“I nostri figli hanno dunque ucciso i nostri fratelli”. La lettera di quattro insegnanti francesi sui fatti di Parigi

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Scuola pubblica, bene comune, Vademecum per la resistenza al tempo della Gelmini

http://comitatoscuolapubblica.files.wordpress.com/2011/09/vademecum-retescuole1.pdf

Che Cos’è questo vademecum

È un kit di resistenza che mettiamo a disposizione di quanti non si rassegnano a subire lo sfascio della scuola pubblica; intendiamo per scuola pubblica quella statale, la scuola della Repubblica, ispirata alla Carta Costituzionale.
Il vademecum è uno strumento per la difesa della qualità della scuola, messa a rischio dai continui tagli agli organici ed alle risorse degli Istituti Scolastici.

a Chi si rivolge il vademeCum

Questa pubblicazione può essere utile a tutti coloro che sono direttamente interessati e coinvolti nella scuola pubblica, siano essi singoli individui o gruppi di persone, con o senza cariche o ruoli riconos ciuti dall’Istituzione Scolastica: singoli genitori, singoli docenti, rappresentanti dei genitori, docenti e genitori eletti nei Consigli di Circolo/ Istituto, Comitati Genitori…

qual è lo sCopo del vademeCum

Il vademecum vuole dare gli strumenti per difendere i diritti ed impedire l’illegittimità. Ma per far valere i diritti occorre conoscerli: spesso genitori ed insegnanti si ritrovano in situazioni illegittime o illegali senza rendersene conto.
Questo kit di resistenza vuole far conoscere quali sono le violazioni più frequenti del funzionamento legittimo dell’Istituto Scolastico e proporre idee di azione per denun- ciare situazioni che mettono a rischio la qualità della scuola ed i diritti di chi la vive, oppure per impedire che quelle situazioni si verifichino.

Per fare chiarezza sulle parole che usiamo, quando diciamo “denunciare” non intendia- mo “segnalare all’Autorità Giudiziaria atti delittuosi” (denuncia penale), ma segnalare, riferire all’opinione pubblica.

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Gli insegnanti italiani e la cultura della valutazione, di Renata Puleo

Questo intervento si articola in quattro parti, come commento ad altrettanti documenti.

Vorrei provare a svolgere, attraverso queste letture, una riflessione intorno ad una considerazione che ormai ascoltiamo quotidianamente: gli insegnanti italiani non hanno una cultura della valutazione. Lo dicono commentatori politici, economisti, funzionari del Ministero e dell’Istituto Invalsi.

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“Basta compiti! Non è così che s’impara” un libro di Maurizio Parodi – Una conferenza e una intervista

e una intervista tratta da http://www.giuntiscuola.it/lavitascolastica

Copertina "Basta compiti!"

1. Nella prima parte del suo testo spiega perché i “compiti a casa” sono inutili o addirittura dannosi. Ci può dare un sunto delle sue considerazioni?
È ormai noto che per accrescere le facoltà mentali (di apprendimento), si debba disporre delle nozioni essenziali, bisogna cioè sapere. Ben più rilevanti sono però le modalità di trattamento e uso delle informazioni, e, più in generale, la capacità di gestire la risorsa apprendimento, di mobilitare strategicamente le abilità acquisite e di trasferirle in contesti nuovi e diversi.

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How does the brain learn? – Prof.Dr. Gerald Hüther

https://www.youtube.com/watch?v=-G-jrLljDUk prima parte

https://www.youtube.com/watch?v=kjaDhbHxaEE seconda parte

https://www.youtube.com/watch?v=2_A1o67vqNo terza parte

 

Gerald Huther is head of neurobiological research at a psychiatric clinic in Germany, working to discover more about the effects of fear, stress, addiction and nutrition on the brain.

For Huther the human brain is a densely networked structure that is open-ended in terms of its programmability. Unlike those found in many other forms of life – such as stickleback fish whose complicated mating rituals are genetically predetermined – the human brain at birth is pretty much open-ended in terms of how it can be programmed. You come into the world with a brain whose final wiring is going to be connected up and consolidated in accordance with how you use it.

There is an upside and a downside to this. The bad news is that if you don’t get what you need in the first years of life – if your relationship with your primary caregiver is traumatic, for example – that can “canalize” defective coping strategies that manifest in later life as psychological disturbance and antisocial behavior.

The good news is that given the human brain’s extraordinary plasticity we can change its structure through changing how we use it. We can sharpen our senses by attending more sensitively and precisely to our inner and outer worlds. We can develop a great capacity to empathize with others’ feelings, putting ourselves in their place. And we can come increasingly to know ourselves – aware of what is taking place within ourselves, conscious of who we are and how we came to be like this.

By deciding how and for what purposes we are going to use our brains, we also end up making a decision about what kind of brain we are going to end up with. For here you really do need to “use it or lose it” and the choice not to embark on a path of development but rather to stay as you are might well be the last free choice you make: the more frequently you use the old established neuronal circuits you currently have the more embedded they become.

