Asini pensanti. Una nuova rivista. Intervista a Goffredo Fofi

Asini pensanti. Intervista a Goffredo Fofi

Pubblicato il 23 luglio 2010 da Graziano Graziani

A luglio è uscito il primo numero de «Gli Asini», rivista bimestrale di educazione e intervento sociale. Non si tratta di una rivista di settore, ma del tentativo di leggere la crisi che stiamo vivendo in questi anni a partire da uno dei grandi rimossi della nostra società: la pedagogia. Nella terra di Don Milani e di Aldo Capitini il rapporto con le generazioni più giovani è diventato un materiale difficile da maneggiare fuori dalle logiche commerciali, l’educazione una terra di nessuno. Per questo quella de «Gli Asini» si delinea come una scommessa allo stesso tempo sensata e azzardata.


Dietro il progetto c’è Goffredo Fofi con le sue Edizioni dell’Asino. Ma il direttore de «Lo straniero», che nel corso degli anni ha dato vita ad alcune delle riviste di critica culturale e sociale più interessanti del nostro paese, assicura che il suo ruolo sarà esclusivamente di cinghia di trasmissione per dare il là a una redazione prevalentemente sotto i trent’anni. Lo abbiamo incontrato assieme a un gruppo di giovani redattori per farci raccontare questa nuova avventura editoriale, che nasce all’insegna dell’ostinazione, scegliendo di non relazionarsi ai meccanismi della distribuzione di un sistema editoriale in agonia, per contare esclusivamente sulla diffusione militante e su internet, attraverso il sito www.gliasinirivista.org”

Perché partire dall’educazione e dall’intervento sociale?

Ci interessano quegli ambiti di intervento dove si parla poco e si agisce molto. I luoghi dove le teorie e le pratiche vengono immediatamente mescolate. Intervento sociale significa anche intervento artistico e culturale, non per forza assistenziale. Rispetto all’educazione noi la intendiamo in senso letterale: aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé stessi, a rendersi autonomi e non condizionati dal contesto. La parola “formazione” attorno a cui si strutturano le scienze della formazione, dove si formano oggi gli educatori, significa mettere dentro una forma, inquadrare. Noi per educazione intendiamo la rottura di queste forme, lavorare in funzione di una libertà maggiore, per quello che riguarda l’infanzia ma anche per le altre età. Il tema dell’educazione è un tema scottante, perché lì la politica ha fallito in modo macroscopico, in Italia ma credo anche a livello mondiale; perché la democrazia è in fortissima crisi, è diventata la dittatura delle maggioranze manipolate dal potere; perché l’economia è cambiata e sta portando il mondo alla rovina attraverso la finanza, la distruzione della natura, etc… Per quello che riguarda l’Italia, il disastro politico è la conseguenza di un disastro morale, antropologico e culturale. La politica odierna è il risultato di una situazione di abbandono generale che si è verificata negli ultimi trent’anni a livello mondiale, che in Italia ha voluto dire la fine dei movimenti, la sconfitta della sinistra, il recupero della sinistra dentro logiche di destra, perché oggi la sinistra presenta gli stessi linguaggi, gli stessi modelli, lo stesso amore per i soldi, per l’apparenza, per la società dello spettacolo e per i mezzi di comunicazione di massa che erano della cultura di destra.

Come si può reagire a questa situazione? 

Si tratta di ricominciare da piccole cose, anche marginali, ma che pongano temi di carattere più generale. «Gli Asini» cercherà da un lato di approfondire dei discorsi di analisi anche teorica sul presente, che sarà il tema portante della rivista; per quello che riguarda il passato, riproporremo gli scritti importanti di alcuni maestri attraverso i «Quaderni dell’Asino», pubblicazioni monografiche come quella che è appena uscita con gli scritti di Alexander Langer sul pacifismo (ne usciranno a breve altri due, uno con gli scritti di Paul Goodman, l’altro sulla storia del movimento di collaborazione civica a Roma nell’immediato dopoguerra).
Alle teorie si affiancherà il racconto delle esperienze pratiche, allargandoci anche a chi fa intervento sociale a qualunque livello, dall’educazione alla cultura, senza preclusioni né priorità. Questo non vuol dire che parleremo di tutto, perché nell’intervento sociale ci sono anche molte esperienze discutibili: da alcune Ong che in Africa sono lo strumento del nuovo colonialismo a certi gruppuscoli di un’autoreferenzialità micidiale. Cercheremo di raccontare ciò che c’è di buono, le iniziative di quei gruppi che si assumono delle responsabilità nei confronti della collettività, a partire da cose specifiche e concrete, non a chiacchiere.
Cercheremo poi di dare delle letture, dal punto di vista specifico dell’educazione, delle opere cinematografiche, letterarie e teatrali.

