Cesare Moreno, una riflessione sull’esperienza della scuola di Barbiana

Quarantacinque anni dopo: salire a Barbiana e scendere nelle periferie

Il 26 giugno al MIUR in molti abbiamo discusso con Adele Corradi, 88 anni, che ha scritto il bel libro  “Non so se Don Lorenzo ..”  Ho  parlato anche io dicendo alcune delle cose che in modo più esteso riferisco qui.

Il problema della scuola sono i ragazzi che perde.

Chi ripete questo slogan è bene che rifletta sul fatto che i ragazzi che la scuola perde sono il sintomo di una malattia diffusa che è la separazione tra l’essere e il sapere. Se questo è vero non basta promuovere tutti per assolvere la scuola, non basta eliminare il sintomo per guarire una malattia che esiste anche tra i primi della classe. Tutta la narrazione di Don Milani dimostra che la bocciatura è la conseguenza di questa scissione e che bisogna guardare a questa  se vogliamo correggere gli errori della scuola.

I ragazzi che la scuola perde sono anche  il sintomo di una scissione tra la missione civile della scuola che si realizza creando legami e solidarietà umana, e le esigenze dell’economia politica che vuole competizione per una  produttività mercificata e misurabile in percentuali di PIL.

Fare le parti uguali tra diseguali

Ma non possiamo pensare al riequilibrio in termini di ‘discriminazione positiva’. Don Milani si esprimeva nel linguaggio dell’epoca che metteva in primo piano gli aspetti socio-economici, ma oggi noi capiamo, e lo conferma anche una sua più attenta lettura, che una redistribuzione delle risorse in termini materiali è insufficiente. Ciò che è necessario è restituire ai giovani esclusi il rispetto di sé e la fiducia nelle possibilità di migliorarsi  offrendo un sostegno alla persona molto più consistente di quello che si fornisce a chi gode di condizioni favorevoli all’apprendimento. Per restituire fiducia in sé occorre un supplemento di buone relazioni umane, ossia una migliore qualità delle relazioni e non una maggiore quantità di beni disponibili.

Il riequilibrio delle risorse non si realizza nell’ascesa sociale o nella diversa distribuzione dei beni,  ma sviluppando in misura maggiore la solidarietà umana.

Amore

Non c’è scritto, ma solo per pudore, confermato da Adele, che la relazione educativa è una relazione d’amore, ma traspare che ogni parola deriva dall’amore pedagogico, da quel sogno che  consiste di vedere gli allievi come oggi non sono.  Il pudore di cui parlo è rispetto a  una nozione  d’amore che si confonde con l’innamoramento o l’infatuazione (Diceva il priore: i preti e le puttane si innamorano alla svelta …) Nell’amore c’è reciprocità, condivisione, rispetto, tenuta bel tempo. E’ l’amore che consente di essere severi e rigorosi perché solo chi ama può rischiare di non essere amato per il bene dell’altro (ricordate le due madri di Salomone?). L’amore pedagogico è un amore speciale che nasce dalla conoscenza, da un’empatia costruita sulla conoscenza ed accettazione dell’altro e sulla possibilità offerta all’altro di poter accedere, attraverso la conoscenza e la reciprocità, al sé. L’amore pedagogico non è sentimentalismo o mammismo ma esercizio di un potere di crescita su sé e sull’altro. L’amore pedagogico non si manifesta nella collusione ma nella cura e nella responsabilità. I care: io rispondo, mi compete e mi curo di te.

L’educazione è una relazione d’amore che si manifesta con la cura.

Riscatto sociale

Educazione è indissolubilmente legata a riscatto sociale.

