Emma Castelnuovo, Radici e ragioni di un metodo, una conversazione a cura di Franco Lorenzoni

In occasione dei 100 anni di Emma Castelnuovo, che compirà il 12 dicembre 2013, ripubblichiamo una sua conversazione a cura di Franco Lorenzoni, realizzata nell’estate 2007 e pubblicata ne

L’Officina matematica” edizioni La Meridiana (Molfetta 2007).

 

L’origine della mia ricerca 

Franco: Nei laboratori dell’officina matematica mi colpisce lo stupore e l’entusiasmo con cui giovani insegnanti accolgono le proposte del tuo metodo. Sono passati 60 anni dalle tue prime esperienze, ma quelle scoperte restano straordinariamente attuali. Quando hai cominciato a sentire la necessità di cambiare qualcosa nell’insegnamento della matematica? 

Emma: Non è che mi sia venuto in mente così. Ho cominciato a sperimentare un nuovo metodo in prima persona, cercando di superare le difficoltà che incontravo nell’insegnamento. Quando ho cominciato insegnavo alla scuola ebraica. Nel settembre del 1938, infatti, il governo fascista stabilisce che una parte degli italiani, gli ebrei, non poteva più frequentare la scuola pubblica: non si voleva che la razza “impura” contaminasse quella “ariana”. Fu però data la concessione di istituire scuole per allievi ebrei, sotto il controllo di un Commissario Ministeriale, anche se poi non era concesso loro di iscriversi all’Università. Fu in quegli anni che cominciai ad insegnare alle magistrali, alla scuola ebraica.

Poi tutto è avvenuto in modo miracoloso. Il 4 giugno si libera Roma e, prima del 20 giugno, ricevo la lettera del ministro che mi assegna un posto nella scuola pubblica. Il ministro era Guido De Ruggero, che militava nel Partito d’Azione. Il suo impegno per integrare nella scuola pubblica noi che ne eravamo stati cacciati da una legge razzista, fu immediato.

In quel primo anno, in cui mezza Italia era ancora occupata dai tedeschi, io avevo tre classi di due sezioni e mi accorsi subito che l’insegnamento della geometria euclidea non andava proprio. In quell’anno ebbi l’occasione di conoscere il libro di un grande matematico e astronomo francese: Alexis Claude Clairaut, di cui ho parlato nella seconda lezione qui raccolta. Clairaut aveva scritto i suoi elementi di geometria per una marchesa a cui dava lezioni, una donna intelligente che, però, della geometria non riusciva a capire niente. In questo libro propone di partire dalla realtà, cioè dal calcolo delle aree dei campi. Anche a me viene in mente di fare questo e, dal 1945, svolgo il corso con una metodologia basata sulla realtà, partendo dalle aree e dai perimetri che si possono misurare.

Di questo metodo, che stavo cominciando a sperimentare in classe, ne parlai ad un corso organizzato dall’Istituto romano di cultura matematica, quando ancora Roma era sotto amministrazione americana. In quel corso, frequentato da un centinaio di persone, presentai il mio lavoro sull’insegnamento della geometria scandalizzando molti. Ma in classe vedevo che andava bene, così continuai per la mia strada.

Franco: In un ricordo di tuo padre, tu citi una sua conferenza in cui diceva: “A mio avviso occorre accostare ad ogni passo la teoria all’esperienza, la scienza alle applicazioni. Si eviterà in tal modo di perdere quel senso del reale che è tanto necessario nella vita e nella scienza” E aggiungeva: “I padri ci affidano i loro figli perché noi ne formiamo degli uomini atti a comprendere la vita di cui oggi vivono le nazioni. Se noi non teniamo conto di queste esigenze, se, per amore della cultura, soffochiamo in questi allievi il senso pratico e lo spirito di iniziativa, noi manchiamo al maggiore dei nostri doveri”.

