A SCUOLA CON IL SINTOMO…
Un gruppo di insegnanti che da anni si ritrova ogni mese, con una supervisione, per discutere casi difficili, non per improvvisarsi provetti psicologi, ma per fare meglio il proprio mestiere; l’importanza di non stroncare il sintomo, perché è sempre una risposta intelligente; intervista a Marina Baguzzi e Marco Lodi.
UNA CITTÀ n. 177 / 2010 Settembre
Intervista a Marina Baguzzi e Marco Lodi
realizzata da Barbara Bertoncin
Marco Lodi, psicologo di formazione psicoanalitica, attualmente opera presso il Consultorio Familiare e l’Ospedale di Mantova. Marina Baguzzi insegna presso l’Istituto Tecnico Commerciale Statale Alberto Pitentino di Mantova.
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\r Già da diversi anni avete avviato un progetto di accompagnamento degli insegnanti nell’ascolto dei ragazzi. Potete raccontare?
\r Marina. L’idea risale a circa 18 anni fa, quando vennero istituiti i Cic, Centri di Informazione e Consulenza. Una mia collega, ora in pensione, aveva pensato di introdurre questa esperienza anche nella nostra scuola. All’epoca alcuni insegnanti già avevano dei contatti informali coi ragazzi. Io, ad esempio, gestivo la biblioteca, per cui con l’alibi del prestito, del consiglio di lettura, magari venivano fuori i loro problemi, che talvolta erano anche di una certa entità, tipo anoressia, tentato suicidio. Noi però ci trovavamo in grosse difficoltà perché ci mancava la preparazione. Così quando si è presentata l’opportunità di formare delle persone a questo scopo, abbiamo colto l’occasione.
\r Da allora, una volta al mese ci troviamo con un gruppo di insegnanti e per due ore, due ore e mezzo discutiamo e ci confrontiamo sui casi difficili con la supervisione di Marco Lodi. Il gruppo è formato da otto insegnanti e si chiama “Ciao”, Centro Informazione Ascolto/Accoglienza Orientamento.
\r Marco. Una precisazione che vorrei fare subito è che in questi momenti non ci occupiamo dei vissuti strettamente personali degli insegnanti. Il lavoro è sempre centrato sulla dimensione professionale. Quello degli insegnanti non è un gruppo clinico, è un gruppo di lavoro.
\r L’originalità della vostra esperienza sta nel fatto di non aver delegato l’ascolto allo psicologo, ma di gestire il disagio a scuola, in classe e con strumenti didattici.
\r Marina. E’ così ed è stata una scelta in controtendenza. Già 15 anni fa, infatti, soprattutto nella Regione Veneto, c’era un diffuso uso dello psicologo a scuola.
\r Il fatto è che lo psicologo viene ogni tanto, di solito fa due o tre colloqui, non di più, ma soprattutto lavora individualmente con la persona tirandola fuori dal suo contesto. Dopodiché noi quel ragazzino ce l’abbiamo per sei ore tutte le mattine. Allora l’originalità, e anche la forza, del nostro esperimento, sta nel fatto che noi abbiamo puntato a migliorare la capacità dell’insegnante di accogliere questi problemi all’interno della normale routine della scuola, in maniera da non dare un aiuto episodico, i tre colloqui, ma, per quanto possibile, quotidiano.
\r Marco. Un ambulatorio di consultorio familiare a scuola ha sempre un grande successo all’inizio, però poi si ferma, perché è come mettere il distributore di preservativi, cioè lo metti a scuola, però la scuola non interagisce. Invece gli insegnanti sono in prima linea. Di qui l’idea di utilizzare la scuola come contenitore anche di patologie di un certo rilievo. All’inizio di patologie, dopo di culture. Questa è stata l’evoluzione.