A chi è destinata la rivista e la sua lettura della società?

La rivista sarà uno strumento minoritario, ce ne freghiamo di blandire le masse, perché quando si comincia a prendere quella china si va sempre a finire male. Se i lettori arriveranno saranno i ben venuti, ma il nostro problema non è il successo. Siamo minoritari, sappiamo che è una condanna ma anche una forza. Non crediamo di potere essere maggioranza in un paese così sfasciato come l’Italia, ma non ci interessa. Ci difendiamo, semmai, senza nessun disprezzo e cercando di seminare un po’ di inquietudini, di contraddizioni e di voglia di fare le cose per bene. Questa rivista non verrà venduta in libreria: sarà diffusa in modo militante, via internet e attraverso le presentazioni. Serve alla formazione di una minoranza più intelligente, motivata e più seria nelle pratiche.
La rivista sarà poi uno strumento di educazione in sé anche per chi la fa. Nel gruppo che compone la redazione di vecchi ce ne sono pochi, la maggior parte sono persone tra i venti e i trent’anni. Sono persone attive, ma sono anche il prodotto della società italiana più conformista, stupida e priva di conflitti che ci sia stata in Italia negli ultimi secoli. Loro e i loro lettori coetanei sono perciò uno dei fulcri di questa rivista: ci sarà sezione di approfondimento, un dossier sulle tematiche giovanili di vario tipo, affrontate da loro medesimi.
È attorno a loro che la rivista nasce e cresce; quelli che come me appartengono alle generazioni precedenti hanno solo il compito di trasmettere il sapere, di passare dei trucchi del mestiere. Una rivista per giovani e di giovani è una rarità, oggi. Quelle che ci sono in giro sono riviste per teenager fatte dai pubblicitari, servono solo a vendere modelli e prodotti specifici a un target definito. Oggi sono i discografici, gli stilisti, i pubblicitari i veri educatori del popolo. È qualcosa che va tenuto presente.

Hai accennato al problema del linguaggio. Come lo affrontate?

Ci sono tre livelli. Gli editoriali impostano un linguaggio teorico, con addentellati saggistici e politici. C’è il linguaggio dell’informazione sulle esperienze, che è un linguaggio anche vagamente corporativo, perché chi fa l’assistente sociale possiede un lessico specifico del suo mestiere che è diverso da quello del maestro elementare o del professore universitario. Così il volontario in Africa, o chi fa le battaglie per l’acqua, porterà un suo linguaggio specialistico. E poi la parte affidata alla componente giovane della redazione porterà un linguaggio che appartiene a quella generazione.
Questi tre livelli coesistono, sempre cercando il massimo di chiarezza. Dobbiamo seguire l’esempio di Don Milani, spiegare a quelli che non sanno. L’educazione è fatta anche attraverso i linguaggi che si usano, che perciò non saranno linguaggi retorici, non saranno linguaggi ricattatori, né saranno linguaggi ermetici che si rivolgono solo per addetti ai lavori.
In ogni numero, inoltre, ci sarà un inserto o fotografico o di illustrazione, affidato a giovani fumettisti o giovani fotografi. Credo che si importante dare spazio al fumetto e all’illustrazione, c’è è la forma d’arte più creativa che c’è oggi in Italia. La fotografia, invece, vive un momento particolare: oggi i giornali non vogliono più pubblicare reportage fotografici che raccontano la realtà, ma solo servizi studiati a tavolino; la fotografia, così, si è rifugiata nelle gallerie, finendo risucchiata da quelle logiche, finendo per diventare un’arte morta. Eppure oggi c’è un numero impressionante di giovani artisti che stanno riscoprendo questo mezzo espressivo. Noi vorremmo ridare vita a un’idea di foto come sguardo immediato e irriverente sulla realtà, un po’ come succedeva sul Mondo quando c’era Ennio Flaiano a curare le pubblicazioni fotografiche.
A chiudere la rivista c’è una sorta di feuilleton, che per il primo numero è un fumetto, ma che in futuro potrà essere anche un altro linguaggio non per forza legato all’immagine: brevi racconti, piéce teatrali, materiali artistici differenti, per fare in modo che parlino anche essi in modo diretto. Cerchiamo di mescolare un po’ di cose. Sarà l’aspetto più delicato, perché tenere i vecchi e i giovani, chi ha un’esperienza radicata e chi no, tutti questi linguaggi e questi registri sarà una cosa delicata. Noi però ci crediamo molto, perché crediamo in questa circolarità, che è un modo fecondo di mettersi a confronto.