Molti leggono  ‘riscatto sociale’ come  scalata sociale, o “ascensore sociale”; in termini più politici come  possibile rivoluzione – le classi lavoratrici al potere – oppure come redistribuzione di reddito. Tutte cose che potrebbero anche essere buone, ma noi educatori dobbiamo sapere che  riscatto sociale significa soprattutto civismo, diventare cittadini attivi, dare i mezzi per esserlo. E don Milani praticava una scuola di questo tipo in cui i ragazzi dovevano combattere soprattutto l’emarginazione interiore che li condannava a sentirsi ‘inferiori’. E questo resta ancora il compito principale dell’educazione,

Didattica attiva e cooperazione

La didattica attiva è l’unica che funziona per tutti perché insegna la cooperazione. L’apprendimento o è cooperativo o non è;

l’apprendimento è circolare o non è: coinvolge chi apprende e chi insegna, chi insegna ascolta ed apprende se no non ha nulla da dire, non ha legittimità a parlare, non è una autorità perché è autorità colui che fa crescere;

l’apprendimento o è politico o non è: o aiuta a creare legami con gli altri, o viene gestito come un fatto pubblico che interessa tutti, perché i giovani che crescono sono la gioia della società, oppure non serve a niente

E don Milani della Scuola di Barbiana ha fatto il centro del mondo, il fulcro di una leva da cui  poteva permettersi di giudicare il mondo. E così deve essere ogni scuola in cui si voglia promuovere i giovani a cittadini.

Insegnare è un incontro culturale.

Ancora oggi c’è chi si attarda a lodare la cultura ‘proletaria’ o contadina come culture altre, come portatrici della settima meraviglia. Molti hanno romantica nostalgia della pretesa semplicità della vita proletaria o contadina. Va bene anche questo, ma noi educatori dobbiamo sapere che a scuola si realizzano incontri antropologici: la cultura vera è quella   capace di tenere assieme le culture diverse di ciascuno. Ogni modo di vita, ogni esperienza collettiva o personale è un mondo da rispettare e contemplare senza volerlo trasformare, volendo invece accoglierlo in sé per farsi trasformare: da un simile processo nasce un mondo condiviso in cui se c’è da cambiare si cambia assieme. Don Milani tuona contro chi pretende di imporre un unico modo di vivere e di pensare. Ha ragione e noi dobbiamo capirlo così bene da non accontentarci di esaltare una cultura pretesa alternativa contro un’altra ma accogliendole tutte.

Attenzione alle competenze informali

Ci sono conoscenze che si hanno senza sapere di averle, grammatiche e sintassi della lingua e delle relazioni praticate senza esserne consapevoli; ci sono esperienze condivise e partecipate alla maniera ‘dei pazzi e dei primitivi’ (lo diceva Vigotsky) o dei contemplativi aggiungo io. Esperienze crepuscolari che stentano a venire alla coscienza. Tutto questo viene cassato da una didattica che non sia centrata sull’ascolto, che non stia attenta a quel che dice l’allievo come se fosse un prezioso reperto archeologico o l’indizio per una indagine amorosa.  Ora lo dice anche l’Europa, se ne sono impadronite in malo modo le fabbriche private di lauree facili, invece è la chiave di volta per una scuola partecipata, dove i ragazzi stiano dentro con tutti i sentimenti.  Don Milani era molto attento a questo, a osservare ed ascoltare e noi oggi sappiamo che non si tratta di un atteggiamento di romantica ammirazione per il naif ma di un posizione pedagogica senza la quale la scuola consuma la scissione tra essere e sapere. Il primo compito della scuola è consentire ai giovani di comunicare il sé, di comunicare l’umano che in ciascuno vive; senza di questo la scuola è serva dell’ultima moda, dell’ultimo dilettante allo sbaraglio fosse pure ministro. Noi siamo più seri.

Desiderio, Severità e Rigore

L’emarginazione interiore è quella primaria,  viene prima di quella sociale. Cronologicamente forse esiste prima l’emarginazione sociale; nella catena causale forse è prima la miseria materiale, ma nella psiche, nell’organizzazione mentale dei giovani con cui ci relazioniamo, l’emarginazione interiore è quella primaria, è quella che impedisce di esprimere l’umano, di apprendere dall’esperienza e dalle relazioni. E’ il senso di inadeguatezza sociale e personale che impedisce di ospitare il bello, il vero, il bene. Per sentirsi adeguati occorre il riconoscimento: l’autorità, prima quella paterna poi quella sociale, riconosce l’esistenza del giovane nello stesso momento in cui gli indica o gli impone un limite all’espressione del potere che dentro di lui cresce.  Senza limiti il giovane si sente semplicemente non visto, è trasparente agli altri come a sé. A scuola i giovani dovrebbero incontrare siffatta autorità che fa crescere il potere su di sé e ne indica con fermezza i limiti di espressione: voler superare questi limiti, come è nella natura dell’umano, fa crescere il desiderio di apprendere e di crescere. Senza desiderio non c’è educazione. Senza limiti non c’è desiderio.  Don Milani di limiti ne metteva, di fermezza e rigore ne usava. Erano aspetti caratteriali di un prete che era anche profeta?  Sono compiti primari per chi voglia educare oggi in una realtà complessa in cui troppe autorità si sono ecclissate.

