Lettera a un porfessore: come contenere l’incontenibile, di Andrea Sola

Il mio amico Claudio, un professore di lungo corso alle prese con una classe particolarmente vivace di un istituto professionale, ma soprattutto con dei colleghi che hanno un rapporto conflittuale con i ragazzi, mi chiede un parere al riguardo alla vigilia di un consiglio di classe in cui dovrà sostenere un confronto che prevede arduo.

Di qui il mio racconto di un episodio occorsomi qualche giorno prima qui a Napoli in cui si riproponeva una situazione analoga.

Questa è la lettera.

Caro Claudio,

l’episodio che mi chiedi di raccontarti è in qualche modo emblematico di un dilemma che ci si trova ad affrontare ogni volta che si è di fronte ad una palese incapacità dei ragazzi di comportarsi secondo le regole della convivenza che vengono normalmente praticate al di fuori della scuola, in contesti dove vige, diciamo così, una forma di rispetto reciproco.

Qual’è la reazione considerata “normale” e legittima che gli adulti praticano di fronte a comportamenti irregolari nella scuola? la punizione. Sembra perfettamente normale punire chi trasgredisce per il semplice motivo che per apprendere le regole (in questo caso di condotta) bisogna ricorre al ricatto: se fai quello che vuoi ne avrai un danno quindi, per il tuo stesso interesse, ti conviene ubbidire. Molto semplice.

Ma c’è un problema nascosto dietro questo assioma: lo vedremo dopo che ti avrò raccontato l’episodio.

Siamo a Napoli, in una scuola -ghetto dove sono concentrati un numero superiore alla media di bambini deprivati e certificati.

Un gruppo di ragazzini (sei su quindici), dopo aver svolto tranquillamente per più di un’ora un’attività espressiva modellando l’argilla con grande divertimento e senza alcuna forma di imposizione, improvvisamente durante un’assenza di qualche minuto degli operatori adulti, defenestrano (letteralmente) tutti i lavori svolti sino a qual momento.

Interrogati su motivo del “raptus” non emerge nessuna ragione specifica, ma semplicemente una improvvisa “furia distruttiva”: come se un piccolo demone si fosse impossessato di alcuni e si sia propagato per contagio anche agli altri.

Come nota informativa tieni presente che il gruppo partecipava da tempo a questo tipo di laboratori, ma con la differenza che nell’anno precedente venivano svolti al di fuori dell’edifico scolastico e senza la presenza delle maestre del mattino, ed episodi del genere non si erano mai verificati anche nei frequenti momenti di assenza degli adulti.

Come dunque affrontare questo nuovo episodio? La maestra “anziana” che non era presente in quella occasione, ha naturalmente sentito il dovere di trovare una punizione per i gruppetto, facilmente identificato in quanto reo confesso: privarlo per tre volte del laboratorio artistico da me condotto. Le sue parole con me sono state: “devi capire che ne va della mia autorità”. Io naturalmente le ho dato ragione ma ho proposto una “pena alternativa”: fai stare me in classe con loro, senza usare l’argilla, e vai tu con gli altri al laboratorio artistico. La proposta è stata accettata di buon grado.

Le due ore passate con i sei “cattivi” sono state bellissime (non facili naturalmente): il numero ridotto di bambini mi ha permesso di fare scoperte fondamentali sul carattere e i problemi di ciascuno di loro che non ero riuscito a cogliere quando il gruppo era numeroso: non sto ad elencarti le patologie, le situazioni familiari che si nascondevano dietro alcuni di loro, o le predilezioni nascoste; insomma una ricchissima realtà sconosciuta o ignorata che aspetta di essere parte di quel mondo scolastico quotidiano in cui i bambini stanno.

I bambini erano palesemente soddisfatti di quelle due ore passate facendo cose diverse, non programmate, non finalizzate a priori.

Io ne sono uscito molto più consapevole di chi avevo di fronte e anche con nuove idee e progetti da coltivare con loro. L’episodio “iconoclasta” non è stato nemmeno affrontato durante l’incontro con loro; ciò che li aveva spinti a distruggere era solo la punta di un iceberg di pulsioni inespresse e normalmente inesprimibili e quindi incontenibili, che stanno li in ogni momento della loro giornata e che aspettano solo l’occasione per manifestarsi. Se non si parte da li, dallo stato interno in cui si trovano, non si può fare nulla con loro, e si è costretti a fare solo cose CONTRO di loro.

Torniamo ora al problema di partenza: la punizione.

Una punizione per qualcosa che ha a che fare con pulsioni nascoste e pure operanti, se vogliamo misurarla con la sua capacità di raggiungere il risultato (l’ubbidienza alle regole)  è priva di senso per la semplice ragione che il ricatto su cui dovrebbe basarsi fa appello a valori che per loro sono appunto privi di valore: attenzione però, non sto parlando di valori morali, ma di contenuti di investimento emotivo.

Solo se si riesce ad intercettare i loro investimenti emotivi si può sperare di influenzarli positivamente: questi bambini son disposti a seguire le regole molto meglio quando si trovano al di fuori di un ambiente chiaramente oppressivo ed artificiale come è per loro la scuola, cioè quando sono in un ambiente “vero” come uno spazio esterno (o anche in qualche modo e in misura molto minore, una lezione “non finalizzata” e senza figure istituzionali come era la mia). Questo significa che per considerare la possibilità di comportarsi rispettando le regole e dare senso ad un comportamento “ordinato” hanno bisogno di sentire che in qualche modo l’ambiente in cui si trovano da loro qualche possibilità di comportarsi con spontaneità, cioè di essere in qualche modo se stessi e non avere quindi la tentazione di buttare tutto all’aria appena non si sentono osservati.

La maestra pensava di fare loro del bene privandoli di quelle due ore di attività artistica che a loro piaceva: non aveva capito che quella loro esplosione incontrollata era un modo primitivo di sentirsi liberi dalle costrizioni e di recuperare quella libertà di cui si sentono privati in un ambiente sorvegliato; ed era da li che avrebbe dovuto partire (e che fortunatamente ha dato a me la possibilità di farlo) per conquistare la loro fiducia.

Questo è il discorsetto che avrebbe dovuto fare loro:

ho capito che avete perso il controllo, sapete da voi che queste sono cose che non si fanno e so che non siete orgogliosi di quello che avete fatto. Pensateci e cercate di avere più cura delle cose che fate voi ed i vostri compagni, perché sono cose importanti. E adesso fate vedere anche a me quanto siete bravi a modellare l’argilla!

 

 

Andrea