\r Marina. Nella consulenza mensile noi cerchiamo soprattutto delle strategie didattiche, per aiutare questi ragazzi. In questo modo ognuno mantiene il proprio ruolo. Su questo insisto sempre: “Non cerchiamo di fare gli aspiranti psicologi senza esserlo, cerchiamo di fare gli insegnanti un po’ meglio, nel tentativo di aiutare questi ragazzi a crescere”. L’adolescenza è un periodo di passaggio per cui produce sempre problemi: di identità, con la famiglia…
\r Cosa intendete per “strategie didattiche”?
\r Marco. Il ragazzo che manifesta un disagio pone sempre una questione ai compagni, alla classe, all’insegnante. Qual è la questione? Che sintomo porta? Che disagio produce? Ecco, nel gruppo si dà una lettura psicodinamica di quello che avviene, però poi si cerca di utilizzare una tecnica didattica per aiutare ragazzo e classe ad affrontare quel tipo di angoscia. Cioè la lettura è clinica, ma lo strumento è didattico. Secondo me, questa è l’originalità assoluta.
\r In genere quando c’è un problema la prima reazione è: “Lo mandiamo dallo psicologo” oppure “Va dallo psichiatra e prende dei farmaci”. Benissimo, ma intanto a scuola che succede? Quando c’è e quando non c’è. Perché c’è anche il problema di quelli che sono assenti perché sono in una clinica, in ospedale o perché muoiono. Cosa succede alla classe in questi frangenti?
\r Potete raccontare qualche esperienza?
\r Marina. Quella che più mi ha segnato, che mi ha cambiato anche, è stata la malattia organica, un tumore alle ossa, di un ragazzino che abbiamo seguito per due anni, cercando di tenerlo a scuola.
\r La qualità della sua vita in quel momento era legata al fatto di essere “a scuola”, così fino all’ultimo, almeno nei momenti di tregua del dolore, abbiamo cercato di offrirgli questa “normalità”. Lui ci teneva tantissimo a mantenere questo vincolo, anche quando andava all’Istituto dei tumori a Milano, ci chiamava, cercava di stare in contatto con noi, persino di fare i compiti. Era un ragazzo molto bello, amato dai compagni, anche per questa sua capacità di esternare le emozioni. Abbiamo dovuto affrontare certe sue domande drammatiche, aveva cominciato col chiedermi: “Ma perché proprio a me? Perché mi è successo questo?”, tra l’altro lui aveva già perso il papà in un incidente, per cui mi diceva: “Ma io non avevo già pagato sufficientemente alla vita uno scotto altissimo?”.
\r Mi chiedevi degli strumenti didattici, ecco, per esempio, con lui è emersa la necessità di affrontare autori che parlassero di morte, perché tanto questo fantasma aleggiava, la morte era diventata un problema di tutti, sia perché perdevano il compagno, e loro se ne rendevano conto, perché vedevano che dimagriva, che cambiava moltissimo fisicamente, e poi perché si erano talmente spaventati che a un certo punto abbiamo scoperto che non volevano più fare la visita medica per il certificato di “sana e robusta costituzione” necessario per poter giocare a calcio. I genitori non capivano perché i loro figli avessero smesso di andare a giocare o ad allenarsi. Temevano di scoprire in sé la stessa malattia.
\r Marco. Si pensa sempre che a scuola sia meglio non parlare di certe cose, poi ascoltando i ragazzi si scopre che loro parlano e pensano solo a quello. Si trattava allora -come si dice tecnicamente- di “evitare la scissione”, di preparare gli insegnanti ad accogliere le problematiche giovanili all’interno della classe. Altrimenti il gruppo, che comunque mette in atto una sorta di autogestione in questi casi, rimane orfano, cioè privo di un adulto in grado di accompagnarlo e guidarlo. Il nostro intento era insomma di aiutare gli insegnanti ad affrontare questioni che i ragazzi già padroneggiavano, o magari subivano.
\r Marina. A un certo punto avevamo in classe un ragazzo scappato dalla guerra in Yugoslavia che aveva visto gli zii morire, uccisi con la baionetta, in casa.
