LAVORO MANUALE E LAVORO INTELLETTUALE da Kropotkin (“Campi, fabbriche, officine”; 1899)

LAVORO MANUALE E LAVORO INTELLETTUALE

 

da Kropotkin (“Campi, fabbriche, officine”; 1899):

 

“Anticamente gli scienziati, e soprattutto quelli che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo delle scienze naturali, non disegnavano il lavoro e le attività manuali. Galileo si costruiva i telescopi personalmente. Newton apprese, da ragazzo, l’arte di maneggiare gli utensili, ed esercitava la sua giovane mente ideando le macchine più ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche ottiche fu in grado di fabbricasti da solo le lenti per i suoi strumenti, e di costruire, sempre da solo, il famoso telescopio, che rappresentò, per quei tempi, un ottimo esempio di abilità tecnica. Leibniz si dedicava con passione all’invenzione di macchine; mulini a vento e carri senza cavalli ne impegnavano la mente allo stesso modo delle speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne botanico aiutando suo padre, esperto giardiniere, nei lavori di ogni giorno. In breve, per i nostri grandi geni l’abilità manuale non costituiva ostacolo alle ricerche teoriche: al contrario, le favoriva (…).”

In scuole deviate dal dominio ci è stata insegnata un inesistente gerarchia fra manualità e pensiero, ad uso e consumo delle differenziazioni sociali è stata stavolta della scienza, la stessa storia:

“Col pretesto della divisione del lavoro, abbiamo nettamente separato il lavoratore intellettuale dal lavoratore manuale. La massa degli operai non riceve oggi maggiore istruzione scientifica di quanta ne ricevessero le generazioni passate; ma è stata privata persino dell’istruzione che può dare la piccola officina (…) L’operaio le cui mansioni sono state specializzate dalla divisione permanente del lavoro ha perduto ogni interesse intellettuale nel proprio lavoro, e ciò è avvenuto soprattutto nelle grandi industrie: egli ha perso le sue capacità creative. Una volta creava in continuazione. Ai lavoratori manuali – non agli uomini di scienza né agli esperti di ingegneria – si deve l’invenzione o il perfezionamento dei motori e di tutta quella massa di macchinari che hanno rivoluzionato l’industria negli ultimi 100 anni.

(…) Noi sosteniamo che, nell’interesse della scienza e dell’industria, come anche della società nel suo complesso, ogni essere umano, senza distinzione di nascita, dovrebbe ricevere una istruzione tale da permettergli di unire una profonda preparazione scientifica a una profonda preparazione professionale. Riconosciamo, certo, la necessità di una preparazione specialistica, ma sosteniamo anche che la specializzazione viene dopo l’istruzione generale, e che l’istruzione generale deve comprendere tanto la scienza quanto il mestiere. Alla divisione della società tra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali contrapponiamo l’unione di entrambi i tipi di attività; e, invece che per l’ “insegnamento professionale”, che sottintende il mantenimento dell’attuale divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, siamo per l’ éducation intégrale, o istruzione completa, che comporta la scomparsa di tale nociva distinzione. (…) Lo spreco di tempo è l’aspetto dominante della nostra istruzione attuale. Non solo ci si insegnano un mucchio di cose inutili, ma ciò che inutile non è ci viene insegnato in modo da farci sprecare su di esso quanto più tempo possibile. I nostri attuali metodi di insegnamento risalgono a un tempo in cui le doti richieste a una persona istruita erano estremamente limitate; e sono rimasti inalterati, benché la mole delle nozioni da indirizzare alla mente dello scolaro, dopo che la scienza ha tanto esteso i suoi antichi confini, sia intensamente cresciuta.

(…) In effetti, è quasi impossibile immaginare, senza averlo verificato, quante solide nozioni naturali, quante abitudini alla classificazione, e quanto gusto per le scienze naturali possano essere indirizzati alle menti dei bambini; se l’idea di una serie di corsi concentrici, adeguati alle diverse fasi di sviluppo dell’essere umano, venisse generalmente accolta nell’istruzione, la prima serie su tutte le scienze, eccettuata la sociologia, potrebbe essere insegnata prima dei 10 o dei 12 anni, e dare una visione generale dell’universo, della terra e dei suoi abitanti, e dei principali fenomeni fisici, chimici, zoologici e botanici, lasciando la scoperta delle leggi di tali fenomeni a una serie successiva di studi più approfonditi e specializzati. (…) «Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il vero modo per risparmiare tempo l’insegnamento. (…) Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su semplici rappresentazioni grafiche, invece di fargliele fare direttamente, li costringiamo a sprecare un tempo prezioso; ne impegnamo inutilmente le menti; li abituiamo ai peggiori metodi di apprendimento; uccidiamo sul nascere l’indipendenza del pensiero; e molto raramente riusciamo a dar loro un’idea concreta di quanto insegnamo. Superficialità, ripetizioni a pappagallo, schiavitù e inerzia mentale: ecco i risultati del nostro metodo di insegnamento. Noi non insegniamo i nostri bambini ad apprendere. (…) In realtà, ogni apparecchio che serva ad illustrare le leggi fondamentali della fisica andrebbe costruito dagli stessi ragazzi.

