A proposito dell’appello di Lorenzoni sull’uso degli strumenti multimediali nella scuola primaria, di Andrea Sola

L’appello di Lorenzoni  e la sua rivendicazione della difesa di un rapporto autentico con il reale è certamente sacrosanto e condivisibile perché mette il dito nella piaga della duplice sopraffazione dell’infanzia da parte del mercato e della sua dilagante dipendenza dalle immagini virtuali. Il problema su cui però vorrei fermare l’attenzione è quello che riguarda le possibili forme di intervento concreto che potremmo avere a disposizione per contrastare questa dilagante barbarie in cui è travolta la relazione educativa.

Credo che la vera battaglia contro questi mali vada affrontata su di un terreno che deve essere più “politico”, nel senso che si dovrebbero cominciare ad individuare delle strategie che cerchino di porre un freno alla tendenza all’omologazione che sta dilagando ad ogni livello nella scuola.

 

Quando si affronta il problema di come intervenire nella scuola si ricade nel presupposto, assolutamente inattuale, di avere a che fare con un corpo insegnante responsabile e padrone del proprio operato, cioè capace di impegnarsi per il raggiungimento di finalità condivise. La realtà è ben diversa: gli insegnanti da tempo sono delle figure professionali appiattite nella routine di un meccanismo perverso in cui i margini soggettivi ed oggettivi di scelta nell’operare si sono ristretti ai minimi termini. Quel bisogno di Lorenzoni di urlare a tutti: “fermiamoci, finché siamo in tempo!”  lo stiamo rivolgendo ad un corpo docente non ricettivo e ormai troppo spesso demotivato, insieme vittima e complice della mancanza di considerazione per la sua capacità di autogestione e quindi di libertà di insegnamento, o dallo stato di perenne precarietà della sua posizione lavorativa.

 

Bisognerebbe innanzitutto difendere il principio che ogni singolo docente può essere portatore di un proprio specifico sapere, di una specifica competenza, una “passione” per intenderci: è questa una grandissima risorsa, potenzialmente a disposizione dell’apparato scolastico, ma attualmente impiegata soltanto in modi del tutto episodici ed estemporanei.

L’uso di nuove tecnologie ne è un esempio: ponendosi questo problema risulta evidente come i pochi insegnati od esperti disponibili e capaci di farne un uso appropriato, cioè rispettoso di una dimensione di crescita dell’autonomia e della consapevolezza dei bambini di fronte al mondo mediatico e virtuale, siano costretti ad operare in condizioni assolutamente marginalizzate e siano fortemente penalizzati dalla rigidità dell’apparato scolastico.

Anche i numerosi gruppi di lavoro che stanno sviluppando proposte innovative e didatticamente creative ed avanzate non hanno modo di operare che in maniera episodica e frammentaria, non essendo prevista alcuna forma di apertura ad accogliere questi contributi da parte dell’istituzione scolastica se non in maniera occasionale e comunque non riconosciuta dalla pratica didattica istituzionale.

 

Proporre soluzioni che possano contribuire positivamente a contrastare questa tendenza all’omologazione dovrebbe secondo me avere come principio guida il criterio della progressiva riduzione delle rigidità strutturali dell’istituzione, cioè l’obiettivo di favorire tutte le occasioni di diversificazione, di libertà di utilizzo di risorse specifiche, di personalizzazione dei percorsi didattici, di rottura degli schemi dirigisti calati dall’alto. Si tratterebbe quindi di fare una battaglia per riscoprire e valorizzare tutte quelle risorse che pure esistono e stanno faticosamente cercando, fuori e dentro l’istituzione scolastica, di ricostruire le basi di un rapporto educativo rispettoso della dignità e della autonomia delle nuove generazioni. Oggi anche in Italia stanno nascendo (o meglio rinascendo) molti percorsi educativi esterni o laterali all’istituzione scolastica che sono mossi dall’esigenza di sperimentazioni diverse ed alternative, e di cui Cenci è una testimonianza viva, che si rifanno ad esempi tanto illustri quanto misconosciuti o dimenticati (solo per citarne alcuni, la scuola di Barbiana, le esperienze di sperimentazione di Lodi e dei i fondatori dell’MCE, la scuola di Summerhill, ma l’elenco sarebbe lungo); credo che si debba iniziare a considerare l’importanza della apertura alle diversità come la vera risorsa per un possibile rinnovamento del sistema scolastico.

E’ per questo che mi sembra che, più che ad appelli a regole “buone per tutti”, od alla ricerca di ancora nuove “indicazioni per il curricolo” dei cui principi da decenni ormai è infarcito fino alla nausea ogni documento scolastico, il problema centrale da porre all’ordine del giorno sia quello del rispetto  e della considerazione della importanza della formazione degli insegnanti e delle pratiche sperimentali che si vanno attuando fuori e dentro l’istituzione.

 

 

Andrea Sola

 

 

 

 

 

 

 

 

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