\r Marco. Lui voleva fare il pilota da caccia, per due ragioni: primo, per essere forte, secondo per essere in alto, così nessuno poteva colpirlo.
\r Marina. Aveva visto la guerra in diretta. Una volta presa confidenza, mi aveva confessato che quando portava la spazzatura aveva paura che i cecchini lo colpissero. All’inizio era una fotografia umana, perché non interagiva con nessuno, né con i compagni né con noi, era muto. A casa lo stesso. Lì è stata la storia che ci ha permesso in qualche modo di valorizzare questo suo vissuto. Lui infatti si è appassionato moltissimo allo studio delle guerre divenendo un vero esperto, si divertiva a studiare le strategie, anche quelle delle guerre del passato, per esempio, dei Romani a Cartagine…
\r In altri casi abbiamo usato la tecnica della drammatizzazione. Noi preparavamo un canovaccio, dopodiché a ciascuno veniva assegnato un personaggio. Una sorta di gioco di ruolo. Ricordo un episodio divertentissimo in cui si doveva drammatizzare la storia di Virgilio che a un certo punto aveva lasciato Mantova per andare prima a Cremona a studiare e poi a Roma, nel circolo di Mecenate. Lì bisognava risolvere il problema della situazione del suo vecchio padre, al quale erano state tolte delle terre per darle ai coloni veterani. Lì c’erano due diritti in conflitto e i ragazzi si rivelarono bravissimi. Quello che impersonava il padre era arrabbiatissimo appunto perché gli avevano portato via le terre, il ragazzo che faceva la parte del veterano d’altra parte difendeva le sue ragioni: “Ma come, io ho patito il gelo e poi il caldo nel deserto, ho diritto…”.
\r Beh, è venuta fuori una soluzione che nessuno di noi adulti si sarebbe aspettato. In pratica il colono, come compromesso, era diventato il badante del vecchio padre di Virgilio, facendo tutti contenti: il padre, che aveva un vicino sollecito, Virgilio che poteva andarsene a Roma tranquillo e anche il colono, che così si sentiva meno in colpa ad avergli portato via una porzione del suo terreno.
\r Questo approccio può essere efficace anche nell’incontro con culture diverse…
\r Marco. La domanda di fondo è: come fare a trasformare un sintomo in uno strumento che diventi una risorsa di apprendimento per tutti? Ecco, il sintomo può essere anche l’appartenenza culturale diversa, intesa come “malattia di diversità”.
\r Marina. Ho sempre in mente il caso di una ragazzina indiana, che era odiata dai compagni, perché era la “pierina” della situazione: alzava sempre la mano, interveniva, faceva domande, e questi non la sopportavano.
\r In questa zona c’è una grossa comunità di indiani sikh, che lavorano nelle campagne, sostituendo i nostri che non ci vogliono più andare. Pare tra l’altro che siano particolarmente bravi, addirittura che rendano più produttiva la mucca. Noi a scuola ne abbiamo avuti tanti, e se i genitori spesso non sono in grado di parlare con noi, i figli invece imparano l’italiano benissimo e sono molto motivati.
\r In quel caso abbiamo usato il gioco dell’oca di Duccio Demetrio: in pratica i partecipanti tirano i dadi e finiscono in una casella in cui ci sono dei simboli, attorno ai quali devi inventare una storia.
\r Marco. E’ un gioco dell’oca centrato sull’autobiografia…
\r Marina. Alla ragazzina indiana casualmente è uscito il simbolo della scuola, così ha raccontato della sua esperienza scolastica in India, con classi affollatissime e un livello così basso che i suoi genitori l’avevano mandata in una scuola privata che però era estremamente impegnativa, prevedeva un numero altissimo di ore passate a scuola, più lo studio serale. Insomma, arrivata in Italia, quando ha scoperto l’esistenza di una scuola pubblica gratuita e di qualità, per lei è stata una rivelazione “Ho capito che questa era la mia occasione” ci ha detto.
\r Questa spiegazione, così semplice, del suo vissuto, l’ha riconciliata coi compagni, che a quel punto hanno capito e hanno cambiato immediatamente giudizio.
