Oggi e domani, di Luigi Monti

Oggi e domani

di Luigi Monti

dal n. 1 della rivista “Gli Asini”, 2010

Da dove nasce l’idea di una rivista che si occupi di educazione e intervento sociale?

Innanzitutto una precisazione sui termini: per “educazione” non intendiamo qui solo scuola, università o i circuiti tradizionali del sistema formativo, ma tutti i discorsi, gli ambiti e le attività legate alla formazione dei valori e alla trasmissione della cultura. L’insieme dei luoghi, vasto e scivoloso, in cui si forma un’opinione, in cui si creano e trasmettono idee, giudizi e pregiudizi, senso critico e conformismo. E per “sociale” non intendiamo soltanto la marginalità metropolitana, gli esclusi, i deboli, gli “ultimi” e chi si occupa di loro (anche se è innegabile un certo primato nell’interesse per gli “oppressi” e per le cause della loro oppressione, primato che non rinunceremo a esplicitare e a spiegare nelle sue ragioni politiche, culturali e “religiose”). Il termine “sociale” è qui più in generale in riferimento alla società, agli ambiti della vita la cui la cui centralità esige una riappropriazione da parte dell’individuo e intorno a cui tentare di costruire ipotesi di comunità: ci riferiamo all’assetto urbanistico e agli spazi fisici delle città, ai sistemi di protezione e di cura, alla difesa dell’ambiente, all’incontro fra culture, ai modi di curarsi, di nascere, di morire…

Tornando alla domanda iniziale, l’idea di una rivista che si occupi di tutto ciò nasce da un vuoto e da una domanda di senso. La domanda è quella di chi oggi “fa educazione”, di chi tenta di costruire e trasmettere cultura, competenze, senso critico, istanze di giustizia, di libertà e di rivolta, dei gruppi che con il loro intervento educativo, di sostegno e di cura non smettono di interrogarsi su quali potrebbero essere modi alternativi di funzionamento della società. Il vuoto è quello che riguarda spazi di riflessione per il loro operare, strumenti di analisi e modelli di intervento alternativi all’ordine corrente del discorso, visioni trasversali e partecipi, non ingabbiate negli schemi spesso sfibrati e compromessi degli esperti della formazione e della relazione d’aiuto. Luoghi di confronto libero e inquieto dove produrre una cultura pedagogica che abbia la funzione che la critica ha (o ha avuto) nei confronti dell’arte, degli artisti e del loro pubblico: entrare in un dialogo serrato e onesto con chi educa, insegna e opera nel sociale, aiutarlo a comprendere meglio quanto sta facendo, connettendolo al contesto, mostrandogli l’origine da cui derivano la sua cultura, i suoi strumenti di analisi e di intervento, gli effetti che producono, ma anche la realtà storica e sociale in cui si trova operare, le cause reali dell’emarginazione o dell’oppressione, sua e di chi cerca di “educare”.

Un luogo di inchiesta e di riflessione, dunque. Ma anche un laboratorio di azione, di “movimento”, in cui l’analisi e la teoria si mantengano costantemente in rapporto alle pratiche e alle situazioni. Uno spazio intorno a cui provare a coagulare operatori sociali e culturali accomunati da un’idea “forte” di educazione, intesa come fondamentale dimensione di raccordo tra cultura e morale, tra individuo e comunità, intorno a cui attivare e sollecitare uno spazio di riflessione e di scambio tra le esperienze pedagogiche e i modelli di intervento più significativi ed efficaci.

Le note che seguono costituiscono un documento aperto e contradditorio che da un po’ di tempo ci portiamo dietro. Ambigua, confusa e complessa è la mutazione di cui, anche da una prospettiva pedagogica, siamo partecipi. Cercheremo di indagarla (e di trovare voci che ci aiutino a comprenderla) con gli strumenti teorici che una rivista consente, ma anche con quelli pratici che i tempi richiederanno e che sapremo suggerire.

 

Quale scuola?