If you don’t want to become stuck in that way, following the old worn-in ruts, you have to call your experience into question again and again. By following the usual human path of egocentricity – seeing oneself as the center of the world and acting accordingly – one embeds a fixed pattern of repetitive neuronal connectivity. The harder path of self-development, which leads to a more comprehensive, complex and more highly networked brain, consists in developing qualities that go beyond self-centeredness. Sensibleness, uprightness, humility, prudence, truthfulness, reliability, empathy, and courtesy; qualities such these cannot be developed in isolation. They come as part of a matrix of social feelings that involve connectedness and solidarity that transcend our usual self-centeredness. In the end, says Huther, a person who wishes to use his or her brain in the most comprehensive manner must also learn to love.

Huther sets his arguments out clearly and precisely. The book is styled as a kind of “user’s manual” for the human brain, with section headings such as “Removing the Packing and Protective Materials,” “Options for Assembly and Possible Applications,” “Advice About Installations Already in Place,” “Repairing Failed Installations,” “Maintenance and Servicing,” and so on. I wonder at the wisdom of this choice, for like a user’s manual the book often comes across as drier and less poetic than its title would otherwise suggest. For those who keep going at it, this book has considerable wisdom to offer alongside its hard science. Many readers, though, will wish there were a few more oases of imagery and poetry along the way.

ALCUNE MOSSE A COSTO ZERO PER FAR PARTIRE SUBITO LA BUONA SCUOLA, di Daniele Novara

Lettera aperta al Presidente del Consiglio

Caro Presidente Matteo Renzi,
aver messo in agenda, con il dovuto rilievo, la necessità di una buona scuola è un passo importante per in- vertire la tendenza governativa de- gli ultimi anni volta a mortificare, senza alcun imbarazzo, la qualità del sistema scolastico italiano.

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LETTERA APERTA ALLA NOSTRA CITTÀ; gli autori sono 16 giovani italiani stranieri di Varese.

Namasté

 Progetto volto a rafforzare a livello sistemico i processi di integrazione di adolescenti di origine straniera a Varese, attraverso una strategia multilivello che coinvolge sia le famiglie immigrate sia i contesti istituzionali, agendo sul sistema scolastico, famigliare e sull’ambito aggregativo. Realizzato con il contributo del Ministero dell’Interno e del Fondo Europeo per l’Integrazione dei Cittadini dei Paesi Terzi 2008-2013.

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“La congiura contro i giovani”, di Stefano Laffi. Un intervento dell’autore e le recensioni

Guarda il video di presentazione di Stefano Laffi

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un intervento di Stefano Laffi

Pubblichiamo di seguito un intervento di Stefano Laffi, autore e ricercatore sociale presso l’Agenzia Codicidi Milano, uscito sull’ultimo numero della rivista Gli Asini (quest’anno insignita del premio Lo Straniero nella sezione riviste). Laffi fa una riflessione sul ruolo che hanno avuto i giovani nella vita politica e sociale degli ultimi mesi, sulle azioni, di cui si sono effettivamente resi protagonisti, nel tentativo di cambiare una realtà e una democrazia che non garantisce loro alcuna prospettiva e alcun futuro.