\r A parte gli indiani, la presenza degli immigrati qui è consistente. Non ho le statistiche più aggiornate, però so che fino all’anno scorso eravamo tra le città con il più alto tasso di immigrati a scuola, che arrivava ad un 17%.
\r Lo scorso anno, per una questione di composizione di classi dettata dalla lingua che avevano fatto alle medie, per la prima volta mi sono trovata con una prima in cui il 50% degli alunni era straniero. Con una situazione molto variegata perché accanto all’indiano, che in genere è molto posato e discreto, magari avevi il marocchino che invece è più caciarone.
\r Uno degli episodi più spassosi è avvenuto in una terza di due anni fa. Ogni tanto qualche collega cambia di posto i ragazzi in modo che ci possa essere un po’ di socializzazione. Io personalmente non lo faccio mai perché non mi piace, mi sembra di dividere amicizie, però forse è utile, non lo so. Comunque una mattina entro in classe e subito mi chiedo: “Accidenti, chissà se ci han pensato…”, perché trovo seduti accanto un tunisino che ha la mamma che arriva a scuola col foulard, molto religiosa, e una ragazza brasiliana esuberantissima, con scollature vertiginose anche d’inverno…
\r Marco. Quando è capitato ci veniva da ridere. Perché le culture sono diverse, ma gli ormoni sono uguali!
\r Poi c’è stato l’episodio del fuoco…
\r Marina. Durante un’ora finale, in cui si preparavano ad uscire -io non ero in classe- un ragazzo albanese con l’accendino ha bruciato i capelli (pochi, devo dire, però l’atto è stato significativo) a una sua compagna, anche lei albanese. Il rischio era che si scatenassero delle faide familiari, perché un genitore ci era venuto a chiedere l’indirizzo dell’altro. A quel punto siamo intervenuti, intanto rassicurando le famiglie che non era successo niente di grave e che comunque non si sarebbe ripetuto.
\r Marco. Per lo psicologo questo è un tipico rito di corteggiamento, non è un atto aggressivo. Ovviamente, spiegarlo a un genitore è un po’ complicato, però era un modo per agganciare la compagna.
\r Marina. Avremmo potuto decidere di far finta di niente…
\r Marco. Invece alla riunione del Ciao abbiamo deciso di approfittare dell’incidente per costruirci attorno un progetto didattico centrato sul ruolo del fuoco nelle culture presenti in classe. Io avevo interpretato quel fuoco come il fuoco dell’adolescenza e del desiderio, della passione che nasce nel periodo in cui c’è un’esplosione anche di ormoni, ma lì ci trovavamo in presenza di culture che elaborano questa funzione biologica dentro dei riti.
\r Marina. Così abbiamo invitato ciascun ragazzo a parlarci del fuoco nella propria cultura. Per i sikh ha un significato purificatore, come pure per i cattolici, ma poi c’erano i marocchini, i cinesi… Ne è uscito un piccolo libro, corredato di alcune fotografie che abbiamo stampato in più copie grazie a questi servizi offerti su internet.
\r Marco. Si trattava, anche in questo caso, di una trasposizione della lettura psicopatologica. Dobbiamo ricordare che quando noi produciamo un sintomo, esso serve perché è il tentativo di soluzione di un problema che ha dei costi che possono essere sociali o privati, in termini di sofferenza. Il sintomo, cioè, è comunque una produzione intelligente. Trasponendo questa logica nella classe, l’obiettivo è di trasformare il sintomo in un racconto con cui dare dignità alla storia e anche alla cultura.
\r Avete avuto a che fare anche con situazioni in cui il sintomo rivelava una patologia, non semplicemente un disagio…
\r Marco. Abbiamo avuto dei casi di patologia vera, un grave ossessivo, quasi psicotico, che veniva a scuola e pretendeva di disporre i propri oggetti all’interno dell’aula, costringendo la classe a subire le sue fantasie sul fatto di mettere le borsa in un determinato posto o di sedersi in una collocazione anziché in un’altra.