Emma: Giustissimo! Questo intervento mio padre lo fece in un congresso della Mathesis del 1912. Ma quell’intervento non ebbe nessun influenza perché anche i matematici più aperti non sentivano questa esigenza. Tu immagina come era l’ambiente dei matematici agli inizi del ‘900. Un ambiente che è sempre stato un po’ chiuso, con dei programmi di matematica della fine dell’ottocento, scritti da grandi matematici, ma in cui non si pensava minimamente che ci potesse essere una relazione tra matematica e realtà…

Franco: Nell’elaborazione del tuo metodo chi ti ha maggiormente sostenuto?

Emma: Dopo quella conferenza che tenni a Roma, Federigo Enriquez mi telefonò dicendo che era entusiasta. Allora ho avuto coraggio e l’ho pubblicata. Dopo due anni che avevo mandato il mio articolo a Francois Goblot, che dirigeva una rivista di pedagogia, nel 1948 mi ha invitato ad andare a Sévres, dove facevano dei corsi per insegnanti, soprattutto su argomenti letterari. C’era gente molto in gamba e lui mi ha invitato a parlare, ma dopo il mio intervento sono stata buttata fuori dall’aula.

Franco: Buttata fuori?

Emma: Si, sono stata attaccata duramente da un professore francese, che in un intervento ha chiamato ciò che facevo il metodo delle mani sporche. Allora sono uscita dalla sala del convegno e sono stata via tutto il pomeriggio. Poi in serata sono ritornata, ed è li che ho conosciuto per la prima volta alcuni insegnanti dell’Ecòle Decroly di Bruxelles.
La proposta delle esposizioni matematiche curate dai ragazzi, che ho iniziato molti anni dopo, a partire dal 1971, la devo a Paul Libois, che faceva esposizioni all’Università di Bruxelles, e alla scuola Decroly, che ha compiuto proprio ora cento anni.

Franco: Ci sono pedagogisti che hai conosciuto e che ti hanno influenzato?

Emma: Decroly non l’ho conosciuto, credo sia morto prima del ’30, mentre in una occasione ho ascoltato Maria Montessori. Decroly si legava molto alla realtà, alla natura ed è interessante sottolineare che sia Decroly che la Montessori hanno creato i loro metodi per facilitare i bambini che avevano delle difficoltà, anche se credo che non si siano mai conosciuti. Tutti e due nascono medici e si misurano con esperienze dirette di insegnamento.

Franco: E il tuo incontro con Piaget?

Emma: Era il 1951 e, tornando dalla Francia, sono passata da Ginevra perché volevo conoscere Piaget. Sono andata al suo istituto, dove c’era un assistente, un certo signor Fischer. Lui mi ha detto: “oggi non viene, ma gli può telefonare”. Io non osavo telefonargli. Allora mi ha consigliato: “Non gli dica il nome, di questo non gli importa niente, gli dica piuttosto l’età dei ragazzi con cui lavora e gli parli degli angoli, così verrà sicuramente al telefono”. A me, effettivamente, interessava particolarmente la questione degli angoli, così lui mi ha dato appuntamento per la mattina dopo, in un piccolo caffè tranquillo, in cima a una salita nei pressi della cattedrale. Lui è arrivato in bicicletta, interessato alla questione degli angoli, perché era proprio il periodo in cui si occupava degli angoli. Aveva ragione, perché le difficoltà che i ragazzi incontrano con gli angoli sono enormi perché gli angoli sono infiniti. Quando li si disegna su un foglio sono finiti, quindi non ci si pensa. Tra l’altro, in italiano, c’è anche una confusione enorme generata dal linguaggio. Si dice “ci troviamo all’angolo della strada”, e in quel caso l’angolo ti si presenta in un certo modo, poi si parla dell’angolo della stanza, e l’angolo si presenta in tutt’altro modo. Quando vengono poste domande sugli angoli nei questionari, infatti,  in genere le risposte sono tutte sballate perché c’è di mezzo il concetto di infinito, che è molto complesso. Piaget, simpaticissimo, poi l’ho rivisto perché mi ha invitata nel ’52 ad un convegno a Ginevra. I suoi studi hanno dato una grande scossa all’insegnamento della matematica in molti paesi del mondo.