di Stefano Laffi

Dall’altra sponda del Mediterraneo sono scesi in piazza e hanno sovvertito regimi, con una rapidità e un’assenza di violenza mai immaginata e prevista dai nostri osservatori adulti ed esperti, da chi guardava quei paesi con la supponenza di vivere in democrazia, quindi in teoria più libero e più rappresentato da chi lo governa. In Spagna hanno invaso le strade per gridare lo scandalo di aver vent’anni e nulla in mano e nessuna prospettiva dopo, per nulla rappresentati dalla propria democrazia, occupata da una classe politica indifferente alle loro sorti. Da noi non va meglio, Gli asini è una rivista nata anche per questo, rendere giustizia nella riflessione e nella proposta di cambiamento di una realtà che non dà ai giovani le opportunità che meritano. Non va meglio perché il regime di esclusione, repressione e manipolazione della voce dei giovani è più pesante di quanto non si creda. Chiamati in causa solo per la retorica politica della fuga dei cervelli o per quella commerciale dei talent show, sono invece inascoltati o pesantemente zittiti quando chiedono semplicemente una scuola e un’università non depauperate, una cultura libera, un mondo del lavoro che si accorga che qualcuno deve ancora entrarci.
Sono fin troppo bravi i ragazzi. Di botte ne avevano già prese a dicembre, quando avevano provato – inventandosi modi nuovi e non violenti di manifestare – a dire la propria opinione sulla riforma Gelmini in via di approvazione. Ma come può essere che l’università fa i questionari di gradimento agli studenti di ogni singolo corso per misurarne la soddisfazione, mentre la loro voce di dissenso è ignorata quando il ministro cambia tutta l’università? Non ci si sente presi in giro?
Ma questo è un paese dove se per strada a vent’anni dici con tono di voce normale “fai ridere” a un candidato politico ti avvicinano due poliziotti in borghese per identificarti come fossi un criminale (a Milano, youtube per vedere). Così è capitato che alle due ultime “customer satisfaction” della nostra democrazia rappresentativa – le elezioni amministrative e i referendum – i giovani (che vengono interpellati solo per rispondere a questionari) si siano fatti di nuovo sentire. Perché il loro voto è stato determinante a cambiare le cose, laddove sono cambiate, perché loro come e più di chi appartiene ad altre fasce di età hanno voluto che le città avessero nuovi sindaci, l’acqua fosse un bene pubblico e il nucleare non fosse l’ennesimo nuova ombra sul loro futuro. Mentre nel mondo tutto diventa colore, digitale e touch screen e i giovani crescono in questa nuova cultura materiale, la nostra stanca democrazia ha messo in scena il rito del voto, con fogli giganteschi di pessima carta e matite copiative, ormai anche quelle made in china. E i giovani ci sono stati, hanno messo da parte per un attimo i loro display, le loro tastiere, i loro spray, i loro microfoni, i loro cursori sui mixer perché hanno capito che a questo giro servivano le nostre matite copiative, per dire basta. Ma prima di venire ai seggi e ossequiare il voto – nessuno come un ventenne è tanto serio, scrupoloso, preciso con le schede e le urne, parola di presidente di seggio – le tastiere e i microfoni li hanno usati abbondantemente: mai come in queste elezioni la loro musica è stata così schierata, così capace di parlare, di regalare il piacere di cambiare, e mai come in queste elezioni le tecnologie hanno mostrato il loro volto migliore, far da passaparola per organizzare mobilitazioni, per irridere la tribuna politica quando questa si faceva ridicola e per strada non potevi parlare, per dare accesso ai contenuti politici laddove la vecchia televisione si censurava da sola. Le tecnologie di oggi, che la destra proprio non ha capito, sono amate dai ragazzi perché sono l’unico luogo in cui la storia è sceneggiata da loro, è commentata o trasformata dalle loro parole e dalle loro immagini, quasi una vendetta contro la realtà delle istituzioni e della vita pubblica, in ostaggio degli adulti, dei vecchi, dei potenti.
Quella realtà, quelle istituzioni e quella vita pubblica sono state negli ultimi anni davvero misere, patetiche, umilianti. Se scorressimo in rapida successione le prime pagine dei giornali di questi anni ci renderemmo conto di quello che a dosi giornaliere omeopatiche forse si sente di meno, la pena di doversi specchiare in un paese governato per interessi personali, da persone senza dignità. Quando in questi anni la politica ha provato a coinvolgere i giovani nel massimo slancio di generosità ha parlato di partecipazione, ha creato i consigli comunali dei ragazzi, i forum giovanili, le quote under 30 o 40 di alcune posizioni. La sensazione è che poco sia cambiato, che non basti e che alcuni di quegli inviti a partecipare fossero cooptazioni, modi per inibire la formazione di dissenso. Oggi abbiamo capito che i giovani non vogliono partecipare di più, vogliono proprio cambiare. E che noi abbiamo bisogno di loro come non mai, se questo paese non ci piace.

Recensione de “Redattore sociale”

Giovani senza valori e senza futuro? No, sono solo l’alibi di adulti in crisi

Il mondo dei grandi da una parte si dice preoccupato, dall’altra isola i ragazzi e ne frustra creatività e voglia di rischiare. In “La congiura contro i giovani”, Stefano Laffi capovolge la tradizionale lettura colpevolizzante del disagio giovanile e denuncia le cause che l’hanno prodotto

29 gennaio 2014

MILANO – I giovani senza lavoro, i giovani senza ambizioni, i giovani senza valori, i giovani senza futuro. Sono davvero così le giovani generazioni? Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto in culture giovanili, pensa di no e con “La congiura contro i giovani” da pochi giorni in libreria per Feltrinelli intende spostare il fuoco dell’analisi da come sono e come stanno i giovani a come sono e come stanno gli adulti, riflettendo sul mondo che hanno creato per i loro figli.

