“Quello che dovete sapere di me” la parola ai ragazzi, a cura di Stefano Laffi

Stefano Laffi, Quello che dovete sapere di me. La parola ai ragazzi, Feltrinelli  

la presentazione con l’autore a Fahrenheit

Nell’estate del 2014, trentamila ragazze e ragazzi compresi fra i sedici e i ventun anni hanno partecipato alla Route nazionale, appuntamento storico degli scout Agesci, per conoscersi, confrontarsi, stare insieme. In vista di quell’occasione è stato chiesto a tutti loro – su base volontaria e in forma anonima – di scrivere una lettera con il titolo “Quello che dovete sapere di me”, ovvero di stendere liberamente il proprio autoritratto, intorno a pensieri, questioni, sentimenti avvertiti come urgenti, essenziali per avere una rappresentazione corretta della loro vita, al di là dell’appartenenza allo scoutismo.

Circa novecento fra loro hanno aderito all’invito, e Stefano Laffi, ricercatore sociale, ha guidato la sua équipe in un approfondito lavoro di analisi sul materiale raccolto. Qui, ne restituisce una selezione per costruire un libro composto dalle voci dei ragazzi, dai loro racconti, dalle loro lettere a nessuno e a tutti noi. Dopo tante parole sui ragazzi di oggi, finalmente le loro parole delineano un autoritratto composito e sorprendente, di una generazione che è molto osservata ma, forse, molto poco capita.

Un messaggio nella bottiglia, un lungo “post” un po’ speciale senza un volto e senza nome, ma che ne racchiude tanti insieme; quasi un manifesto generazionale. Un libro fatto di lettere che raccontano sogni, paure, convinzioni e dolori dei ragazzi e delle ragazze di oggi. Senza filtri e senza moralismi.

Una Intervista a Stefano Laffi di Simonetta Fiori

La parola più ricorrente, negli scritti autobiografici, è “futuro”.
“Sì, ma è un futuro appesantito dalla retorica della crisi con cui questi ragazzi sono stati allevati. Nel corso dell’adolescenza sei chiamato a scegliere: ma oggi è difficile prendere decisioni quando tutto sembra suggerirti l’impossibilità di realizzare sogni e progetti. Un’incertezza diffusa che ha finito per modellare l’identità di questa generazione “.

In che modo?
“Si adattano alla precarietà rendendo fluida la propria vita. Prendiamo la sharing economy: l’hanno inventata loro, i giovani senza soldi che condividono tutto, casa e passaggio in macchina, il consumo di movie series e di prodotti musicali. Al culto della proprietà preferiscono l’utilizzo temporaneo: sideralmente lontani dalla generazione precedente”.

L’incertezza produce identità mobili, in continuo cambiamento.
“Quando gli chiedi di raccontarsi, fanno fatica a dire una cosa sola. E infatti scrivono elenchi, una lista sterminata di aggettivi e condizioni mentali. L’identità diventa un quadro cubista dai mille risvolti, dove non c’è mai un’appartenenza nitida o una radicamento forte. Non leggerai mai “sono di destra o sono di sinistra” perché in un mondo che non ha certezza non puoi permetterti caselle. Non contano più né famiglia né status. E più del cognome amano dire il nome “.

Nascono in un mondo in cui non si è più qualcosa per sempre.
“Non si è più italiani per sempre, non si è più ingegneri per sempre. Non basta più la righetta che ti lascia a disposizione la vecchia carta d’identità. Professione: medico, insegnante, operaio. Nessuno dei millennials se lo può più permettere. Fanno più lavori contemporaneamente, cambiano città e perfino lingua. Sperimentano qualcosa che non appartiene al vissuto dei genitori. Sono molto più simili ai loro bisnonni, costretti a emigrare da un’Italia che non garantiva prospettive. E questa distanza da mamma e papà produce insofferenza”.

Ma non è un tratto tipico di ogni passaggio generazionale?
“Questa volta siamo di fronte a uno straordinario allargamento di orizzonti: è consigliabile non usare la propria esperienza per capire la loro”.

Dalle sue ricerche emerge soprattutto il bisogno di autenticità: un’insofferenza alle maschere sociali imposte dagli adulti.
“Sì, è un tema molto avvertito. Dentro i nostri millennials dobbiamo distinguere tra i trentenni ormai stremati da test e prove di ogni genere – spesso non premiate da risultati concreti – e i più giovani che guardano con disincanto ai loro fratelli maggiori. E a un iter accademico tradizionale preferirebbero un’esperienza di viaggio o il lavoro nel volontariato”.

Con quali conseguenze?
“Questi ragazzi – per lo più figli unici, dunque più seguiti – patiscono le crescenti aspettative da parte di genitori che hanno investito su di loro. Questo ingenera un sentimento di inadeguatezza, la paura di non essere abbastanza, tenuti ben nascosti dietro la maschera sociale imposta dagli adulti: loro non chiedono altro che potersene liberare”.

I social media non appaiono in questo senso una palestra di libertà.
“Tutt’altro. Li costringono a una quotidiana esibizione di se stessi secondo un codice che richiede bellezza, simpatia, divertimento. Nessuno si racconta mai triste, annoiato o brutto. Risultato: tutte le tonalità emotive che fanno parte della lunga età adolescenziale raramente escono allo scoperto “.

L’esercizio quotidiano dell’esibizione di sé costruisce una nuova soggettività.
“Il modo di raccontarsi è diverso da quello dei giovani di trent’anni fa. Prima ti si chiedeva di schierarti rispetto alla politica e l’ideologia, oggi prevale la narrazione intimista degli stati d’animo”.

Ma c’è un tema pubblico che più ricorre nei loro discorsi: è quello dell’ambiente.
“Sì, è il loro modo di sentirsi impegnati. Sanno di doverci vivere ancora per un bel pezzo. E lo avvertono

come il luogo dove le decisioni producono fatti concreti. Distante invece appare il mondo dei partiti, luoghi- simbolo della mediazione: i ragazzi non amano i processi di mediazione. Con l’ambiente il legame è di natura biologica. Il 2050 a loro dice moltissimo, a noi quasi nulla “.