Da lungo tempo ormai ci troviamo, incapaci di reagire, di fronte al collasso del sogno che la scuola pubblica di stato ha per lungo corso nutrito, da prospettive politiche e ideologiche – idealista, fascista, liberale, socialista, comunista – anche molto diverse.

L’incontro fra il grande sogno politico e pedagogico di quella corrente di pensiero che va da Rousseau a don Milani, passando per Pestalozzi, Tolstoj, Dewey, Montessori, l’attivismo democratico, la cooperazione educativa, il movimento delle “scuole nuove” e i movimenti antiautoritari, fondato sulla convinzione che l’educazione avrebbe contribuito a costruire dal basso quella liberazione dell’individuo e quella giustizia sociale che la politica non era riuscita a imporre dall’alto, l’incontro fra questo sogno, dicevamo, e la scuola di stato, intesa come luogo e istituzione dove quel sogno poteva trovare pieno dispiegamento, ha acceso le speranze, mosso le analisi e animato le azioni di almeno un secolo (dalla metà dell’800 alla metà del ‘900) di attivisti, educatori e legislatori. La fusione fra quel sogno e quella istituzione, fra quel nucleo di idee e quel “mezzo” per realizzarle su scala universale, avrebbe permesso di offrire a ogni uomo una porzione di esistenza e un periodo di apprendistato protetti dalle forze cieche della società e della natura, in cui ognuno, indipendentemente da quello che la società e la natura gli aveva concesso, avrebbe potuto lentamente costruirsi il patrimonio necessario – in termini di conoscenza, competenze, intelligenza e valori – a vivere una vita piena, cosciente, diventando in questo modo un uomo più libero e in forza di ciò, capace di rendere più libera la comunità a cui apparteneva.

Ma i mezzi, si sa, condizionano i fini, e i sogni che non si realizzano degradano la realtà. A saperli e volerli vedere è dagli anni ’70 che abbiamo tutti gli elementi per capire che quel sogno non poteva più essere sognato. Da allora, contraddizioni ormai insolubili all’interno del sistema-scuola si trascinano stancamente offrendo il fianco agli strali, alle ricette e alle micragnose pseudo-riforme di ministri di colore politico diverso, ma tutti uniformemente condizionati da un potere tecnocratico interessato a cambiare quel tanto che basta per non cambiare nulla. Un sistema-scuola che, archiviate ma non risolte le accuse tradizionali (di autoritarismo, classismo, irrilevanza educativa, conformismo…), diviene sempre più spesso fabbrica di patologiche nevrosi, di conflitti latenti sempre sull’orlo dell’esplosione. Un sistema-scuola che confonde e mistifica nodi educativi che al suo interno non possono più essere sciolti, non possono più trovare proposte di soluzione: la vocazione, la selezione e la formazione degli insegnanti, la loro destinazione geografica e il loro rapporto con il territorio; l’organizzazione dei tempi, degli spazi e dei corpi; il rapporto fra educazione, istruzione e didattica; la sperimentazione dei metodi; il rapporto con la diversità, culturale e fisica; il rapporto fra autorità, libertà e autonomia; la ricerca…