Da tempo, sostiene Laffi, è in corso un attacco feroce nei confronti dei giovani, che però nasconde ipocrisia e umiliazione nei loro confronti. Da una parte, gli adulti si dicono preoccupati per i giovani che non hanno futuro nel lavoro, nella società e che non possono avere speranze di rendersi autonomi al fine di trovare una propria strada; dall’altra li si isola, li si protegge, per confinarli fuori dall’universo del lavoro, senza nessuna concessione, frustrandone creatività e voglia di rischiare con l’indifferenza e la solitudine.
I giovani – secondo l’autore – sono l’alibi di adulti in crisi, disorientati di fronte alla perdita di controllo del mondo circostante, increduli agli affetti di una società sempre più “consumista”. Del resto, già in un suo testo precedente “Il furto: mercificazione dell’età giovanile” (Edizioni L’ancora, 2000) Laffi incentrava la sua riflessione su una società che per i suoi giovani aveva deciso un unico destino: quello di consumare. “Il loro tempo – scriveva – è stato letteralmente svenduto per consentire al mercato di smaltire un’iperproduzione di beni e servizi che le altre generazioni non hanno più il tempo (gli adulti) o l’abitudine (gli anziani) di acquistare. E’ in questo contesto che vediamo i giovani sempre più “parcheggiati” in infiniti anni di studi, chiusi nelle classi, con difficoltà a elaborare un progetto di lavoro o di famiglia, e ai quali non resta che la simulazione della vita: si naviga senza viaggiare, si gioca a pallone con un computer, si dialoga senza mai incontrarsi e intanto si brucia l’età che avrebbe una missione precisa: la scoperta della propria identità e del proprio talento”.
Scorrendo le pagine di questa ultima pubblicazione, è piuttosto evidente la responsabilità della profonda crisi dei giovani che l’autore assegna agli adulti. “Tutto lo spazio che li circonda è saturo, è impermeabile ad esigenze di gioco ed espressività, è popolato e normato da adulti che non cedono il passo alle nuove generazioni.” Le città stesse – prosegue Laffi – non li prevedono, parlano a bambini e ragazzi solo in termini di divieti e regole, il paradosso è che solo le affissioni pubblicitarie li evocano per sedurli ancora una volta”. I bambini e i ragazzi non sono ammessi in nessuna discussione, in nessuna decisione pubblica sono coinvolti. L’adulto non vuole cedere nessuna posizione. Ecco dunque di chi è la responsabilità e di chi non accetta di cambiare. “Eppure questa è un’epoca di cambiamenti – tutto sta mutando, come leggiamo, come scriviamo, come nasce un’amicizia e un amore, come studiamo e come viaggiamo – di cui gli interpreti migliori sono proprio quelli che si vorrebbero escludere”.
Sull’immobilismo delle generazioni adulte verte la critica più forte dell’autore: a cominciare da quando un bambino viene messo alla luce, sommerso sin da subito da attese e norme di riferimento che non hanno confronti, ai progressi evolutivi che non sono altro che orgoglio per i genitori, e poi performance scolastiche o di desideri indotti dal mercato fin dai primi anni di vita. Sono così addestrati a rispondere a delle norme che sono altro da sé. Per continuare verso il periodo dell’adolescenza, che è sempre visto come periodo problematico, a rischio, trasgressivo, e la sua fame di esperienza vista con sospetto oppure inibita al contrario dei loro corpi, rubati dal mercato, per farne uso di consumo.
Infine, si arriva al periodo dell’“umiliazione” dei giovani, nei colloqui di lavoro, nella considerazione di cosa hanno studiato, nella gratuità di tutto quello che dovrebbero fare, nelle mansioni loro affidate, negli abusi di potere che devono subire.
Dalla critica a questo immobilismo di fondo, a questa società sterile, Laffi approda verso quella che ritiene l’unica soluzione possibile: “è necessario che gli adulti incomincino ad imparare dai più giovani, incomincino a dialogare con loro, incomincino ad ascoltarli e ad affidarsi a loro per scoprire e sperimentare. Del resto anche nel volontariato è normale che un ragazzo insegni a un cinquantenne appena arrivato.”
Non si tratta pertanto di inventarsi i problemi – incalza Laffi – “le città sono piene di luoghi e persone di cui prendersi cura insieme, anche fra generazioni diverse, sono i giovani a chiederlo, perché si formi l’abitudine a collaborare insieme, nello spazio pubblico, per sentirsi vicini un po’ complici, per vivere finalmente insieme l’emozione di presenti alternativi possibili, contro la retorica della crisi, dell’impotenza del sistema. E si deve essere capaci di riabilitare lo scambio emotivo, la condivisione di idee, la confidenza di debolezze e paure, per trasmettere ai più giovani la certezza di sentirsi parti di uno stesso destino”. (sp)

recensione de “La Repubblica”

Basta con “La congiura contro i giovani”, una ricetta anti-crisi

Stefano Laffi, ricercatore esperto in culture giovanili, invita gli adulti ad accettare il cambiamento, a farla finita con l’attacco e l’esclusione di quella fetta della società che sola potrebbe salvare la società

Di giovani si parla e si sparla molto. Ma poco o nulla si fa per loro. Adulti e istituzioni dichiarano di ritenerli centrali per il futuro, eppure non viene loro riconosciuto né l’effettivo diritto di parola, né la piena cittadinanza. E sono proprio coloro che denunciano e lamentano la situazione giovanile che, rifiutando ogni cambiamento del loro modo di pensare e di comportarsi, si limitano a difendere le loro rendite di posizione, senza lasciare il passo alle nuove generazioni. Ma, poiché tutto sta velocemente mutando, non è possibile, (pena il collasso del sistema), escludere dalla realtà proprio coloro che della rapida trasformazione in atto dovrebbero essere i protagonisti, per età e per logica. Il monito emerge dall’ultimo libro di Stefano Laffi, ricercatore sociale ed esperto in culture giovanili, consumi e dipendenze che in La congiura contro i giovani, in libreria per Feltrinelli, invita gli adulti a uscire al più presto dalla crisi e ad accettare il cambiamento. 

