettatori, che un pezzente parli agli ateniesi della loro città, stando dentro una commedia. Buffonate? Anche le buffonate sanno la verità.” (Aristofane, Acarnesi)

Immaginate un adolescente infuriato che scrive la sua prima commedia. La città di quell’adolescente è appena entrata in guerra, è assediata dai nemici, è travolta dalla peste. E allora la prima commedia di quel ragazzino è contro la guerra, contro tutte le guerre. Immaginate che quella guerra non finisca, che duri trent’anni, che quell’adolescente diventi adulto e continui a scrivere commedie spericolate e divertenti, percorse dall’ossessione di quel conflitto che sembra non finire mai. Immaginate che quell’adolescente, il padre della comicità occidentale, mantenga vivo in sé, fino all’ultima sua fatica, lo spirito del ragazzino ribelle, schierato contro il mondo dei “grandi”, cheap turbo kits le logiche ferree e grige di una vita dominata dalla violenza e dalla morte.
Quell’adolescente è Aristofane, un greco vissuto 2500 anni fa. Il suo genio sta nel mettere insieme, nella stessa commedia, le schifezze e i sogni, le battute più oscene e i versi più cristallini, la merda e il cielo. Come nella Pace: Trigeo, della tribù di Atmonìa, vuole farla finita con la guerra che insanguina Atene. Allora nutre un gigantesco scarabeo stercorario (“nu scarafone mangiamerda…”), e in groppa al fantastico animale sale su in cielo a liberare la Pace, rinchiusa in una grotta da stupide e crudeli divinità guerriere, per riportarla sulla terra.
Per questo ho proposto Aristofane ai 70 adolescenti infuriati di Napoli e Scampia, per questo ho riscritto il testo insieme a loro, nutrendolo delle loro improvvisazioni, lavorando su un filo sotterraneo di fantasmi e marionette che da Aristofane arriva fino a Totò: perché la loro carica tenga vivo il segreto del teatro, la sua linfa dionisiaca e selvatica.

Marco Martinelli
aprile 2006



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SECONDO MOVIMENTO-2007
Ubu sotto tiro
riscrittura da Alfred Jarry

Il fiume e i coccodrilli
L’anno scorso era Aristofane, quest’anno Alfred Jarry. Interrogato al liceo su chi fosse il suo classico preferito, il giovane bretone rispose: “Sto formando il mio stile su Aristofane.” E a me sembra che la patafisica di Jarry, il suo fulminante coincidere di realtà e astrazione, di politica e sogni dell’anima, di avanguardia e tradizioni popolari, possa a buon ragione assegnare al padre della comicità antica il ruolo di antenato totem. Quindi Aristofane e Jarry come numi tutelari di questo primo biennio di ARREVUOTO. E di Jarry, in particolare, mi ha colpito il prologo di Ubu sur la butte, dove Guignol, il burattino, si presenta in teatro e chiede al direttore di recitare Ubu roi, reclamando vitto, alloggio e diaria. E’ una richiesta perentoria, la “testa di legno” chiede di diventare “re per una notte”. All’inizio il direttore non ci sta, ma poi, davanti al minaccioso bastone del burattino, cambia idea e acconsente.
Pensando al coro di turbochargers online, mi è venuto naturale trasformare Guignol in Pulcinella, in questo confortato dai richiami a Pulcinella presenti nell’invenzione della maschera ubuesca, non solo sul piano iconografico (dal cappello a punta al bastone), ma anche nelle suggestioni testuali: “mon gros polichinelle”, così Madre Ubu definisce il suo rispettabile sposo, e Pulcinella è anche il protagonista del primo testo teatrale scritto da un Jarry dodicenne nel 1885, una farsa tragica e “noir” dove Pulcinella e Scaramuccia sono ladri che finiscono male, frutto di un precoce amore per le marionette e la tradizione delle maschere italiane.
Ed eccoci qui dunque, al “secondo movimento” di ARREVUOTO, con questo Ubu sotto tiro: un coro di pulcinelli dei nostri tempi, abituati ai rifiuti tossici e all’immondizia, inguainati in una bianca tuta da disinfestazione che alla fine del prologo si liberano dal bozzolo e svelano gli abiti multicolori della favola “polacca”. Dove la Polonia immaginaria di Jarry, il non-luogo che può essere dappertutto, viene calata nella lingua violenta della periferia napoletana, e dove all’improvvisazione gestuale e vocale e alla fantasia creatrice degli adolescenti viene riservato un ruolo chiave nell’assorbire e trasformare i classici: come di consueto nella non-scuola delle Albe, che a Ravenna conta ormai quindici anni di vita. D’altronde non sarebbero tali, i “classici”, se non  sapessero dialogare col tempo presente, resistendo a ogni scontro e trasformazione, a ogni amorevole violenza loro imposta per farli “parlare” al presente: da qui la loro perenne attualità. E se Pace! era un rito dopo la mattanza, un esorcismo contro la morte giocato con le inermi possibilità della scena, questo Ubu coniuga gioco e crudeltà, levità e decervellaggio: siamo tutti “cape e’ lignamme”, tutti burattini, tutti  manovrati e manovranti, articolazioni non-innocenti di una macchina- mondo che mostra sempre più la faccia arrogante del Male, spesso abilmente dissimulata, spesso in guanti bianchi, la violenza di un Potere che è sopruso e che replica la sua farsa tutti i giorni, nei grandi centri come nelle più lontane periferie.
Un Ubu di massa: come dice un proverbio africano, “ bisogna attraversare il fiume in massa, per non essere assaliti dai coccodrilli”. Almeno ci dobbiam provare.Marco Martinelli
marzo 2007
Locandina (file PDF 40 Kb)
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TERZO MOVIMENTO-2008
L’Immaginario malato
affresco da Molière