La scuola non è ancora morta solo perché i principi in base ai quali vengono eretti poteri e istituzioni potranno già essere scomparsi, ma le istituzioni e il potere stessi non scompaiono se non vi sono costretti. Così quel che è morto, diceva Buber, può dominare ancora per lungo corso su quel che è vivo. Ma la scuola è già morta perché muoiono quotidianamente in essa senso critico ed estetico, morale e desiderio di rivolta. La scuola è morta perché le categorie con cui abbiamo pensato e continuiamo a pensarla sono completamente saltate e i modelli che descrivono la nostra idea di scuola non hanno più un orizzonte sociale che conferisca loro significato. Che servisse gli interessi della chiesa, di uno stato etico, dell’industria, che rafforzasse le divisioni di una società che si voleva divisa in classi o che inculcasse quella passività necessaria a formare giovani consumatori, l’istituzione scuola è stata di volta in volta funzionale a sistemi sociali diversi, quasi mai alla formazione di uomini liberi in società libere. Ma oggi la scuola è morta due volte perché tutti sanno o intuiscono che la partita si gioca ancora intorno ai saperi, ma da altre parti, lontano da quella istituzione. Tutti sanno o intuiscono che la scuola non serve più nemmeno il piano di ingegneria sociale di altri poteri e che i meccanismi in base ai quali sarà determinato il posto che un individuo occuperà nella società, nascono altrove e nella scuola trovano, al massimo, uno strumento di mistificazione e nascondimento. Insomma se la scuola classista a autoritaria era un efficace strumento di determinismo sociale, oggi ha perduto perfino questo ruolo, appaltato, più o meno consapevolmente, ad altre agenzie, ad altri media, ad altri “formatori” più abili e persuasivi. Per questo, il “senso di tradimento” che fino a poco tempo fa i giovani avvertivano una volta terminata la scuola quando scoprivano che il titolo poco li aiutava a scoprire talenti, vocazioni e il proprio posto nel mondo, si è trasformato in un senso di assurdo, che tutti, ragazzi e adulti, portano fin dentro la scuola.

Non tenteremo, sulle pagine di questa rivista, analisi intelligenti e ricche di dati sul cortocircuito che a un certo punto si è manifestato tra la scuola e il progetto democratico che l’ha vista nascere insieme alla civiltà di massa e del benessere, su quali residui culturali e politici del passato si trascina stancamente, su come è stata travolta dal mutamento incapace di rispondergli e tantomeno di guidarlo. Siamo giunti al punto in cui le analisi, i “perché”, le spiegazioni circa il suo stato di salute hanno da tempo terminato il loro giro di valzer, ostinandosi a non cogliere l’origine del male o, al contrario, esaurendo definitivamente le parole per dirlo. Si tratta ora di agire. Ammettere che la scuola è morta e che consuma, in un rapporto di proporzionalità diretta, l’intelligenza di chi vi staziona più tempo non ci sembra una provocazione, ma un presupposto di essenziale buon senso necessario al cambiamento.

Non si vogliono negare gli ideali di emancipazione e liberazione che la scuola pubblica ha creduto di incarnare, né che la scuola rappresenti, in questo contesto di eliminazione coatta delle differenze (dal nostro immaginario e dal territorio nazionale), l’ultimo luogo pubblico in cui sopravvivono ancora piccoli frammenti non mercificati di sapere e spazi reali di incontro con l’altro. Quello che temiamo è che continuare a difenderne l’idea senza osservare quello che dentro si consuma realmente, corrompa le energie migliori necessarie a realizzare pienamente l’ideale che la scuola dichiara di voler perseguire.

Che fare, dunque, per non limitarci a un catastrofismo connivente con la catastrofe che descrive?

– Non smettere di opporsi con tutti i mezzi all’orientamento “pedagogico” e al progetto di controllo che informa decreti e leggi di questo governo, né a tutte le forze politiche che hanno gestito il potere negli ultimi lustri e a coloro che, sulla loro scia, proseguiranno l’opera di smantellamento della scuola come servizio pubblico.

– Chiarire però e comprendere lucidamente da quale punto di vista opporsi. Cambiare la prospettiva e liberarsi della prudenza da cui si esamina il disastro. Ammettendo per prima cosa che questa scuola non è riformabile, che l’atteggiamento e la prospettiva da cui si deve osservarla e a tentare di modificarla, non può più essere quello “riformista”. Si riforma qualcosa che nel suo complesso funziona e che presenta solo piccole necessità di manutenzione. Del modello scolastico, del modo che ha di organizzare la didattica, i corpi, il tempo e lo spazio, di formare e selezionare gli insegnanti, di confezionare e gestire burocraticamente il sapere, non c’è quasi nulla da preservare. Nulla su cui poter far leva per un cambiamento.

