A SCUOLA SENZA SCUOLA apprendimento libero per imparare sempre, tutto, dappertutto. di Raffaella Cataldo

Possiamo definire l’apprendimento libero come libertà di apprendimento, cioè libertà di imparare come, quando e dove scelgo di farlo. Personalmente ho scoperto l’apprendimento libero attraverso la via dell’unschooling e poi attraverso l’opera di Alexander Neill. Per parlare di apprendimento libero, vorrei ripercorrere con voi queste due tappe della mia esperienza.

Unschooling è un termine coniato da John Holt negli anni ’70 col significato di non scuola o antiscuola. L’unschooling è un movimento contrapposto non soltanto alla scuola ma anche all’homeschooling, molto diffuso negli Stati Uniti già all’epoca come scuola impartita a casa dai genitori ai propri figli. L’unschooling nasce da un’analisi della scuola e dalla presa di consapevolezza che l’istruzione e l’educazione non sono scolarizzazione, non coincidono con la scolarizzazione.

John Holt era un maestro della scuola elementare che, lavorando con i suoi allievi, si convince che un bambino può imparare veramente solo fuori dalla scuola e invita perciò le famiglie a tenere i figli a casa. Non per fare homeschooling, cioè non per riprodurre la scuola, con orari e programmi, entro le mura domestiche, ma per sostenere il bambino in un percorso di libero apprendimento.

Nasce così il movimento dell’unschooling, che Holt definisce così:

Unschooling è dare al bambino libertà nell’imparare, tanta quanta i genitori possono sopportare.

Non a caso, John Holt fu un grande sostenitore della scuola di Summerhill.

Il movimento dell’unschooling rimase sostanzialmente legato alla figura di Holt, e dopo la sua morte si affievolì.

 

Il tema dell’unschooling mi è particolarmente caro perché personalmente ho iniziato la mia esperienza di insegnante come precettore di bambini le cui famiglie avevano scelto l’homeschooling. E tentando di fare scuola partendo dai bambini che avevo di fronte a me e dai loro interessi, dalle loro passioni, e non da qualche teoria pedagogica o da qualche programma predefinito -perché mi stava a cuore che essi potessero conservare la gioia di imparare- mi sono ritrovata a praticare l’unschooling.

 

Perché parlare di unschooling?

Perché è un tema provocatorio, e credo che in ambito educativo valga la pena lasciarsi provocare da punti di vista che escono così tanto dagli schemi ordinari da avere il pregio di mostrarci nuove prospettive. Quindi vi chiedo di lasciarvi provocare, e di riflettere insieme a me su questi temi.

 

Nell’ambito dell’unschoooling, avvengono delle riflessioni argute sulla scolarizzazione: i suoi sostenitori arrivano ad osservare che la scolarizzazione è inutile, non necessaria e addirittura dannosa per l’educazione del bambino.

 

Riflessioni di questo tipo sono state fatte anche da grandissime personalità.

Paul Goodman afferma che l’obbligo scolastico equivale ad un obbligo di diseducazione.

Maria Montessori dice che la scuola è quel luogo in cui gli adulti mettono i bambini e li tengono fino a quando non imparano a non dare fastidio.

 

L’unschooling ci invita a mettere a confronto, magari in maniera un po’ feroce, la scolarizzazione con un apprendimento libero, che mi piace definire “scuola senza scuola”.

Rifletteremo sul concetto di apprendimento come attività che, per essere efficace, ha bisogno di essere libera, dinamica, mossa dall’interesse personale.

 

L’apprendimento avviene solo se stimolato dall’esterno o è un’attività naturale e spontanea del bambino?

Molte volte sembra che quasi nessuno abbia veramente voglia di andare a scuola, per via di un’atmosfera di forzatura. C’è la convinzione che il bambino, rispettato nella sua libertà di scelta, non si metterebbe mai a studiare. Diamo per scontato che uno studente nutra un profondo, naturale odio per lo studio. Di fatto, la scuola è normalmente impostata così: gli insegnanti forzano gli studenti ad imparare qualcosa che questi non vogliono imparare. Si genera un clima di sopravvivenza in cui si imparano le nozioni per passare attraverso la cruna dell’interrogazione o del compito in classe, per poi perdere tutto. Gli insegnanti lo sanno, e si ostinano ugualmente a valutare quel piccolo momento di ritenzione di nozioni come indice di maturità di un allievo e come apprendimento.