Da tempo, sostiene Laffi, è in corso un attacco nei confronti dei giovani, mascherato con l’ipocrisia e camuffato da riflessione, cura, sensibilità educativa e che invece è soltanto mercificazione, umiliazione, patologizzazione. In sostanza, da una parte gli adulti si dicono preoccupati per i giovani che non hanno futuro nel lavoro, nella società, e che non possono avere speranze di rendersi autonomi e trovare una loro strada; dall’altra li si isola, li si iperprotegge, ma per confinarli fuori dall’universo del lavoro, senza nulla concedere, frustrandone creatività e voglia di rischiare con l’indifferenza e la solitudine.

Ed è tutta la nostra società che, pro giovani nell’immaginario e nelle affermazioni, si rivela invece gerontocratica nei fatti. A loro dedichiamo parole “corrotte” e definizioni, ma li usiamo come alibi degli adulti in crisi d’identità che stanno perdendo il controllo del mondo che conoscono e non si rassegnano a cedere il passo. Una via d’uscita, urgente e necessaria però c’è, suggerisce Laffi, ed è praticabile a patto che si accetti di cambiare a trecentosessanta gradi il modo di comportarsi e di pensare e che le istituzioni escano dall’immobilismo, per operare, finalmente, in favore delle nuove generazioni. Per farcela è necessario  trasformare insieme, adulti e giovani, la società e affidarci a loro per scoprire e sperimentare.

Giovani in crisi, di chi sono le responsabilità?

“Quando si parla di “giovani in crisi” credo sia importante intendere non un presunto collasso di motivazione e di fiducia dei ragazzi rispetto alle sfide che li attendono, ma la mancanza di opportunità e di possibilità, che si manifesta nel non trovare esperienze, lavoro, soldi, casa, ma più in generale nel non aver voce, non poter incidere in nulla della realtà che li circonda. La crisi è di cittadinanza, è il non aver diritti davvero esigibili, è crescere sapendo di non poter incidere sul proprio mondo. Tutto lo spazio che li circonda è saturo, è impermeabile ad esigenze di gioco ed espressività, è popolato e normato da adulti, non ha vuoti nei quali agire: le città non li prevedono, parlano a bambini e ragazzi solo in termini di divieti e regole, il paradosso è che solo le affissioni pubblicitarie li evocano per sedurli, tocca entrare in un bar per esistere, ma come consumatori, o in consultorio adolescenti, come utenti. L’esilio di bambini, ragazzi e giovani dall’arena delle discussioni, delle decisioni e delle azioni pubbliche parla in ultima analisi della “crisi degli adulti”, ecco di chi sono le responsabilità: non si vuole più cambiare e non si vogliono cedere le rendite di posizione, ci si illude di poter fare come ieri perché è l’unico modo che si conosce, se non è la paura a guidare gli adulti quando sentono la loro inadeguatezza agli strumenti di oggi. Il fatto è che questa sarà comunque un’epoca di cambiamenti – tutto sta mutando, come leggiamo e scriviamo, come nasce un’amicizia e un amore, come studiamo e come viaggiamo – di cui gli interpreti migliori sono proprio quelli che si vorrebbe escludere”.

Quali sono le cause che hanno portato i giovani alla situazione di oggi?
“Non credo ci sia un muro alla fine di una corsa sfrenata, non penso che non trovar lavoro o credito in banca sia per un ragazzo una bruciante sorpresa, perché c’è nato e cresciuto nella mancanza di riconoscimento. Ci sono generazioni adulte che non vogliono cedere potere e privilegi e si nutrono di questo immobilismo, per questo nel libro parto dalla nascita, mostrando un meticoloso processo di annichilimento del potenziale di cambiamento che i più giovani avrebbero. Pensiamo alla “normalizzazione” dell’infanzia, a come sin dalla nascita si sia circondati da attese e norme di riferimento, fatte prima di parametri medico-clinici, e poi di progressi evolutivi per inorgoglire i genitori, e poi di performance scolastiche o di desideri indotti dal mercato fin dai due anni di vita. Così addestrati a rispondere alla norma e ad altro da sé, si potrà mai credere nel proprio contributo? È un esempio banale, ma se la scuola usa solo “domande illegittime” (ovvero quelle in cui chi domanda conosce la risposta e chi risponde sa di dover indovinare quella giusta) potranno mai i ragazzi pensarsi ed esercitarsi come portatori di pensiero originale? Più tardi comincia invece la “patologizzazione” dell’adolescenza, che è sempre pensata come problematica, a rischio, trasgressiva, e la sua fame di esperienze e prove viene vista con sospetto, se non inibita letteralmente, al contrario dei loro corpi, rubati dal mercato, per farne oggetto di consumo. Si arriva così all’ultimo atto, “l’umiliazione” dei giovani, nei colloqui di lavoro, nella considerazione di quello che hanno studiato, nella gratuità di tutto quello che dovrebbero fare, nelle mansioni loro affidate, negli abusi di potere che devono subire. Cinismo, disincanto, ritiro sociale, spaesamento, tristezza: possiamo davvero sorprenderci se compaiono a 15 o 20 anni, cioè alla fine di questa carriera?”