– La scuola va secolarizzata e laicizzata. Non tanto dalle confessioni religiose (falso problema se non, oggi, per l’amministrazione, sempre più incivile e xenofoba, della convivenza con chi è di cultura diversa) quanto dalle ritualità da vacca sacra e intoccabile che il mito pseudo-democratico le ha cucito addosso. Se la scuola libera è nata come scuola di stato per la necessità di emancipare l’insegnamento dall’influenza e dall’invadenza della Chiesa, un nuovo e più profondo processo di secolarizzazione che la liberi dall’aura di intoccabilità, ci sembra l’unico presupposto per poter osservare con sguardo libero quello che la scuola è realmente diventata. E per immaginare e sperimentare alternative.

– Concedersi una critica onesta, quando necessario radicale, senza che con ciò significhi negare gli ideali che la scuola ha sempre dichiarato di perseguire. Semplicemente immaginarsi modi e luoghi altri dove poter nuovamente parlare di quegli ideali e dove tentare di realizzarli. Fare scuola diversamente significa anche altrove, in altri momenti della vita, per periodi di diversa durata, con altri interlocutori.

– Accettare che qualunque riforma orientata al modello funzionale di questa società è destinata ad allontanarci da quelli che ci appaiono come i compiti vitali dell’educazione. È impossibile aspettarsi serie proposte di cambiamento da questo sistema sociale, economico e politico, che di una vera scuola (e di individui liberi e intelligenti ) non saprebbe che farsene.

Una contraddizione insanabile separa ormai l’organizzazione e lo spirito della nostra società dai bisogni formativi e vitali di tutti i nuovi venuti. La scuola, se vuole essere coerente con i propri obiettivi e i propri ideali, può solo far esplodere questa contraddizione non tentare di controllarla o soffocarla.

– Occorre invertire l’ordine con cui abbiamo sempre guardato alle tappe del cambiamento e al nostro ruolo in esso. Occorre dare l’esperienza della criticabilità, della trasformabilità e della possibilità di alternative prima di impegnarci in questo mondo così com’è: il senso della scuola e lo scopo di ogni suo cambiamento risultano più chiari a chi immagini e sperimenti serie alternative pedagogiche.

– A un’analisi libera, onesta e radicale, in grado di indicare una direzione di marcia, bisogna affiancare un intervento più concreto. “Impegnarci in questo mondo così com’è”, per quanto riguarda la scuola, significa intraprendere dentro e fuori di essa tutte quelle piccole strategie di basso profilo, (ma di alta tensione), di resistenza e sabotaggio, che consentono piccoli spazi liberati di insegnamento, in cui agire e sperimentare già oggi “come se” la scuola fosse quel luogo che dichiara di essere. Prendere in parola le formule più “alte” dei legislatori, della costituzione o della retorica delle dichiarazioni ufficiali, e boicottare quelle “vere”, meschine e fattuali delle riforme, delle circolari, delle gazzette ufficiali che ne contraddicono apertamente il senso e gli ideali.

– Ripensare l’autonomia non più in termini di concorrenza nel mercato dell’istruzione, ma in modo libertario e “dal basso” dei singoli istituti o meglio delle singole classi.

– Ristabilire il primato dell’insegnamento su quello del controllo e della gestione burocratica della macchina scolastica, ripensare l’istruzione in termini di ricerca e di critica delle epistemologie dei diversi ambiti del sapere, riattivare un confronto e una cooperazione sui metodi al di là dei canali istituzionali della formazione e dell’aggiornamento. Innescare spazi di relazioni e sapere profondi. E stare a vedere che succede…

 

Il disordine del discorso

In un’epoca in cui ogni esperienza, ogni spazio e ogni età della vita è sottoposto a una “formazione” obbligata e strisciante che omologa e determina il nostro immaginario e le nostre scelte, invocare la centralità del discorso educativo rischia di fare il gioco di una “pedagogia” implicita e diffusa che del potere è diventata lo strumento più efficace.