Jhon Holt sostiene invece che i bambini sono studenti naturali, predisposti ad imparare. L’apprendimento è un fatto naturale della vita, un percorso spontaneo con proprie leggi che risiedono nel bambino stesso: la chiave sta nel rispettare questo percorso, nel partire dalle domande e dagli interessi del bambino piuttosto che da contenuti precedentemente programmati. In questo modo il bambino impara conservando la gioia di imparare, e il suo apprendimento avrà un motore interno ad animarlo, fatto di curiosità, amore, passione, interesse. Maria Montessori affermava che il bambino è un piccolo scienziato che affronta con passione l’indagine della vita, se solo non viene disturbato dall’adulto.

 

Il fine della scuola è imparare a farsi insegnare o imparare ad imparare?

Capita spesso che a scuola il tempo maggiore sia impiegato per far stare i bambini zitti, fermi e ordinati, seduti al loro posto. Il tempo dedicato al puro apprendimento, a conti fatti, rimane esiguo. Nella scuola è fondamentale imparare delle consuetudini di comportamento e degli atteggiamenti senza i quali pare sia impossibile poter assimilare delle nozioni. Per imparare la matematica è indispensabile prima imparare a star seduti senza disturbare.

Bisogna cioè imparare a farsi insegnare.

Nella concezione del libero apprendimento, l’accento è posto invece sull’imparare ad imparare. Viene sostenuto uno spirito di ricerca nel bambino, il quale ha il diritto di assimilare strumenti che lo rendano autonomo nell’apprendimento. Inoltre ha il diritto di muoversi ed esplorare ambienti e relazioni per conquistare delle abilità effettive.

 

E’ così importante la quantità di nozioni da imparare?

Nella scuola odierna si osserva un grande sovraccarico di dati: i contenuti della programmazione sono sempre più estesi, spesso a scapito di un’autentica comprensione e assimilazione da parte degli allievi. Si genera spesso una vera e propria costipazione di informazioni, una corsa alla conclusione del programma, carichi di compiti a casa che tolgono tempo prezioso all’attività ludica, un’enfasi eccessiva sull’aspetto nozionistico della scuola e l’inevitabile perdita dell’attenzione per il cammino educativo, di crescita interiore, del bambino.

Scrive John Taylor Gatto:

Una volta l’istruzione non era così importante. C’era ma non troppo e solo nella misura in cui qualcuno la desiderasse. Leggere, scrivere e far di conto richiedono solo circa 100 ore per essere trasmesse, se l’uditorio è interessato e vuole imparare. Basta aspettare la giusta domanda e approfittare del momento ricettivo per dare la risposta.

 

Per imparare è fondamentale riconoscere un’autorità che insegna?

La scolarizzazione è fondata su un modello di autorità e obbedienza. L’insegnante è colui che dà il sapere, è colui che comanda all’interno della classe e della scuola, ed è colui che decide tempi, modi, luoghi e contenuti dell’apprendimento. Spesso l’apprendimento viene inteso come imparare a dare le risposte giuste. Ci si dimentica troppo di frequente che il motivo per cui è nata la scuola è rendere libere le persone, fornendo loro gli strumenti fondamentali per esercitare questa libertà: leggere, scrivere e far di conto. Ci si dimentica che il compito della scuola è educare alla libertà. E ci si dimentica con altrettanta facilità che oggi ciò che rende liberi non è più saper leggere e scrivere, bensì saper leggere fra le righe, saper pensare prima di obbedire, saper scegliere prima di decidere, conservare intatto uno spirito di ricerca e saperlo seguire proficuamente, sapersi porre le giuste domande.

 

Per imparare è indispensabile fare tutti la stessa cosa?

Scolarizzazione significa omologazione dell’apprendimento: di regola, si deve imparare tutti la stessa cosa nello stesso momento e con gli stessi tempi. Chi non si ritrova nello schema di apprendimento così impostato, solitamente diventa un problema da risolvere. Spesso molti bambini presentano problemi di apprendimento che sono soltanto dovuti al fatto che le proprie peculiarità cognitive non vengono considerate nel modello omologato della scuola. Sappiamo dalla psicologia  che ciascun individuo è diverso, ed impara con modi, tempi e ritmi originali: se si punta ad un reale apprendimento, non si può non considerare la diversità dei discenti.