C’è una via d’uscita?

“Non solo c’è ma è obbligatoria, è urgente, e la buona notizia è che libera tutti. Certo, dobbiamo accettare una condizione, quella di esser disposti al cambiamento. Ma partiamo dalla constatazione che la maggior parte delle nostre istituzioni non funzionano, sono in affanno, disorientate: vale per le famiglie, dove i genitori si separano e non sanno come star dietro ai figli, vale per le aziende che sono in crisi, vale per l’istruzione e la formazione che non sanno quali competenze formare e sono superate dagli allievi rispetto al digitale, vale per la politica al minimo storico di fiducia… A furia di escludere i più giovani da tutte le istituzioni ci troviamo oggi intrappolati in routine quotidiane che non funzionano, sono lente, burocratiche, irreali nei tempi e nelle richieste. Bene, in ogni epoca di cambiamento si sa che avviene un ribaltamento dei saperi, la tradizione perde la forza di guida, sono i più giovani i nostri pionieri, saranno loro a guidarci. Certo, senza un’esperienza di riconoscimento sociale sin dall’infanzia non sarà facile ribaltare i ruoli, ma loro nell’incertezza ci sono nati e usano le strategie cognitive più adatte, che dobbiamo imparare da loro: muoversi per tentativi senza certezza sulle mete, valorizzare gli errori perché ricchi di informazioni, moltiplicare i campi di esperienza perché utili a misurare le nostre capacità, scambiarsi saperi e scoperte in modo orizzontale perché non serve chiuderli a chiave, prendere e partire, muoversi insieme per sostenersi e favorire l’apprendimento, superare i confini disciplinari perché la realtà è una e non segmentata… La via di uscita è questa, cambiare insieme questa società e affidarci a loro per scoprire e sperimentare. In alcune aziende c’è già il reverse mentoring e in fondo nel volontariato è normale che un ragazzo insegni a un cinquantenne appena arrivato. Forse ci siamo dimenticati che le più grandi invenzioni del ‘900 sono state fatte da scienziati che avevano fra i 20 e i 30 anni”.

Stefano Laffi
La congiura contro i giovani
Feltrinelli
Pag.174, euro 14.

“Elementare” un documentario di Franco Lorenzoni, presentato a Roma. una recensione di Marzia Coronati

Elementare

21OTT

Stamattina sono andata a vedere la prima di un film di un maestro e dei suoi venti studenti. Il maestro si chiama Franco Lorenzoni e la scuola è quella di Giove, in Umbria, più volte oggetto delle mie digressioni radiofoniche sull’educazione.
Il film è stato proiettato nella sala cinema del Maxxi, a Roma, nella cornice patinata del Festival del Cinema. La sala ospitava duecento posti ma in molti sono rimasti fuori, la qual cosa sorprende per un appuntamento così lontano dalla mondanità della rassegna.
Il maestro Lorenzoni, dicevo, lo conoscevo già. I suoi alunni però non li avevo mai conosciuti. O meglio, li avevo incontrati indirettamente nei libri e nelle storie del maestro, in aneddoti e pensieri sparsi. Sgorgavano sempre tra le sue parole. Vederli lì mi ha emozionato, hanno partecipato in silenzio, nelle prime file, e a fine proiezione si sono sistemati in riga sotto lo schermo a spiegare e commentare. Così, come fosse la cosa più elementare da fare.
Elementare è anche il titolo di questo documentario, appunti di un percorso educativo è il sottotitolo che lo colloca nel suo giusto spazio. Non è un film sulla scuola, nè un vademecum per gli insegnanti, nè un documentario di denuncia. E’ un collage di frammenti di registrazioni fatte nel corso delle attività scolastiche e durate cinque anni, dalla prima alla quinta. Nelle ultime scene si riconoscono i volti quasi adolescenti di quelli che all’inizio sono solo bambini.
I protagonisti di questo film sono ragazzi che sicuramente meglio della maggior parte degli spettatori, me compresa chiaramente, sanno camminare in un bosco o riconscere le orme degli animali. Persone autodeterminate, sicure, serene.
A me questo film ha emozionato, mi ha commosso come un vecchio filmino di famiglia. Intimo, autentico e artigianale. Sin dalle prime scene mi sono convinta che ogni bambino dovrebbe avere la possibilità di vivere la realtà della piccola scuola di Giove: stare seduto per terra, dare il proprio giudizio su un fatto accaduto, cercare i fossili infilando le mani nel fango. Esperienze elementari, appunto.
Ho pianto per la meraviglia dei ragazzi di fronte alla scoperta del fuoco, attizzato dal solo attrito dei legni; per l’intuizione della prospettiva osservando un ritratto di Raffaello; per la mucca, il maialino, lo sciatore, il pescatore, la sorella, i colori e le gomme che Simone vede guardando dritto nell’iride del suo compagno.
Questo film non è teatro, ma si nutre delle innate capacità teatrali che i bambini ancora riescono a conservare.