Se lo spreco di tempo è la caratteristica dei nostri metodi di insegnamento scientifico, lo è anche dei metodi usati nell’insegnamento professionale. Sappiamo quanti anni sprechi un ragazzo che fa tirocinio in officina; ma lo stesso rimprovero si può rivolgere maggiormente a quelle scuole professionali che cercano di insegnare, tutto in una volta, un qualche mestiere particolare, invece di ricorrere ai metodi più completi e sicuri dell’insegnamento sistematico.

Ogni macchina, per quanto complicata, la si può ridurre a pochi elementi – piastre, cilindri, dischi, coni, etc. – e a pochi attrezzi: scalpelli, seghe, rulli, martelli, e così via; e, terra quanto complicati siano i suoi movimenti, li si può ricondurre a poche variazioni del moto, come la trasformazione del moto circolare in rettilineo, e simili, con una quantità di fasi intermedie. Allo stesso modo, ogni mestiere può essere scomposto in un certo numero di elementi. In ogni mestiere si deve sapere fare una piastra a facce parallele, un cilindro, un disco, un foro quadrato e uno rotondo; si deve saper maneggiare un numero limitato di attrezzi, dato che tutti gli attrezzi sono semplici modifiche di meno di una dozzina di tipi; e trasformare un tipo di moto in un altro. È questa la base di tutti i mestieri meccanici; sicché la capacità di eseguire in legno questi elementi primari, e di trasformare i vari tipi di moto, andrebbe considerata la vera base dell’ulteriore insegnamento di ogni possibile mestiere meccanico.

(…) Non è sorprendente, in effetti, che la macchina a vapore, anche nei suoi principi fondamentali, la locomotiva, il battello a vapore, il fonografo, la tessitrice, la merlettatrice, il faro, la strada a macadam, la fotografia in nero e a colori, e migliaia di altre cose meno importanti non siano stati inventati da scienziati di professione? Eppure, nessuno di loro avrebbe rifiutato di associare il proprio nome a una qualsiasi di dette invenzioni. Uomini che avevano ricevuto, a scuola, un’istruzione rudimentale, che avevano a malapena raccolto le briciole del sapere dalla tavola dei ricchi, e che effettuarono i propri esperimenti con i mezzi più primitivi: il commesso d’avvocato Smeaton, lo strumentista Watt, il frenatore Stephenson, l’apprendista-gioielliere Fulton, il mulinaio Rennie, il muratore Telford, e centinaia di altri di cui persino il nome rimane sconosciuto, sono stati, come dice giustamente lo Smailes, «i veri creatori della civiltà moderna»; mentre gli scienziati di professione, provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisire preparazione e alla sperimentazione, hanno avuto ben poca parte nell’invenzione di quel formidabile complesso di apparecchi, macchine e motori che hanno permesso all’umanità di utilizzare e di padroneggiare le forze della natura (la chimica rappresenta, in generale, una eccezione alla regola. Non sarà perché il chimico è in gran parte un lavoratore manuale? Inoltre, negli ultimi dieci anni se si è notato un deciso risveglio della creatività scientifica, soprattutto nella fisica: vale a dire, in un campo dove l’ingegnere e l’uomo di scienza hanno modo d’incontrarsi spesso). Il fatto è sorprendente, ma la sua ragione è molto semplice: quegli uomini – i Watt e gli Stephenson – sapevano qualcosa che i savants non sanno: sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente ne stimolava le capacità creative; conoscevano le macchine, coi loro principi fondamentali e il loro funzionamento; avevano respirato l’atmosfera dell’officina e del cantiere edile.

Sappiamo come gli uomini di scienza accoglieranno il rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggi della natura, lasciate che siano gli altri ad applicarle; si tratta semplicemente di dividere il lavoro». Ma una tale risposta sarebbe assolutamente falsa. La marcia del progresso segue la direzione opposta, poiché in 99 casi su 100 l’invenzione meccanica precede la scoperta della legge scientifica. Non è stata la teoria dinamica del calore a precedere la macchina a vapore, ma viceversa.