Lavorare a un riposizionamento della pedagogia nel dibattito pubblico, richiamarne il primato, rinnovarne le domande fondanti sono operazioni fondamentali, ma a condizione che si prendano tutte le dovute distanze dall’ordine dominante del discorso: dall’opera di mistificazione dei media, dalla costruzione dell’opinione dell’industria culturale, dai terminali sottocutanei del mercato, dall’assetto urbanistico delle città, dalla manipolazione suadente della comunicazione. Ma anche dal complesso di analisi di chi a quest’ordine avrebbe dovuto opporre una cultura pedagogica di segno opposto e ne è diventato invece, più o meno consciamente, un inconsapevole divulgatore. In particolare:

 

– dalla cultura dell’educazione prodotta dall’università.

Esaurita con gli anni ’70 la parabola che ha visto una parte minoritaria ma viva della ricerca pedagogica nutrirsi del confronto con chi l’educazione la praticava sul campo, e offrire una sponda teorica capace di potenziarne l’azione ponendola in dialogo con il proprio tempo e con le sue necessità di rinnovamento, assistiamo oggi a una frattura radicale e definitiva fra la ricerca teorica e la pratica educativa.

Accanto alla categoria dei tecnocrati dell’educazione, impegnati in una riabilitazione scientista e tecnicistica del sapere pedagogico, se n’é costituita una seconda (stilare l’elenco dei più rappresentativi è relativamente semplice: basta prendere i comitati scientifici delle 5-6 riviste pedagogiche più diffuse e annotare i nomi che ritornano con una frequenza pressoché monopolistica) rappresentata da coloro che, abbandonate le ammuffite querelle accademiche, hanno sollevato lo sguardo verso il mondo, ma allo scopo di cavalcarne le urgenze sociali, economiche ed ecologiche per riciclare il proprio ruolo e non per comprenderle, opporvi resistenza e orientare chi, in quelle urgenze, deve svolgere il proprio quotidiano impegno formativo;

 

– dalla rappresentazione sociale dell’infanzia, del disagio e dell’esclusione sociale.

Il tema dell’infanzia, gli ambiti dell’intervento educativo e sociale rimangono territori decisivi, ma anche e soprattutto sul piano dell’immaginario. Per questo è necessario opporsi, fornendo rappresentazioni diverse, alla costruzione sociale dell’infanzia e dell’emarginazione, contrastare il ricatto del presente anche sul piano dell’immaginario o dei modelli. Perché è su quel piano e a partire da quei modelli che le politiche sociali e quelle per l’infanzia costruiscono la loro cultura, incardinano i loro strumenti, amministrano i loro interventi. Farsi veicolo, sui media, nelle ricerche sociali, nei formulari dei bandi, negli osservatori permanenti, di tematizzazioni mediocri – bullismo, devianza, disagio… – ingabbiando intere generazioni, gruppi culturali o ceti sociali in categorie che sono più utili a chi le conia che a coloro che dovrebbero definire, significa predeterminare attese e risposte, innescare reazioni a catena che confermano diagnosi e accuse, profezie distopiche destinate a realizzarsi in porzioni sempre più significative della società.

Quello che in fondo su questo fronte basterebbe fare, sarebbe recuperare un sano atteggiamento di critica della cultura, smarcandosi dal ricatto secondo cui una tensione autenticamente pedagogica non si concilia con un pensiero radicale. È vero semmai il contrario: ogni progetto educativo, ogni intervento di tipo sociale non sostenuto da una ricerca e da una rivolta, diceva Deligny, puzza troppo rapidamente di acqua benedetta imputridita;

 

– dal carattere fantasmatico delle idee per le quali combattiamo.

Nell’ordine del discorso non bisogna annoverare solo le visioni mistificate indotte dal privilegio e dal potere, ma anche quelle a cui siamo ciecamente affezionati e che non sentiamo il bisogno di rimettere in discussione: cura, bisogno, diritto, educazione, … concetti che nel momento in cui vengono assolutizzati diventano nozioni vuote, filtri che ci impediscono di osservare quello che succede realmente in loro nome, astrazioni isolate che è impossibile mettere in relazione con i fatti che pretendono di descrivere. O peggio – pensiamo ad esempio al concetto di “prevenzione” e al ruolo determinante che ha avuto ne dibattito che ha portato alla riforma psichiatrica – categorie divenute nel tempo funzionali a visioni securitarie, mediocri, discriminanti.