\r In questi casi la prima reazione automatica è: “O facciamo quello che dice lui, perché sta male, o gli diciamo di no…”. Il metodo che abbiamo invece utilizzato in queste situazioni è stato quello di recuperare il significato di questo comportamento, senza -si dice tecnicamente- “colludere col sintomo”, cioè senza dare al sintomo la funzione di governare la classe, ma neanche pensando di fronteggiarlo dal punto di vista simmetrico: “Noi non facciamo questa cosa”. L’esempio più simpatico è quello della ragazza fobica. Un giorno, mentre sto pranzando al bar dell’ospedale, ricevo una telefonata. Mi pongono questo problema urgentissimo: c’è una ragazza, in una classe, che sviene quando si nomina il sangue. Il professore di biologia non sa più come fare. Cosa facciamo? “Figurati -mi dice l’interlocutore- che tutti in famiglia svengono quando si parla di sangue”. Il rischio in questo caso è che tutti, cercando di evitare di usare la parola, continuino a pensare al sangue, per cui la classe intera diventa fobica del sangue.
\r Come si interviene? Intanto la ragazza doveva accettare di correre qualche rischio, per cui doveva presentare un certificato in cui il medico diceva che lei è in grado di stare a scuola senza correre pericoli, perché se uno sviene e batte la testa, è evidente che la scuola è responsabile.
\r Il secondo intervento è stato banale: abbiamo preso una poltrona. Qual era l’obiettivo? Poter parlare del sangue e quindi accettare il sintomo, ma neutralizzandone i cosiddetti “effetti secondari”, cioè i vantaggi secondari nella relazione con gli altri, in modo tale che la ragazza potesse tenersi il suo sintomo, senza però interrompere le attività didattiche. Procurata la poltrona, la ragazza all’inizio aveva dei capogiri importanti, che poi si sono trasformati in uno stato di disagio. Quello glielo abbiamo lasciato. Il sintomo non va mai stroncato, va veicolato verso una forma socialmente accettabile. Se infatti ti metti a stroncare un sintomo, primo perdi, perché la potenza dell’angoscia è più forte degli strumenti che usi, in secondo luogo operi un’azione violenta e dagli esiti ignoti, perché la scelta del sintomo è la migliore possibile. Se noi inibiamo quella manifestazione è possibile che la persona debba elaborare un sintomo socialmente più dannoso, di tipo depressivo, ad esempio.
\r Ma perché è così importante tenere il sintomo a scuola, in classe?
\r Marco. Nella riunione del Ciao, di fronte al ragazzo che pone problemi di comportamento di varia origine, malattia organica, malattia psichica, o appartenenza culturale diversa, io propongo sempre una lettura in chiave psicopatologica. Allora, la più grave manifestazione di psicopatologia è andarsene, farsi bocciare e quindi uscire dalla scuola. Se invece un ragazzo porta il sintomo a scuola, fa casino, non riconosce l’autorità, provoca, sta interpellando proprio te come insegnante e comunque il contenitore scuola. E’ fondamentale che gli insegnanti capiscano che se i ragazzi portano il problema a scuola è perché hanno fiducia nella scuola.
\r Oggi le strutture tradizionali, che sono la famiglia, il quartiere, il bar del paese, non svolgono più alcun controllo sociale, le varie appartenenze sono molto labili. Allora la scuola è, di fatto, una comunità terapeutica di cinque ore al giorno. E’ un’enormità. Io non mi stanco di ripeterlo agli insegnanti: “Guardate che se loro fanno casino in classe, è importantissimo che li teniate a scuola, perché questa è la più grande risorsa che abbiamo. Quando escono da qua, se vengono buttati fuori o se si isolano, hanno la destrutturazione del territorio, l’aggregazione per bande, o cose del genere, che hanno costi sociali inimmaginabili”.