 

Matematica e linguaggio 

Franco: Parlando di angoli hai subito fatto riferimento a come usiamo la parola angolo nel linguaggio quotidiano. Questo mi fa ricordare quanto è stato sempre importante, per te, l’uso del linguaggio in matematica. Ricordo una volta che, in seconda media, ci facesti fare un tema di matematica. Fu l’unica volta, in tre anni, in cui tu hai dato un dieci a un nostro compagno, che tra l’altro non andava tanto bene in italiano. Mi ricordo la soddisfazione con cui tu parlasti di questo suo ottimo risultato con l’insegnante di lettere.

Emma: Scrivere è molto importante e io credo che il linguaggio possa essere facilitato dalla matematica. Se devi spiegare come si costruisce un rettangolo che ha la base tripla dell’altezza, questo è più facile che raccontare un’esperienza che hai vissuto. Così la matematica può facilitare un uso corretto del linguaggio, perché ci sono da adoperare poche parole, ma in modo chiaro e sintetico.

In questo modo, tra l’altro, si possono aiutare oggi anche i compagni non italiani che ci sono in numero sempre maggiore nelle nostre scuole. E vengono facilitati anche i compagni italiani, perché si abituano a parlare bene l’italiano, con poche parole. Oggi, che sono sempre meno coloro che sanno dire correttamente due parole di seguito, questa è una cosa importantissima. La matematica può aiutare a parlare bene l’italiano. Non una matematica fredda, naturalmente, ma una matematica appresa con i materiali, di cui poi si possano verbalizzare i passaggi e le scoperte fatte con poche parole semplici, chiare, legate all’esperienza.

 

Imparare a guardare

Franco. Nelle tua didattica l’imparare a guardare mi sembra un cardine del tuo insegnamento, e purtroppo è una cosa che ancora oggi si fa troppo poco nella scuola. Quali origini ha e come è nato in te il desiderio di connettere il guardare e il pensare?

Emma: L’importanza di questa connessione mi deriva senz’altro dagli studi universitari e in particolare da Federigo Enriquez, con cui ho fatto il corso di geometria superiore. Lui vedeva nello spazio e ci invitava continuamente a guardare con la mente. Eravamo pochissimi al corso di geometria superiore e questo esercizio di abituarci a vedere con gli occhi della mente era continuo. Era l’insegnamento di un grande matematico…

Io non credo che non si studi quasi più matematica all’Università perché i futuri matematici non vogliono finire a fare gli insegnanti, ma perché la matematica non la si insegna quasi mai come una materia viva, né all’Università né nella scuola superiore. Viene trattata come una disciplina da insegnarsi in maniera “distaccata”. Una matematica capace di aprire la mente interessa e appassiona i ragazzi, ma spesso i professori sono i primi ad avere i paraocchi, e non viene certo voglia di andare a studiare matematica in queste condizioni.

Franco: Gli oggetti e gli strumenti didattici che negli anni hai costruito pongono con forza la questione dello sguardo. Sono costruzioni, talvolta anche imperfette, che invitano a guardare, toccare, ragionare. Tu dici sempre: “E’ importante ragionare bene su figure fatte male”.

Emma: Certo, perché anche una costruzione fatta male io la posso vedere in un’altra maniera… E poi mettere a confronto le cose è importantissimo. Basta mettere due penne in verticale ed osservare le loro ombre quando sono illuminate dal sole e da una lampadina, e si vedono subito una quantità di differenze.

Franco: Una cosa che manca molto oggi nella scuola è il rapporto mano-cervello… 

Emma: Non c’è per niente e sempre meno ci sarà, perché non si sanno più adoperare le mani… ed è una cosa gravissima. Io ho sempre invitato a costruire, anche male, non sapendo nemmeno io costruire bene. Ma adesso non si sa costruire più niente…

Franco: L’uso della mano nella costruzione degli oggetti, nel mio ricordo, ci portava ad imparare a ragionare, a cercare una logica in ciò che andavamo costruendo, anche confrontando i ragionamenti diversi che facevamo tra noi in classe…

Emma: Costruire insieme mette tutti allo stesso livello, mentre la testa crea maggiori diversità. E’ vero che anche le mani sono diverse, però nel complesso i ragazzi vengono uniti maggiormente dal gioco delle mani.