Chi vuole educare non deve additare le barriere materiali, che pure continuano ad esserci e vanno combattute, ma soprattutto abbattere barriere invisibili che impediscono di esperire la conoscenza dei limiti dell’umano oltre i quali nasce il desiderio di superamento,

Indifferenza, solitudine, impotenza

Molti inseganti si arrabbiarono quando uscì Lettera ad una professoressa, molti si arrabbiamo ancora;  molti usano la lettera come arma impropria, come libretto rosso da sventolare sotto il naso dei reazionari o – in edizione rilegata – per bastonare il capo delle ‘vestali della classe media’.  Dobbiamo continuare così?

Siamo così convinti che la scuola vada storta perché i docenti sono indifferenti e insensibili ai dolori del mondo e più immediatamente a quelli dei loro giovani allievi?

Siamo così convinti che colpevolizzare i docenti sia una buona strategia per indurre il cambiamento?

Siamo così convinti che aggregare tutti quelli che per affinità elettive amano la scuola attiva o la pedagogia degli oppressi, o una qualche teologia liberatoria sia una buona strategia di cambiamento?

Noi maestri di strada siamo convinti che l’indifferenza, l’insensibilità, la ‘follia docente’ siano qualità socialmente prodotte, il risultato inevitabile di una condizione di isolamento ed impotenza pedagogica in cui i docenti sono stati gettati da una prolungata temperie di individualismo sfrenato  favorito da una cultura dell’idealismo e del genio solitario che ha fatto dei “professori”, da troppo tempo, i portatori sani del virus della personalità autoritaria (= impotenza + etnocentrismo + sessismo + sadismo q.b.). La condizione di isolamento ed impotenza induce una necessaria negazione: negare la persona che ‘porta’ un problema perché non si è in grado di affrontarlo, perché è troppo doloroso affrontarlo.  L’”insensibilità” verso il dolore altrui è necessaria per difendere se stessi, per non disintegrarsi di fronte all’altro.  La negazione della diversità non è frutto di una insensibilità personale del docente del ‘ceto medio’ ma è il frutto di un sistema  che produce esclusione molto meglio che inclusione, gettando gli insegnanti nella solitudine e nell’impotenza pedagogica.

Se noi capiamo questo, capiamo anche che qualsiasi posizione che critichi il docente come persona e non come funzione dentro un’organizzazione, non fa altro che aumentare la disperazione ed il bisogno di negazione.  Abbiamo avuto un governo ed un capo del governo che quotidianamente hanno attaccato gli insegnanti come persone per nascondere le responsabilità del sistema e forse è l’unico merito che io riconoscerei al passato governo quello di averci aiutato a capire – se ne siamo capaci – quanto occorra essere solidali con gli insegnanti ‘insensibili’, quanto occorra liberarsi insieme a loro di ciò che ci impedisce di entrare in contatto con l’umano che dovrebbe essere al centro della scuola. Noi maestri di strada lo ripetiamo  in ogni occasione: occorre ripristinare -o istituire – le funzioni di pensiero a scuola; è necessario che gli insegnanti possano riflettere insieme sulle esperienze, possano insieme affrontare la quantità enorme di dolore che si riversa oggi nelle scuole. Don Milani di questo parla poco, lui aveva un dialogo costante con il suo Dio, e più laicamente con la straordinaria Adele Corradi, che non mancava di bacchettarlo quando era necessario, sapendo di avere ragione e ricordandolo ancora oggi. Noi dobbiamo arrangiarci tra di noi, ma siamo convinti di potercela fare.