Molière plebeo
Se mi volto indietro, e osservo il percorso fatto in questo triennio, vedo emergere un disegno preciso, con una sua armonia, un disegno che, all’inizio di Arrevuoto, nel 2005, non era stato pensato in questa forma. Partimmo infatti “in punta di piedi”, per usare un’espressione dell’allora direttore del Mercadante Ninni Cutaia, quando Roberta Carlotto faceva parte del comitato artistico dello Stabile e mi accompagnava in giro per Scampia, guidati da Braucci e dai “Chi rom… e chi no”, scoprendo insieme centri sociali e palestre, aule scolastiche allagate e slarghi all’aperto : non si trattava di esportare meccanicamente un “metodo”, quello della non-scuola delle Albe, si trattava di mettere alla prova una sensibilità, una pratica di lavoro teatrale con gli adolescenti, nel contesto della periferia napoletana. E se le Albe avevano già sperimentato altrove le proprie intuizioni, nelle banlieus di Caen, nel quartiere africano di Chicago, nel cuore del Senegal, ora la scommessa puntava a un’altra Italia, così distante, all’apparenza, dalla finta-quieta Ravenna. Fin dall’inizio facemmo una scelta precisa: decidemmo di far lavorare insieme, in un unico spettacolo, ragazzi di Scampia e ragazzi del centro di Napoli e ragazzi rom, rischiando, certo, ma scommettendo sul fatto che per fare un vero “arrevuoto”, un sotto-sopra, uno scardinamento, occorreva rompere i muri invisibili e spesso invalicabili che dividono classi sociali, lingue, etnie.Fu Pace!, nella primavera del 2006, un esorcismo da Aristofane per una guerra appena conclusa, che aveva insanguinato il territorio di Scampia. Quando chiesi la mia prima informazione per strada, un ragazzino mi rispose con una battuta feroce: “vai dritto, poi giri a destra, là dove hanno bruciato quella ragazza dentro la sua macchina”. La parabola di Aristofane si sarebbe incarnata in una terra ferita (gli spari nelle strade, gli elicotteri sopra i parenti e gli amici ammazzati per sbaglio, perché “passavano di lì”, la paura e il sospetto), e da quella ferita avrebbe ricavato nuova luce.