Franco: Qui arriviamo ad un altro nodo del tuo insegnamento. Il desiderio che tutti arrivino ad apprendere.

Emma: Certo, ci devono arrivare tutti… e ci arrivano tutti. Ci sarà qualcuno che ha più difficoltà, ma in complesso ci possono arrivare tutti  perché, lavorando con le mani e osservando, i ragazzi si aiutano tra loro, aiutano il compagno che incontra maggiori difficoltà a raggiungere i risultati degli altri. Non conta solo la spiegazione del maestro, ma anche quella dei compagni, che in genera adoperano esempi più semplici.

Franco: Più volte hai detto che il professore non deve stare in cattedra, si deve mettere al livello degli allievi e non deve avere paura di mostrare le difficoltà che anche lui incontra.

Emma: Si, perché in generale chi insegna non vuole mostrare le sue difficoltà, e invece spesso trova le stesse difficoltà dei suoi allievi. L’importante è non pensare di fare tutto alla perfezione.

Franco: Quale consiglio daresti a chi comincia ad insegnare?

Emma: Non avere mai fretta! Tutti pensano al programma ma io dico: non è importante svolgere per forza tutto il programma. L’importante è che tutti capiscano, che fra loro gli studenti si possano aiutare. Non si deve andare avanti finché l’ultimo non ha capito. Tornare su uno stesso argomento, anche a distanza di un anno, è molto importante. Ci sono cose che non si dimenticano. Non si dimenticano le cose che si sono viste e su cui si è operato.

Franco: Nella memoria che ho del tuo fare scuola ricordo che tu entravi in classe sempre puntualissima e di corsa. Avevi una specie di urgenza che a noi emozionava. Non c’era tempo da perdere perché sembrava che ogni volta avessimo delle scoperte da fare. Ricordo ad esempio la volta in cui introducesti lo studio delle affinità facendoci osservare i disegni che faceva la luce del sole entrando dalla finestra. A distanza di quaranta anni da quella esperienza ti domando: come preparavi le tue lezioni? 

Emma: Non molto, direi. Avevo chiaro l’argomento da trattare, ma dalle domande e dalle difficoltà che incontravate voi ragazzi la lezione poteva prendere un indirizzo diverso. Osservare le affinità utilizzando il sole e le ombre, ad esempio, è importante perché si può fare sempre, senza avere nessun materiale particolare. Si tratta di guardare cose mai osservate, che stanno là. Si è sempre osservato poco e oggi si osserva ancora meno. Invece a scuola, se ben condotti, si può imparare ad osservare e a arrivare a fare delle scoperte, partendo da osservazioni attente.

Alcune proprietà delle affinità si possono scoprire confrontando le ombre di figure geometriche provocate dal sole e quelle provocate da una lampadina. L’importante è far vedere le due cose insieme e notare le differenze, altrimenti non ci si accorge di niente. L’ombra data da una lampadina, poi, può fare scoprire anche altre cose. Se la lampadina è protetta da un paralume cilindrico, ad esempio, la luce disegna sulla parete delle coniche. Osservare le diverse sezioni del fascio di luce che si disegnano su una parete può portare a scoperte importanti: cioè che le coniche siano un tutt’uno. L’esistenza di continuità tra l’ellisse, la parabola e l’iperbole è una scoperta recente, abbastanza recente, risale a un secolo e mezzo fa.
Le coniche si conoscevano sin dall’antichità, ma erano separate una dall’altra. Mentre questa visione unitaria forse è stato possibile averla da quando è stata inventata la lampadina, perché la lampadina facilita l’osservazione del passaggio da una conica all’altra.

 

Storia della matematica

Franco: Nelle lezioni qui pubblicate, come in tutto il tuo insegnare, è sempre fortemente presente la storia della matematica, che purtroppo nella scuola è quasi completamente assente. 