Venticinque idee per una scuola diversa, di Paolo Mottana

Della scuola si sente parlare tanto genericamente e poco specificamente. Tutti si fanno belli di slogan tipo investire sulla scuola e sulla ricerca ma omettono singolarmente di aggiungere per quale ricerca e quale scuola. Purtroppo si sa, quasi tutti vogliono una ricerca al servizio del lavoro (dunque eminentemente pragmatica e misurabile) e una scuola più efficiente e razionalizzata (dunque eminentemente pragmatica e informatizzata). Bene, anzi male. Tutto ciò mi irrita e mi indispone enormemente. Allora, per calmarmi, provo, in bella sintassi protocollare, a promulgare il mio PROGRAMMA PER LA SCUOLA:

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Intervista a Norberto Bottani sulla valutazione degli insegnanti. Una città n.215

BRAVI O NO, COMPETENTI O NO, FORMATI O NO…

Un tema, quello della valutazione degli insegnanti, affrontato con cautela in tutta Europa, perché a rischio esplosione a differenza degli Stati Uniti dove addirittura il “New York Times” e il “Los Angeles Times” pubblicano l’elenco degli insegnanti pessimi, che alla fine si lasciano a casa; l’esempio di Ginevra, dove non si insegna per tutta la vita e l’idea del gemellaggio tra una scuola eccellente e una in crisi; le retribuzioni, simili in quasi tutta l’Europa. Intervista a Norberto Bottani.

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la storia di un rapporto profondo tra una maestra ed una allieva: Maria e Dinushi, di Lea Melandri

Quanto contano i legami di sangue, e quanto gli incontri che si fanno nella vita? Un genitore biologico, che non si è fatto in tempo a conoscere, può restare nell’immaginario, nei pensieri segreti di un bambino, maschio o femmina che sia, ma a segnare in modo duraturo la sua individualità nel momento della maggiore dipendenza è inevitabile che siano le persone che se ne prendono cura, occupandosi materialmente e intellettualmente della sua crescita e della sua educazione.

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Non opprimere i figli con l’idea della scuola, di Natalia Ginzburg. 1960

Cos’è il “rendimento scolastico”?

Non opprimere i figli con l’idea della scuola (di Natalia Ginzburg)
copertinaAl rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio.Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni.In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati in un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell’energia e dell’impegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani. Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? (Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, pubblicato originariamente su “Nuovi Argomenti” nel 1960)

DOSSIER SULLA VALUTAZIONE, a cura dell’MCE – maggio 2014

DOSSIER SULLA VALUTAZIONE, a cura dell’MCE – maggio 2014

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 LA VALUTAZIONE NEL SISTEMA EDUCATIVO

Chiunque è un genio, ma se giudicate un pesce dalla sua abilità di salire su un albero, passerà tutta la sua vita credendo che sia uno stupido. A. Einstein

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Ridef 2014: intervista a Abdelfattah Abusrour

L’intervista è stata realizzata durante il Convegno internazionale della RIDEF tenutosi a Reggio Emilia dal 21 al 30 luglio 2014.

A seguire sono state inserite immagini della presentazione del gruppo palestinese durante una serata di spettacolo della Ridef

Abdelfattah Abusrour è direttore del Centro Culturale Alrowwad (Pioneers for life) che ha sede a Betlemme (Aida camp), Palestina.

Il sito dell’organizzazione è www.alrowwad.org

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AL MONDO DELLA SCUOLA ITALIANA

Piazza San Pietro

Sabato, 10 maggio 2014

Cari amici buonasera!