Ma dove trovare un palco che ospitasse i 60 in mimetica che intanto stavano divorando e ricreando in napoletano la vicenda del contadino Trigeo, che con un fantastico “scarrafone mangiamerda” vola in cielo a liberare la Pace, tenuta prigioniera in una grotta? Spuntò l’Auditorium per incanto. Costruito anni e anni, mai aperto, mai utilizzato, sonnecchiava come un gigante delle fiabe accanto alla Villa comunale, in attesa che qualcuno lo risvegliasse. Più che una regia, fu per me un cavalcare la tempesta. 60 adolescenti mai stati su un palco, un evento unico, a differenza dei tanti spettacoli che, assegnati a gruppi di 20-25 adolescenti al massimo, compongono a Ravenna la rassegna della non-scuola.
Nel 2007 Ubu sotto tiro, riscrittura da Alfred Jarry, con l’obbligo di non “ripetersi”. Per cominciare a far emergere i talenti singoli, senza dimenticare il coro (il coro è il segreto della non-scuola come di Arrevuoto, lo sberleffo in faccia a una società che ci vuole solo in due maniere, massa-ebete-felice o monadi-disperate-incomunicanti). Il salto, da Pace! a Ubu sotto tiro, fu nella costruzione di un’architettura più complessa, in cui le maschere ubuesche venivano impugnate da una legione di pulcinelli in tuta da disinfestazione, pulcinelli abituati a rovistare tra i rifiuti, in cui la Polonia, il “nessun luogo” di Jarry, diventò la Napolonia di tanti burattini, vittime e carnefici. In cui i 60 di Pace!erano nel frattempo diventati 80 (numeri mobili, d’altronde, perché c’è anche chi va e chi viene, chi salta in scena all’ultimo momento).
Già lavorando al “secondo movimento” mi ponevo intanto il problema di che cosa sarebbe diventato Arrevuoto alla fine del suo triennio, già sapendo che non avrei potuto personalmente dirigerlo, che altri impegni mi attendevano a Ravenna: e ne parlavo con Roberta Carlotto, divenuta nel frattempo il nuovo direttore del Mercadante. E le prefiguravo una trasformazione da evento unico a festival, con la possibilità, dopo tre anni di esplosioni, dopo un triennio di esperienze in cui si stava formando una squadra di “guide” napoletane brave e capaci, di fargli ritrovare la forma espansa della non-scuola ravennate, e permettendo quindi di allargare a tante altre scuole e situazioni, di coinvolgere altre centinaia di adolescenti, a Scampia e in altri quartieri della città, andando oltre quelle quattro realtà (Liceo classico Genovesi di Napoli, Liceo Morante di Scampia, Scuola Media Carlo Levi di Scampia, e il gruppo di raccolto dai Chi rom… e chi no”) che continuavano a formare l’ambito “esclusivo” del primo triennio.
Così ha preso forma l’idea, per il 2008, di un “affresco da Molière” dove le suddette  quattro realtà lavorassero in maggior autonomia, a fronte della suddetta squadra di “guide” da me individuata negli anni e che nel percorso si era allargata, maturando una sensibilità di lavoro che può crescere solo con l’immersione nella mischia, l’attenzione e l’ascolto a “tutti” gli adolescenti, la consapevolezza che, nella non-scuola come in Arrevuoto, l’adolescente è re, l’amore per un teatro che sia alchimia e “messa in vita”.
Un Molière fatto a pezzi: frammenti dall’Avaro, dalle Intellettuali, dalla Scuola delle mogli, dal Medico per forza. Un Molière che, sulla strada della pace tracciata da Aristofane, non lontano dalle allegorie sul potere di Jarry, ci mostri quanto il nostro immaginario sia malato: Molière, infatti, va al sodo, gioca la verità nella sua crudezza, svela la menzogna malata del nostro stare insieme, gli uni contro gli altri. Il male nelle sue tante, ridicole icone: il denaro come cancrena, il salotto-teatrino e il falso sapere, il possesso violento della “femmina”, la ciarlataneria dei finti guaritori. Molière è acido, corrode.
Un Molière guardato attraverso le sue radici plebee: il Molière che impara dai comici italiani, in particolare napoletani, da Tiberio Fiorilli, in arte Scaramouche, il Molière delle farse, degli attori col volto infarinato, maschere di un teatro di provincia, il Molière che inventa il suo “Sganarelle” ricalcandolo forse su “Polichinelle”, un Molière che deve tanto al mondo composito delle fiere, a quel coacervo “mostruoso”, plebeo, in cui gli attori si mescolano ai mendicanti, ai ciarlatani, ai buffoni, ai nani, ai fenomeni da baraccone. Un Molière che mostra alla corte il brulicare della piazza, quella piazza pericolosa verso cui la corte nutre sentimenti ambigui, la teme e nello stesso tempo desidera spiarla. Può farlo senza esporsi, senza rischiare ad avventurarsi nella tana del nemico, osservando quel mondo nel microcosmo della cavità teatrale. Al sicuro: forse anche per questo si è reinventato il teatro nel rinascimento. Un Molière attore, comico di razza, antesignano di Charlot e di Totò, a lungo sospetto alla classe dei letterati.
Non si entra in Molière senza conseguenze, ha scritto Cesare Garboli. Nel senso, credo, che la verità, col suo punteruolo, ci scortica. Anche da Arrevuoto, da questi tre anni di Arrevuoto, credo che non si uscirà senza conseguenze: la prima, c’è già stata, è la nascita di Punta Corsara, progetto che intende dare continuità alle esplosioni sceniche di Arrevuoto, facendo dell’Auditorium un teatro funzionante tutto l’anno, uno spazio in cui i linguaggi si confrontino (non solo teatro quindi, ma danza, musica, hip hop, murales), facendo crescere una leva di attori, organizzatori e tecnici spuntati dai tre “movimenti”; la seconda è che Arrevuoto non deve, non può morire, e toccherà al Mercadante, consapevole di cosa significhi essere “stabile pubblico”, dare slancio alla possibile nuova fase, tenendo conto della maturità della squadra delle “guide” che con me hanno lavorato: tale consapevolezza il Mercadante l’ha d’altronde già ben dimostrata ooperando con passione al progetto in questi tre anni, dalla direzione di Roberta alla dedizione di Marzia D’Alesio; la terza conseguenza è quella che mi riguarda, ovvero che non mi si cancellerà più dalla mente il mio barcollare in mezzo al caos ubriacante delle prove, centinaia di corpi e corpicini, di grida, di inseguimenti, di botte che volano, di invenzioni maturate in un fracasso disumano, di un silenzio che non c’è stato mai, nonostante le mie urla e le mie preghiere, nonostante lo sgolarsi mio e delle “guide”, eppure, quando per incanto è avvenuto, ed è avvenuto tante volte, quando il silenzio si è formato, quando un ragazzino, che fino a quel momento aveva scalciato il mondo, ha fatto silenzio e ha detto la “sua” battuta, ha dato forma al “suo” sogno in mezzo all’attenzione miracolosa di tutti i compagni, in quel momento, proprio in quel momento, il mondo, sì, proprio il mondo intero, ha girato in un altro verso.

Marco Martinelli
aprile 2008