Emma: Ci sono una infinità di storie curiose e affascinanti che invitano a ragionare, come quella della fondazione di Cartagine. Didone veniva dal Libano e quando è arrivata sulla costa tunisina, dopo mesi di navigazione, ha pensato: mi piacerebbe costruire qui la mia città. Allora ha domandato se poteva avere della terra e il re di quel luogo, prendendola in giro, le ha risposto: te ne dono una porzione grande come la pelle di questa vacca. Lei allora ha tagliato la pelle in strisce così sottili che, unite tra loro, composero un perimetro enorme di forma semicircolare. Così ha costruito la città. Ecco storia, leggenda e racconti di vicende che non si dimenticano.

Franco: Perché, secondo te, è così assente nella scuola la storia della matematica? Perché si preferisce presentare la matematica come una cosa data?

Emma: Direi che anche la storia della scienza e di altre discipline è molto sottovalutata. Forse nelle scienze naturali un po’ meno… Ma certo, nell’insegnamento della matematica, la storia è come se non esistesse. I  ragazzi sono così portati a mette tutto insieme, da Euclide a oggi, senza avere nessuna cognizione delle scoperte, dell’evoluzione delle idee, delle epoche e dei luoghi dove sono vissuti i matematici.
Credo che questo dipenda dalla formazione universitaria. L’importanza della storia io l’ho appresa all’Università, frequentando un ottimo corso di storia della matematica tenuto da Federigo Enriquez.

Franco: In questo evocare continuamente la storia c’è anche l’idea che la matematica sia una cosa viva, una cosa che cambia nei secoli, nel tempo, e che i cambiamenti sono legati alla cultura di quel tempo e di quelle terre. Ci sono matematici a cui sei più legata?

Emma: Io credo che insegnando sia importante riferirsi soprattutto alla matematica antica. Ai ragazzi questo interessa molto. Archimede, ad esempio, lavorava sul concreto.
E poi non fa impressione pensare che lui, che se ne stava a Siracusa, ogni tanto se ne andava al Cairo per scambiare le sue idee con altri? Come faceva? Viaggiare mica era facile come oggi. E poi si scrivevano… Evidentemente mandavano queste lettere con qualche nave che partiva per l’Africa. Questo del partire, navigare, andare dalla Sicilia in Egitto come se fosse niente, me lo rende simpatico.
E poi Galileo sicuramente, perché cita degli esempi uguali e precisi a quelli di oggi, come quando dice che la maggior parte della gente è convinta che se due piazze hanno lo stesso contorno anche l’area deve essere uguale. Oltretutto Galileo ha uno stile e degli argomenti moderni, che affascinano.

Franco: Mi è capitato in classe, quest’anno, che i ragazzi si siano appassionati molto a Talete, al suo viaggio in Egitto, al modo in cui misurò con l’ombra la piramide…

Emma: La cosa più interessante è che Talete, in Egitto, c’era andato per l’olio, per piazzare il suo olio perché c’era stata una stagione buonissima. Lui si sposta con l’olio e questo dimostra, se non altro, una sua grande varietà di interessi.

 

Natura e realtà

Franco: Una attenzione molto grande tu l’hai riservata sempre alla natura. Come se la natura ci potesse insegnare la matematica e che noi si possa guardare meglio la natura con occhi matematici. 

Emma: Più che natura io parlerei di realtà. Realtà che è cambiata e sta cambiando. E’ ovvio che una volta era la natura a prevalere, ma oggi ciò che interessa non è tanto la natura, ma quello che si costruisce. Ci sono tante costruzioni che ci circondano ma noi, andando in giro, non le guardiamo mai. Forse è perché siamo più attratti dal movimento. Se vedi una impalcatura fissa non ci pensi, ma quando la vedi montare, allora ti accorgi che senza triangoli non rimane fissa, non si tiene.