Prima di tutto vi ringrazio, perché avete realizzato una cosa proprio bella! questo incontro è molto buono: un grande incontro della scuola italiana, tutta la scuola: piccoli e grandi; insegnanti, personale non docente, alunni e genitori; statale e non statale…

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John Taylor Gatto, Come l’istruzione pubblica mutila i nostri ragazzi, e perché

 

Ho insegnato per trent’anni in alcune delle peggiori scuole a Manhattan, e in alcune delle migliori, e durante questo periodo sono diventato un esperto in noia. La noia era ovunque nel mio mondo, e se chiedevi ai ragazzi, come facevo spesso, perché si sentissero così annoiati, davano sempre le stesse risposte: dicevano che il lavoro era stupido, che non aveva senso, che lo sapevano già. Dicevano di voler fare qualcosa di reale, non solo starsene seduti senza far nulla. Dicevano che gli insegnanti non sembravano saperne molto delle loro materie e chiaramente non erano interessati ad impararne di più. E i ragazzi avevano ragione: gli insegnanti erano annoiati tanto quanto loro.

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Lettera al figlio di Michele Serra, di Nicola Villa – da Gli Asini – Rivista

Il primo impulso, appena finito di leggere Gli sdraiati di Michele Serra, è quello di scrivere una lettera al figlio dell’autore per esprimergli tutta la nostra simpatia e solidarietà. O anche scrivergli un semplice e laconico sms con “coraggio!” o “resisti!”. Oppure un messaggio su facebook di “amicizia” e comprensione.

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Lettera da uno studente di Scienze della Formazione Primaria, di Giovanni Cuculi. Da “Gli Asini rivista”

Cari Asini,

cosa volete che vi scriva, che già non vi possiate immaginare? Se la situazione è disastrosa ovunque, figuratevi in una facoltà di “Scienze della Formazione Primaria”. Ci vuole poco per farsi un’idea: prendi gli ultimi vent’anni (chiamali berlusconismo, mutazione, o come vuoi), facci crescere dentro i giovanissimi, diciamo dal primo giorno di vita, e poi mandali, dopo tre o quattro lustri di televisione, scuola, eroi dell’american dream e miti sbagliati, in una facoltà in cui chi esce è automaticamente abilitato all’insegnamento.

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Pratiche sensate di resistenza all’epidemia valutativa, di Franco Lorenzoni e Roberta Passoni

Non dobbiamo mai dimenticare che la scuola, oltre a un luogo di socialità e di apprendimento, ha anche le caratteristiche di una istituzione totale, dove bambini e ragazzi sono sottoposti a frequenti arbitrii da parte di noi insegnanti, praticamente insindacabili.

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Perché non li lasciamo riposare i nostri giovani “sdraiati”? di Paolo Mottana

Perché non li lasciamo riposare i nostri giovani “sdraiati”?

L’immagine dei giovani, quella che “gira”, l’immagine pubblica, spesso fabbricata dai cosiddetti influenzatori ma anche dagli “esperti”, è desolantemente falsa. Non tanto nella mera descrizione quanto nell’implicito giudizio che l’accompagna.

Questi giovani: indolenti, debosciati, vulnerabili, insoddisfatti, intolleranti ad ogni minima frustrazione, violenti o succubi, privi di norma, deboli, dediti ad ogni tipo di dipendenza, “sdraiati”.

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L’Italia cancella l’arte dalle scuole, è definitivo. Un commento di Paolo Mottana

La Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati dice no alla reintegrazione delle materie artistiche nelle scuole italiane. Il Paese, spiega, non è in grado di sostenerne la spesa.

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Come si può parlare di filosofia con i bambini, di Alfonso M. Iacona

Una conferenza in cui si racconta del modo in cui si può parlare di filosofia con i bambini, dell’importanza della dimensione del gioco come capacità di saper entrare ed uscire dai contesti e del ruolo che ha questa capacità per conquistare una autonomia di pensiero che aiuti a divenire esseri umani autonomi e non sudditi.

parte 1 – https://www.youtube.com/watch?v=hzit4ZKY1x0
parte 2 – https://www.youtube.com/watch?v=4Y-1nj5DZow
parte 3 – https://www.youtube.com/watch?v=DNXjA47amSw
parte 4 – https://www.youtube.com/watch?v=tra4-XP55G0
parte 5 – https://www.youtube.com/watch?v=ImQwOOEAO9Y
parte 6 – https://www.youtube.com/watch?v=CqkXlvWrgxI

 

Prof. Alfonso M. Iacono
(docente di Storia della filosofia – Università di Pisa)
Progetto “Piccole ragioni. Filosofia con i bambini”
ottobre 2010 – febbraio 2011
Centro Culturale
Fondazione Collegio San Carlo

Peter Gray, Lasciateli giocare.

da L’Internazionale (12/2013)

Per approfondire si possono ascoltare le conferenze di Peter Gray (in inglese) a questi link:

https://www.youtube.com/watch?v=EFsLrdOX2vY (prima parte)

https://www.youtube.com/watch?v=PxR91b3dNtg (seconda parte)

https://www.youtube.com/watch?v=-Gnwz4aV-yc

Peter Gray ha recentemente pubblicato il libro “Free to learn”   http://www.freetolearnbook.com

L’ultimo articolo di Peter Gray qui (in inglese)

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