Dopo tutte le “rivoluzioni mancate” del secolo scorso sarebbe tempo di riconoscere che forme di potere e di controllo hanno travalicato vecchi spazi e vecchi strumenti e hanno trovato accoglienza perfino nelle analisi e nelle pratiche che, partite da minoranze convinte, sono state fagocitate dalle istituzioni che le hanno sì fatte proprie, ma così annacquate da servire apertamente fini opposti a quelli che ne avevano ispirato la nascita.

 

Dentro la mutazione

La mutazione è oggi ben di più di quella sofferta metafora pasoliniana che fu capace di svelare in diretta il cambiamento degli assetti culturali italiani a partire dalla metà degli anni ’60. La metafora è diventata piano di realtà. Viviamo dentro le propaggini ultime di quel cambiamento, che oggi non riguarda più solo la struttura sociale ed economica, ma la cultura stessa dell’uomo, probabilmente il suo corpo, sicuramente la sua mente. Modificazioni epocali scorrono sotto i nostri occhi senza che siamo in grado di comprenderne appieno la natura e gli effetti.

In questo scenario la pedagogia accusa un ritardo ancora maggiore di altri campi del sapere, incapace come si è dimostrata in questi ultimi anni di affrontare problemi di vecchia data (legati alla sua identità teorica e al suo rapporto con la società) a cui si sovrappongono questioni radicalmente nuove nei confronti delle quali tutti i discorsi, le parole d’ordine, le polemiche, le risposte degli amministratori di cultura e istruzione, mostrano una sconcertante inattualità.

Non si “educa” in un mondo tranquillo, entro confini controllabili, ma nella confusione, dentro un sistema di corruzione dell’umano e disgregazione della comunità. Sono crollate, e questo è un bene, speranze e illusioni di poter realizzare trasformazioni sociali profonde e su vasta scala orientate a uno sviluppo e a un progresso indefinito. Educare “dentro la mutazione”, significa accettare il crollo definitivo di ogni fideistica speranza nel futuro (economica, religiosa, politica o scientifica) e la conseguente opportunità (ma bisogna coglierla in fretta!) di immaginare nuovi vettori non deterministici che orientino e proiettino l’agire educativo.

La retorica della “crisi educativa”, l’unica voce bolsa e corale che sentiamo da parte di chi pretende di decifrare da una prospettiva pedagogica la mutazione, è uno schema stanco e connivente. La retorica della “crisi” subisce la mutazione (nascondendo quanta parte ha in essa), se ne chiama fuori, elabora analisi funzionali a chi, attraverso di esse, consolida la propria posizione di controllo, trova il suo fondamento nella prospettiva nostalgica e reazionaria di una perdita di potere educativo, fosse esso di matrice religiosa, politica, anagrafica e generazionale. Una nostalgia antropologicamente infondata che non può cogliere il mutamento e le sue ragioni perché reclama una universalità e una immobilità delle funzioni e dei ruoli educativi che non hanno mai caratterizzato la nostra civiltà.

A un’accettazione inerme e inconsapevole della mutazione e alla “retorica della crisi” è necessario opporre una figura nuova di educatore capace di operare dentro al cambiamento, di decifrare il contemporaneo e di cogliere in esso tutto ciò che ancora conserva una possibilità di resistenza all’omologazione e alla disgregazione. È questione di stile più che di ideologia. E si traduce forse nella postura paolina di stare nel mondo senza essere del mondo.

 

La scintilla che eleva l’uomo

A fianco delle contraddizioni storiche, culturali e per così dire “materialistiche” dell’educazione e dell’intervento sociale, e trasversalmente ad esse, un nodo fondamentale avrà spazio, quando troveremo parole giuste per dirlo, fra le pagine di questa rivista: quello che per intenderci e con tutta l’impotenza del nostro linguaggio e delle nostre categorie chiamiamo “educazione al trascendente”.