Molti autori, fra cui Keefe, Dunn, Grigg, hanno classificato una serie di modelli cognitivi più diffusi:

deduttivo, che impara più facilmente se si muove dal generale verso il particolare

induttivo, che va dal particolare al generale

visivo, che impara principalmente vedendo

uditivo, che impara principalmente ascoltando

cinestesico, che impara principalmente muovendosi

impulsivo

riflessivo

dipendente

indipendente

inoltre esistono persone che si concentrano più facilmente se c’è un rumore di sottofondo e altre che preferiscono il silenzio; ulteriori condizioni importanti sono l’illuminazione, la temperatura, la posizione del corpo, l’assunzione di cibo, i bioritmi personali.

Come si può rispettare lo stile cognitivo di ciascuno, se non riconoscendo ai discenti la libertà di scegliere tempi, modi, luoghi e contenuti del loro apprendimento?

 

E’ proprio vero che senza banchi e senza lavagne non si può imparare?

La scolarizzazione porta con sé la convinzione che tutto ciò che è fuori dalla scuola e che non si trova in un libro non è vero apprendimento. Il bambino finisce per crederci, e così nella sua mente va creandosi questo divario: dentro la scuola mi insegnano per forza (e devo imparare, quindi mi annoio o faccio fatica, comunque non provo piacere) e fuori dalla scuola invece posso fare quello che voglio (che non collego con l’apprendimento perché imparare non mi piace più).

Imparare liberamente fa cadere questo muro che divide scuola e vita. Seguire liberamente i propri percorsi personali di apprendimento fa sì che l’attività di imparare rimanga un’avventura personale, intima e gratificante, che il bambino sperimenta dalla nascita, che ci fa sentire vivi, che appassiona, che è gioco, curiosità, divertimento, brivido dell’ostacolo, fatica, sacrificio, fallimento, successo.

Per dirla con le parole di John Holt:

La libertà di apprendimento è parte della libertà di pensiero, ed è perfino più importante della libertà di parola.

e ancora:

L’apprendimento non è il prodotto dell’insegnamento. L’insegnamento non produce apprendimento. L’istruzione organizzata opera sull’assunto che i bambini possano imparare solo quando, solo quello e solo perché viene loro insegnato. Questo non è vero. E’ chi impara che produce apprendimento, crea apprendimento. La ragione per cui l’abbiamo dimenticato è che l’attività di apprendimento è stata inserita in un programma chiamato istruzione.

 

Si impara solo con la testa?

Nella scuola attuale si assiste ad una tendenza massiccia ad intellettualizzare l’apprendimento. Quando si pensa ad un bambino che impara lo si immagina mentre, seduto, legge, scrive o ascolta ciò che dice l’insegnante: insomma si esercita mentalmente. Il bambino a scuola viene considerato “dal collo in su”, mentre per il bambino è fondamentale fare esperienza di ciò che impara, e quindi muoversi, sentire, agire, toccare, assaggiare, correre, saltare, coinvolgersi con i sentimenti. Un apprendimento in cui tutto questo viene negato, risulterà castrato. Per un bambino che impara liberamente, il luogo privilegiato di apprendimento è tutto se stesso.

 

La scuola è importante per la socializzazione?

Che la scolarizzazione coincida con la socializzazione è un assunto tutto da dimostrare. Molti adulti affermano che il bambino a scuola sta con altri bambini, e lo dicono dando molto valore a questo punto. Ma dobbiamo riflettere sul significato di socializzazione. I sostenitori dell’unschooling evidenziano che non si può imparare a stare veramente con gli altri nell’ambiente artificioso della classe, in cui un bambino sta in contatto esclusivamente con i coetanei. Inoltre, come si può imparare a stare veramente con gli altri se la relazione con l’altro è ordinata e sistematizzata dall’adulto, che dice cosa fare e come socializzare? La vera socializzazione implica delle relazioni libere e spontanee tra bambini, e delle relazioni di gioco, che è la dimensione naturale di espressione del bambino. Per socializzare i bambini avrebbero bisogno di una vita sociale, non della scuola, vita sociale che oggi manca sempre di più nel nostro stile di vita perchè oltre il nucleo della famiglia (ove questa esista) la comunità allargata -in cui identificarsi e imparare modelli di relazione da persone di fasce diverse di età- risulta essere in via di estinzione.

 

 

Una meravigliosa riflessione sulla scolarizzazione ci è offerta da John Taylor Gatto. Ecco un estratto delle sue parole:

 

La mia licenza certifica che sono insegnante di lingua e letteratura inglese, ma non è affatto ciò di cui mi occupo. Non insegno l’inglese, insegno la scuola. La parola insegnare significa cose diverse in luoghi diversi, ma 7 lezioni sono universalmente impartite, da Harlem a Hollywood Hills. Queste costituiscono un curricolo nazionale per cui pagate in più modi di quanti possiate immaginare.