“Pedagogia” è una parola scomparsa da almeno vent’anni dal lessico politico. Perché? 

Questo è uno dei disastri dell’Italia. Da anni non si parla più di maestri, ma solo di fratelli maggiori. Oggi cercare il senso, di fronte a un futuro che è oggi è molto nebuloso e di cui nessuno può dire niente, è complicato. Sicuramente l’orizzonte non è molto promettente, dopo le crisi economiche partite dal disastro di questi trent’anni, dopo l’euforia dell’arricchimento. Questo ha comportato che alcune categorie sparissero completamente dall’orizzonte del dibattito pubblico. Come il mondo operaio. Noi ci occuperemo dei tanti giovani che fanno oggi questo lavoro, mentre la sinistra ha totalmente dimenticato questa condizione, preferisce occuparsi e parlare con il giovane regista che con il giovane operaio. È quasi un paradosso. Non faremo alcun tipo di preclusione, parleremo anche dei giovani seminaristi – tra questi ce n’è uno che collabora con la redazione. Il nostro unico distinguo sarà tra chi fa e chi non fa. Fare contrapposizioni tra credenti e non credenti è oggi un falso problema, perché i problemi sono altrove: per altro oggi i preti sono tra le persone migliori che si occupano di sociale in Italia. Certo, ci sono dei cialtroni anche tra i preti, le maggioranze sono micidiali anche lì. Ma ci sono anche minoranze sensate e serie con le quali è bello lavorare e discutere.

Voi lavorate sulle minoranze come forma di resistenza. Cosa devono fare le minoranze, oggi, per resistere?

Devono diventare più intelligenti. L’intelligenza oggi è un dovere. C’è un grande bisogno di analisi teorica ad alto livello, non la ripetizione delle formulette di Naomi Klein o dell’ecologista in voga. Abbiamo bisogno di un pensiero più profondo, e oggi le riviste non lo propongono. Ad esempio, dove sono gli economisti intelligenti? Sono quasi tutti asserviti alle logiche del potere. Si continua a parlare di sviluppo, il cui declino continua a essere sempre e solo l’automobile. È incredibile che ci sia ancora chi propone di finanziare l’industria dell’automobile con i soldi dello stato quando la Fiat ha combinato dei disastri enormi in questo paese.
C’è bisogno di ricomporre pian piano dei tessuti, che devono mettere in contatto gli operatori culturali, gli educatori, gli artisti e tutte le persone di buona volontà. Ma sempre con uno sguardo critico, e una certa diffidenza verso i cosiddetti “buoni”. È un punto di vista che almeno io ho maturato a partire dalle esperienze delle riviste precedenti che ho diretto, da «La terra vista dalla luna» all’esperienza attuale de «Lo straniero». I denunciatori di professione, gli arraffoni di professione che danno vita a fondazioni per intercettare finanziamenti a destra e a manca; è genìa di persone che si è consolidata in questi ultimi trent’anni, gli anni della grande mutazione. Sono persone che si atteggiano a grandi costruttori e invece sono dei dannosi distruttori. È un modo di fare che ha infettato la sinistra, che oggi ha il vizio di dire “a”, fare “b” e pensare “c”, all’insegna di una profonda ipocrisia. Noi vogliamo dire “a” per fare “a” perché pensiamo “a”; avere un pensiero onesto è l’unico modo per resistere e costruire qualcosa.

[da Carta n. 25/2010]