La possibilità di opporsi al disastro da molti anni ormai non passa più nel discrimine tra destra e sinistra, quanto piuttosto tra chi contempla un’apertura al trascendente e chi invece la rifiuta o le è impossibilitato (ben diverso da quello usurato e ipocrita che oppone laici e credenti).

Destra e sinistra hanno finito per diventare slogan vuoti, diversivi conniventi a un ordine (piuttosto finanziario e tecnocratico) permeabile e trasversale a entrambi, formule di comodo incapaci di riorganizzare una critica radicale della società. Il gioco tra destra e sinistra, diceva Böll in tempi ben più “sospetti” dei nostri, è come una partita a calcio dove le porte siano state ostruite con un assito.

Questo anche in ragione di una sinistra che ha coltivato quasi esclusivamente sacrosanti valori ottocenteschi della giustizia economico-sociale, ma ha ignorato altri campi fondamentali della morale come quello, oggi centrale, del rapporto tra sviluppo e biosfera. E fanno sospettare certi recenti tentativi della sinistra “radicale” di manipolare il proprio patrimonio genetico per inserirvi una sensibilità ecologica che non l’ha mai caratterizzata. Rispetto al nucleo centrale delle questioni legate al bene, al giusto, al vero, l’atteggiamento della sinistra è sempre stato quello di subire i valori della chiesa (per questioni di opportunistico tornaconto elettorale, o per l’influenza di alcuni religiosi illuminati, capaci di influenzare anche la morale civile di alcune minoranze laiche), o al contrario di avanzare una contestazione della morale religiosa solo di tipo utilitaristico ed economicistico.

“Sarebbe tempo d’avvedersi”, scriveva Chiaromonte da una posizione libertaria e non credente, “che un individuo il quale non si riconosca sottomesso a un ordine che lo trascende e trascende con lui ogni altra singola cosa creata, un individuo il quale non riconosca come evidenza prima che più importante (oltre che infinitamente più forte) di lui è il legame fra lui e gli altri – la comunità – mentre più importante di lui medesimo e della comunità è il legame suo e d’ogni singola cosa con l’insieme delle cose – Natura o Cosmo che lo si voglia chiamare – sarebbe tempo, diciamo, di avvedersi che tale individuo è puramente e semplicemente un mostro”.

Non è più rinviabile la necessità di recuperare uno sguardo religioso sul mondo e sull’uomo senza che ciò significhi aderire a qualche confessione, a qualche chiesa, a qualche forma di potere spirituale. Una necessità che ci pone però di fronte a un problema di ordine ineludibilmente pedagogico. Se il riconoscimento del “legame di ogni singola cosa con l’insieme delle cose” è il presupposto fondamentale in base a cui tentar di ricostruire un ordine sociale e culturale non votato all’autodistruzione, se però non basta riconoscere l’evidenza antropologica di questo ordine che ci trascende, ma è necessario ammettere che, sempre che evidenza ci sia, essa è oggi nascosta, schiacciata, mistificata da una secolarizzazione materialistica radicale, come “educare al trascendente”? Come dissotterrare questa evidenza antropologica laddove tutto, poteri secolari e poteri religiosi, convergono per annichilirla?

 

Operatori e professionisti: volenterosi servitori del sistema o granello nell’ingranaggio?

Nell’accezione di “educatori”, sulle pagine di questa rivista, non intenderemo soltanto le professioni legate all’educazione, all’istruzione e alla cura, ma anche quelle indirettamente responsabili della formazione e della trasmissione dei valori e delle opinioni. Non soltanto insegnanti, maestri o educatori professionali, ma anche psicologi, assistenti sociali, logopedisti, infermieri, ostetrici, medici, architetti, urbanisti… Per troppo tempo abbiamo accettato la fine di un dibattito ampio e non specialistico sulla loro etica professionale sulle ragioni del loro agire, delle loro vocazioni, delle motivazioni profonde che spingono a scegliere di dedicare la vita ad attività in cui le scelte personali influenzano scelte e giudizi di altri.