\r Se andiamo a vedere, monetariamente, che cosa costa una devianza sociale, in termini di centri sociali, di carceri, di processi, di avvocati, scopriamo che il costo economico, non sto parlando di etica, sto parlando di soldi, è stellare. Certo, questa prospettiva disorienta, perché l’insegnante tradizionale è abituato alla selezione del passato, quando a scuola ci stavano quelli che ci sapevano stare e gli altri andavano via.
\r Recentemente, in un liceo scientifico mantovano, quello più di moda, c’era un ragazzo che andava a scuola col coltello nella borsa, perché era oggetto di attacchi di bullismo. C’era anche una ragione legata alla storia della classe (uno strumento interessantissimo per capire perché il più debole manifesta un sintomo permettendo alla classe di esistere come gruppo, ma questo è un discorso più tecnico). Comunque questo ragazzino non solo portava il coltello, ma l’aveva pure detto e non avendo sortito reazioni a un certo punto l’ha fatto vedere. Siccome però nessuno interveniva, perché i ragazzi non parlavano con gli insegnanti, alla fine non ha trovato di meglio che andare dal preside: “Mi arresti perché ho il coltello nella borsa”. Cioè ha chiesto aiuto: arrestami perché non riesco a gestire da solo la rabbia che ho dentro. Ti porto il coltello come simbolo, e tu fai qualcosa per me. Era questo il messaggio.
\r Anche il ragazzo che viene a scuola con l’hashish in una certa misura chiede alla scuola di intervenire su questa cosa. Se chiudiamo gli occhi c’è il rischio non solo che lui si metta a spacciare davvero, ma soprattutto che non trovi nessuna forma di controllo da nessuna parte.
\r Marina. Attraverso il loro comportamento i ragazzi ci mandano continuamente dei messaggi. Anche la tristezza di una ragazzina che comincia a isolarsi può essere un campanello d’allarme. Ho in mente il caso di una brillante allieva indiana che a un certo punto aveva cominciato a prendere voti sempre più bassi. “Perché io devo aspettare i 18 o i 20 anni, che mi trovino un marito, mentre le mie coetanee italiane hanno già il fidanzato, lo cambiano, escono, possono innamorarsi, perché per me innamorarmi è una colpa?”.
\r Marco. Un’istanza amorosa in crescita che la ragazzina sentiva meglio contenuta nella cultura delle sue coetanee piuttosto che in quella familiare. Tant’è che il problema non lo poneva in casa, bensì a scuola, con un’attività autolesiva, di forma depressiva, con cui attirava l’attenzione degli altri. Abbassare la performance scolastica è un modo per richiamare l’attenzione sulla difficoltà di tenere assieme due mondi; un disagio che lei sintetizzava con la domanda: “Perché il mio innamorarmi è una colpa?”.
\r Marina. Era un caso molto particolare e delicatissimo. Per lei era difficile parlarne, allora ci siamo scritte delle lettere. In questo caso il rapporto era individuale, anche se io poi mi consultavo. Però, per rispettare la sua privacy, lo scambio delle lettere avveniva all’esterno della classe, lei mi aspettava fuori dalla porta…
\r Marco. L’approccio è sempre quello di rispettare al massimo la cultura di appartenenza, però -come per il sintomo- sostenendo le istanze evolutive.
\r Io penso che l’evoluzione verso un soggetto responsabile individualmente sia da considerare buona, se non altro perché io faccio psicoterapia e se uno non ha un riferimento interno, non riesco ad aiutarlo. Se vuoi è banale, però la psicoanalisi, per esempio, prevede che ci sia un soggetto. Se ci sono legami familiari troppo potenti la psicoanalisi non funziona, serve la terapia familiare.
\r Questo, usando le categorie di un tempo, si direbbe che è un discorso “di destra”. Per me si tratta semplicemente di partire dall’ipotesi, che politicamente qualcuno considera negativa, dell’evoluzione del pensiero umano verso forme di maggiore appropriazione da parte dei soggetti, dei sistemi valoriali, e perciò di maggiore autonomia, che si chiama “sviluppo della mentalizzazione”.