Quando già migliaia di macchine, da più di mezzo secolo, trasformavano il calore in moto sotto gli occhi di centinaia di professori; quando già migliaia di treni, bloccati da freni potenti, approssimandosi alle stazioni, sprigionavano calore e spandevano sui binari fasci di scintille; e quando già in tutto il mondo civile magli e perforatori andavano rendendo incandescenti le masse di ferro a loro sottoposte, allora, e soltanto allora, Séguin senior in Francia, e il dottor Mayer in Germania si arrischiarono a formulare la teoria meccanica del calore con tutte le sue conseguenze: e tuttavia gli uomini di scienza ignorarono il lavoro di Séguin e quasi spinsero alla pazzia aggrappandosi ostinatamente la loro misterioso fluido calorico. Peggio ancora, definirono “non scientifica” la prima enunciazione di Joule sull’equivalente meccanico del calore.

Non fu la teoria dell’elettricità a darci il telegrafo. Quando il telegrafo venne inventato, tutto ciò che sapevamo sull’elettricità si riduceva a pochi fatti raccolti alla meno peggio nei nostri libri; ancora oggi, la teoria dell’elettricità non è pronta; aspetta sempre suo Newton, nonostante i brillanti tentativi degli ultimi anni. Anche la conoscenza empirica delle leggi delle correnti elettriche si trovava al suo stadio primitivo, quando pochi audaci stesero un cavo in fondo all’oceano Atlantico, malgrado lo scetticismo degli uomini di scienza ufficiali.

Il termine di “scienza applicata” è assolutamente scorretto, poiché, nella grande maggioranza dei casi, le invenzioni, lungi dall’essere un’applicazione della scienza, creano, al contrario, un nuovo ramo di scienza. I ponti americani sono affatto stati un’applicazione della teoria dell’elasticità; la hanno preceduta, e tutto ciò che possiamo dire in favore della scienza è che, in questo particolare settore, teoria e pratica si sono sviluppate in modo parallelo, aiutandosi reciprocamente. Non è stata la teoria degli esplosivi a portare alla scoperta della polvere da sparo; la polvere da sparo la si è usata per secoli prima che l’azione dei gas in un fucile fosse assoggettata ad analisi scientifica.

Naturalmente, abbiamo un certo numero di casi nei quali la scoperta o l’invenzione hanno coinciso con la semplice applicazione di una legge scientifica (per esempio, la scoperta del pianeta Nettuno); ma nell’immensa maggioranza dei casi la scoperta o l’invenzione hanno degli inizi affatto scientifici. Esse rientrano molto di più nel dominio dell’arte – in quanto l’arte prevale sulla scienza, come Helholtz ha così bene dimostrato in una delle sue conferenze popolari – e solo dopo che l’invenzione è stata fatta la scienza interviene a interpretarla. È ovvio che ogni invenzione si avvale delle cognizioni e delle idee accumulate in precedenza; ma nella maggioranza dei casi è in anticipo sulla conoscenza e balza nell’ignoto, aprendo così alla ricerca una serie del tutto nuova di fenomeni. Questo carattere dell’invenzione, che consiste nell’essere in anticipo sulle cognizioni del proprio tempo, e non nell’applicare semplicemente una legge, la rende identica, nei processi intellettuali, alla scoperta; e ne consegue che chi è lento nelle invenzioni è lento anche nelle scoperte.

(…) Da un lato, abbiamo uomini dotati di capacità creative ma privi sia della necessaria preparazione scientifica sia dei mezzi atti a una sperimentazione che duri lunghi anni; e, dall’altro, abbiamo uomini preparati e in grado di sperimentare ma privi di spirito creativo, a causa della loro istruzione troppo astratta, troppo scolastica, troppo libresca, e dell’ambiente in cui vivono (…)

I nostri critici d’arte – Ruskin e la sua scuola – ci hanno ripetuto di recente che è inutile aspettarci un risveglio dell’arte finché il lavoro manuale rimarrà quello che è; e ci hanno dimostrato come l’arte greca e l’arte medioevale fossero figlie del lavoro manuale, come l’uno alimentasse l’altra. Altrettanto si può dire dei rapporti tra il lavoro manuale e la scienza; separarli significa farli decadere entrambi.

(…) La cosiddetta “divisione del lavoro” è nata sotto un sistema che condannava le masse, tutto il giorno e tutta la vita, alla dura fatica dello stesso gravoso genere di lavoro. Ma se consideriamo l’esiguità dei veri produttori di ricchezza della nostra attuale società, e come il loro lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione a Franklin allorché diceva che in genere basterebbe lavorare 5 ore al giorno per assicurare a ciascun membro di una nazione civile tutti gli agi oggi accessibili soltanto ai pochi”.