E’ questo che insegno, mi pagano per insegnare questo:

insegno la confusione, perché tutto ciò che insegno è fuori contesto. Insegno la non correlazione di tutto, insegno le sconnessioni, insegno troppo. Un attento esame del programma rivela una mancanza di coerenza.

Insegno la posizione nella classe, perché insegno che gli studenti devono rimanere nella classe a cui appartengono.

Insegno l’indifferenza, a non preoccuparsi troppo per qualcosa. Io pretendo che si coinvolgano completamente nelle mie lezioni, ma quando suona la campanella io insisto perché si fermino e passino alla sessione di lavoro successiva. La lezione della campanella insegna che nessun lavoro vale la pena di esser finito.

Insegno la dipendenza emotiva: con stelle e segni rossi, sorrisi e occhiatacce, premi, onori e disonori, insegno ai ragazzi a rinunciare alla loro volontà in favore della catena di comando prestabilita.

Insegno la dipendenza intellettuale: gli studenti in gamba aspettano che un insegnante dica loro cosa fare. Sono io che decido.

Insegno l’autostima provvisoria: insegno che il rispetto di sé dovrebbe essere subordinato al parere di un esperto. I ragazzi sono costantemente giudicati e votati, non sono educati ad aver fiducia in se stessi e nelle proprie abilità, sono bensì educati a fare affidamento, per autodefinirsi, alla valutazione di funzionari qualificati.

Le lezioni scolastiche impediscono ai bambini di mantenere appuntamenti importanti con se stessi e la propria famiglia, impediscono ai bambini di apprendere le lezioni dell’autovalutazione, della perseveranza, dell’autonomia, del coraggio e della dignità, dell’amore e del servizio agli altri.

 

Nei secoli, la medicina con le sue scoperte, ha via via dimostrato che molti postulati ritenuti fondamentali dai medici, erano di fatto solo vane superstizioni. Allo stesso modo, penso che ad oggi possiamo dichiarare che la convinzione che l’istruzione e l’educazione per realizzarsi debbano passare necessariamente attraverso la scolarizzazione, è pura superstizione.

 

 

Insegnando, ho capito che l’apprendimento ha un carattere di libertà da cui non si può prescindere. Ho capito presto che se il bambino che avevo davanti non sceglieva di imparare, i miei tentativi rimanevano vani, non efficaci.

Da questa comprensione, è iniziata una mia ricerca personale che mi ha condotta ad Alexander Neill.

 

A. S. Neill fondò Summerhill nel 1921, dopo varie esperienze di insegnamento. Molti definiscono Summerhill come un’antiscuola, e in effetti è proprio una scuola senza scuola nel senso che manca del tutto la cornice della scolarizzazione.

A Summerhill, come in molte altre scuole libertarie- o democratiche, come le chiamano gli inglesi- che a Summerhill si ispirano, gli studenti vivono in un clima di autentica libertà. Autentica libertà significa che non c’è obbligo di frequenza a nessuna attività, che tutto ciò che un bambino fa, lo fa perché ha scelto di farlo, e ogni bambino sperimenta che le sue scelte comportano delle responsabilità.

 

Una delle lezioni pedagogiche più belle, a mio avviso, che Alexander Neill ci ha lasciato è la lezione dell’interesse.

Secondo Alexander Neill l’interesse è la forza vitale della personalità, la forza vitale dell’individuo e della sua crescita.

Una persona sana è una persona interessata a ciò che ha intorno, alla vita stessa. Pensiamo al bambino: egli è curioso, traboccante di interesse per tutta la vita che lo circonda e che scorre dentro e fuori di sé.

 

L’interesse, per sua natura, non si può costringere. Possiamo costringere un bambino a guardare la lavagna ma non possiamo costringerlo a pensare a quello che c’è scritto alla lavagna; possiamo costringere uno studente ad ascoltare quello che dico, ma non posso costringerlo a capire.

La motivazione all’apprendimento può nascere solo interiormente, non può essere fornita dall’esterno. Facendo formazione agli studenti nelle scuole, ho spesso ascoltato dirigenti ed insegnanti pregarmi di motivare gli studenti… ma è un compito impossibile, perché la motivazione è una scelta personale.