\r Intendiamoci, non si può forzare un’appartenenza culturale, perché c’è il rischio che intervengano attività autolesive serie. Bisogna favorirne l’evoluzione. Questo non significa abdicare al relativismo nel senso che tutto è uguale, ma non è nemmeno “imponiamo questo comportamento”: se il comportamento non è lesivo dei fondamentali del nostro tipo di vivere sociale, si favorisce, si dà una lettura evolutiva.
\r Avete visto cambiare i ragazzi in questi anni?
\r Marina. Io registro una maggiore fragilità che va assieme a un bisogno di adulti che siano veri. In questa pluralità di modelli con cui ci confrontiamo, secondo me è più difficile essere adolescenti oggi. Dopodiché, se tu fai delle indagini sulle cose a cui aspirano, sono sempre le stesse: il matrimonio, i figli, l’amore, l’amicizia, i valori, diciamo…
\r Rispetto ai problemi del riconoscimento dell’autorità, della disciplina, devo dire che io non mi sono mai imbattuta nelle esperienze che vengono raccontate da alcuni colleghi, son stata molto fortunata, probabilmente. Certo, in classe mi spendo moltissimo. Se tu non solo fai ma sei credibile in quello che fai, le persone ti ascoltano, interagiscono…
\r Anche il rapporto coi genitori è buono. Quando riconoscono un desiderio sincero di aiutare i ragazzi, in genere si fidano, però chiaramente ci sono anche persone che devono prima studiare la situazione, per vedere se possono fidarsi. Io comunque non ho mai avuto difese ad oltranza.
\r Farsi carico del sintomo non esime dal comminare sanzioni.
\r Marco. Quando viene infranta la legge della scuola c’è la sanzione, non c’è o la sanzione o la lettura psicologica, c’è la sanzione e la lettura psicologica.
\r Marina. Quando dicevo che dobbiamo essere credibili come adulti, volevo intendere che l’ascolto non esclude il rigore nel far rispettare le regole.
\r Il buonismo è una cosa micidiale. Da noi il “va bene, è lo stesso” non esiste. Certo, è una strada molto più impegnativa quella che abbiamo intrapreso, ma mi sembra che in realtà meglio risponda ai loro bisogni di crescita.
\r Marco. La sanzione comunque non prevede mai l’espulsione dalla scuola. Non c’è mai una punizione esemplare, la punizione è sempre tarata sul soggetto, però c’è sempre la sanzione, piccola o grande. Certo è faticoso.
\r Marina. Dopodiché si costruisce insieme un percorso che definire “riabilitativo” forse è eccessivo, però di riparazione, per riportare l’individuo nella sua comunità, a pari dignità degli altri, perché in qualche modo quello che era il suo debito è stato pagato.
\r La vostra scuola è aperta anche al pomeriggio…
\r Marina. Ci sono degli insegnanti che si assumono la responsabilità di tenere aperta la scuola anche al pomeriggio, per permettere ai ragazzi di studiare tra di loro, magari i grandi con i piccoli, oppure di chiedere un aiuto per fare i compiti. L’insegnante che tiene aperta la scuola per quelle due ore al pomeriggio ha una retribuzione oraria, non è puro volontariato. La mattina raccogliamo le prenotazioni, perché se non c’è nessuno che si prenota non andiamo, dopodiché facciamo quello che ci chiedono i ragazzi…
\r E’ un progetto che risale a qualche anno fa, quando abbiamo scoperto che tra i nostri studenti ce n’era uno che non aveva la casa, vivevano in un’automobile… Quando l’abbiamo saputo ci siamo detti: “Ma dove andrà a studiare questo ragazzino, in macchina come fa?”.
\r Allora ci siamo interrogati su come escogitare un sistema che apparisse un’opportunità per tutti, in modo che il ragazzino non si sentisse discriminato o diverso dagli altri. Il progetto è nato così, si chiama “Scuola aperta”.
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