Interiorizzato il definitivo tramonto della visione ottimistica, progressista e deterministica del futuro (fosse essa di matrice scientista, marxista o liberista) che portava a vedere il disagio e la marginalità solo come un problema di “integrazione”, nella prospettiva di un benessere economico e di una maturità sociale che avrebbero progressivamente consentito alla società di allargare le sue maglie fino a raggiungere, col suo abbraccio protettivo e assistenziale, chi ne era stato fino ad allora escluso; abbandonata con incosciente cinismo l’illusione di un’integrazione generale che credevamo di poter estendere a tutti, gli operatori sociali rischiano oggi di trovarsi a servire una nuova è più subdola ideologia dell’emergenza: se quel modello sociale non è più estendibile a tutti, invece che metterne in discussione i presupposti e ripensarne la struttura, tanto vale cristallizzarne l’assetto in una brutale semplificazione che ruota, di nuovo, intorno a ricchezza e povertà. Chi è dentro è dentro e chi è fuori non pretenda di entrarvi.

Senza uno sguardo onesto e lucido sugli effetti che producono le loro pratiche e la loro cultura, senza il recupero della tradizione abbandonata troppo in fretta del “lavoro di comunità”, educatori, assistenti sociali, insegnanti, psicologi, logopedisti rischiano di diventare lo strumento più efficace a cui il potere delega il controllo di una porzione di esclusi sempre maggiore e soffoca i conflitti e le contraddizioni sociali alla base dell’emarginazione e dell’esclusione.

Al celebre convegno di Londra del 1967 sulla Dialettica della liberazione, a cui parteciparono centinaia di giovani e intellettuali eretici riunitisi da mezza Europa e pronti, da lì a un anno, a mobilitarsi nel movimento libertario e contro-culturale, Paul Goodman sentì il bisogno di intessere un inaspettato e probabilmente incompreso “elogio delle professioni”. Se erano le linee di una possibile risposta all’oppressione che si stavano cercando, purezza di spirito, coraggio e generosità, per quanto requisiti indispensabili, non erano sufficienti. Molte delle questioni più urgenti legate al sistema di oppressione necessitano competenze specifiche e professionali. “Quando la società, funziona male”, disse Goodman in quel contesto, “e oggi tutte le società più importanti funzionano male, essere un ‘professionista autentico’, o tentare di esserlo, è un fatto in se stesso rivoluzionario. Esso induce immediatamente in conflitto una istituzione, e poiché esse sono strettamente collegate una all’altra, il conflitto di una si tramuta in contraddizione generale.”

Assistenti sociali, infermieri, educatori, psicologi, semplicemente facendo bene il loro mestiere, si scontrano oggi inevitabilmente con questioni di matrice essenzialmente politica. In questo senso Goodman sosteneva che i professionisti sono oggi di per sé rivoluzionari. A una condizione però: che il loro sguardo non sia monoculare. Gli specialisti della cura, i professionisti dell’assistenza devono rendersi conto che il repertorio di conoscenze e pratiche accumulate dal loro sapere conservano un valore fondamentale, ma da spendere in un contesto d’analisi e di intervento che non deve più essere solo individuale o “di caso” perché l’impasse delle persone che curano e assistono solo in apparenza è “personale”. Devono aiutarci dallo specifico del loro sapere a ricomporre un quadro il cui disegno unitario ancora ci sfugge; a scompaginare le carte in tavola a tutte le visioni semplicistiche, tecniche e “terapeutiche” dei problemi sociali; a mostrare, attraverso le categorie del loro sapere, le innumerevoli possibilità di risposta alle necessità fondamentali dell’essere umano. Nella loro scelta fra un approccio specialistico (più inane, egoistico o orientato solo alle “buone pratiche”) e uno più aperto, intelligente e “politico”, sta il discrimine fra operare per liberare gli individui (e liberarsi con loro) e operare per renderli ancora più schiavi.