Il carattere di libertà intrinseco all’interesse, per la scuola è un problema. Per ovviare a questo problema, vengono messe in atto delle strategie di manipolazione dell’interesse: premi e punizioni che si riassumono sostanzialmente nel voto. Ma con quale risultato? L’interesse dello studente in realtà non va alla materia bensì al voto. Imparo per il voto, per il risultato, non perché desidero sapere e conoscere quell’argomento: in questo modo le nozioni vengono generalmente immagazzinate nella memoria a breve termine. E’ infatti l’interesse quella scintilla vitale che apre l’accesso alla memoria a lungo termine, che fa assimilare le nozioni e le fa diventare parte di me.

Insomma, spesso, non rispettando l’interesse ma manipolandolo, si crea una situazione imbarazzante, in cui si fa finta di insegnare e si fa finta di imparare… con il risultato che abbiamo una massa di individui alfabetizzati, scolarizzati, ma sostanzialmente ignoranti.

Riconoscere la libertà di apprendimento e le lezioni facoltative, rende tutto il percorso scolastico più autentico e semplice.

 

Un’altra lezione di Alexander Neill è il legame tra interesse e piacere, interesse e passione.

Secondo Neill il piacere scaturisce dall’occuparci di ciò che ci interessa, ci appassiona.

La forzatura a seguire un programma scolastico completamente estraneo ai propri interessi, schiaccia la vitalità del ragazzo, spegne il piacere nelle sue azioni.

Così, dice Neill, non essendoci più piacere nel quotidiano, il ragazzo finisce per cercare il piacere nell’evasione dal quotidiano.

E’ interessante notare che oggi una delle industrie più sviluppate è quella dell’intrattenimento. Oppure possiamo pensare alla ricerca di piaceri estremi da parte dei giovani.

Secondo Neill, un ragazzo che può studiare seguendo i propri interessi, godrà del piacere che ne deriva, senza bisogno di evadere dalla sua vita quotidiana perché la vive con passione.

Dei giovani di oggi spesso si dice che non hanno interessi: ma non può essere forse che i loro interessi siano stati perduti attraverso il labirinto scolastico di obblighi e curricoli?

La mancanza di interessi, il corrispondente stato di apatia, sono per Neill una condizione di malattia. Neill ha sempre curato i ragazzi che arrivavano a Summerhill in questo stato, lasciandoli liberi di scegliere cosa fare, se e a quali lezioni partecipare. In questo modo dava loro l’opportunità di andare a ripescare interessi assopiti, e di recuperare la loro gioia di vivere.

 

Il recupero dell’interesse è fondamentale, secondo Neill, perché una persona il cui interesse per la vita è rimasto intatto è felice.

E questa felicità non è quello stato transitorio che deriva dal fatto che le cose sono andate come volevamo. E’ il senso di pienezza umana che deriva dal cammino di realizzazione del proprio progetto di vita e di se stessi.

In questo senso Alexander Neill ha affermato che il fine dell’educazione è la felicità.

 

Per concludere, desidero riportare un aneddoto che racconta Maria Montessori.

Quando la sua Casa dei Bambini era ormai avviata a Roma, veniva visitata da numerose signore incuriosite dalle voci che circolavano in città su questa strana scuola in cui i bambini facevano quello che volevano e imparavano lo stesso.

Un giorno venne in visita una ricca signora, ma purtroppo trovò la Casa dei Bambini chiusa perché la Montessori era assente per un viaggio.

La signora, girando per il sobborgo, incontrò i bambini ed espresse la frustrazione per aver trovato la scuola chiusa. I bambini, educati all’autonomia, risposero prontamente che gliel’avrebbero mostrata loro: presero le chiavi, fecero gli onori di casa, tirarono fuori i materiali, e si misero al lavoro spiegando alla loro ospite quanto lei desiderava.

Alla fine la signora chiese, con un po’ di malizia, ad un bambino: “Senti, ma è proprio vero che qui in questa scuola, voi fate tutto quello che volete?”

Il bambino rispose: “No signora, noi non facciamo tutto quello che vogliamo. Noi vogliamo tutto quello che facciamo!”.

 

Libera scelta nell’apprendimento, rispetto degli interessi personali, sostenere la passione per la vita, rispettare la gioia di vivere sono ingredienti essenziali di un’educazione che mira alla piena realizzazione umana.

Auguro a voi studenti, come futuri insegnanti, di non aver mai paura di farvi provocare da pensieri di libertà…. e di non aver paura di educare alla libertà nella libertà.