Mi torna in mente, a questo proposito, un episodio successo nel secolo scorso in Francia, a Royaumont. Nel 1959 a Royaumont, in una antica abbazia non più utilizzata come abbazia da secoli, fu convocato un convegno internazionale dall’OECE. Eravamo stati invitati in una settantina di persone: tutti professori universitari e solo qualche insegnante di scuola secondaria. Restammo li per due settimane e c’erano i più grandi matematici del mondo, che tennero conferenze di grande interesse.

Un giorno intervenne un certo professor Jean Deudonnè, che credo pesasse almeno centoventi chili. Cominciò dicendo: basta, la geometria euclidea non si deve più insegnare perché non serve assolutamente a niente. Del resto è una assiomatica basata tutta sul triangolo e dov’è questo triangolo? Nell’epoca nostra il triangolo dove ha importanza?

Mentre diceva questo lui stava seduto dietro a un tavolo lunghissimo, retto da due grandi capriate. Se non c’erano quelle capriate triangolari il tavolo non si sarebbe retto! Finito il suo intervento sono stata la prima a chiedere la parola perché non ne potevo più e, con il coraggio dell’incoscienza, ho detto: “Guardi, senza il triangolo, quel tavolo che ha davanti gli crollerebbe immediatamente addosso, con tutti i suoi fogli sopra…”

Fu in quella conferenza che fu lanciata l’insiemistica, invitando i professori di matematica di tutto il mondo a cambiare radicalmente i programmi. Molti furono così chiamati ad insegnare cose di cui non sapevano assolutamente niente, perché una cosa è frequentare un corso di quindici giorni, una cosa è studiare un argomento per anni.

Per fortuna in Italia c’è sempre stata una grande libertà di insegnamento e ciascuno fa un po’ quello che gli pare. Questo è un grande vantaggio in alcuni casi, anche se permette ad alcuni di non fare assolutamente nulla…

 

L’infinito e l’infinitesimo

Franco: Tornando al rapporto tra matematica e realtà, tu fai molto spesso riferimento all’arte e all’architettura.

Emma: Il caso della prospettiva è molto interessante. Le leggi sulla prospettiva, studiate dal punto di vista matematico, sono venute molto dopo le scoperte fatte dai pittori. Nell’arte si studia e si scopre la prospettiva già nel 1400, mentre fino al 1600 la prospettiva non è matematizzata. Perché questi studi non sono nati prima? Perché i matematici non guardavano la realtà. Mentre un pittore, volendo rappresentare una città, si è trovato davanti al problema che la visione non corrispondeva alla realtà.

E’ importante far vedere ai ragazzi quadri e dipinti di prima e dopo la scoperta della prospettiva. Così notano le differenze, operano dei confronti e nascono ipotesi, idee, pensieri…

Franco: Da quanto dici emerge un altro elemento che ti sta a cuore. Il rapporto tra l’artigianato, i mestieri e le conoscenze. Hai sempre sostenuto che coloro che fanno mestieri che hanno una forte componente manuale e pratica, hanno notevoli  intuizioni geometriche, ad esempio rispetto ai volumi.

Emma: Certo, perché toccare è osservare. L’osservazione viene aiutata dalla mano ed io mi chiedo: che cosa succede ora, che la mano non si adopera quasi più? Ci sono programmi per l’insegnamento della geometria con il computer, come il Cabrì. Sullo schermo, però, le figure si vedono ma non si toccano. Quindi tu vedi, ma non ti vengono in mente tanti problemi. Problemi e domande che invece arrivano quando tocchi, manipoli.

Franco: C’è poi l’elemento spaziale. Anche se sul computer appaiono immagini tridimensionali, è sempre in uno schermo piatto che noi le guardiamo. Sono figure che noi non possiamo trasformare toccando, muovendo. 

Emma: Così le cose le vedi e ti sfuggono…

Franco: Due concetti fondamentali nel tuo insegnamento, che mi sono rimasti particolarmente impressi, sono quelli del caso limite e dei ragionamenti per assurdo. Nella mia memoria  li ricollego ad un triangolo, che ha una base fissa e due lati costruiti con elastici, la cui altezza lentamente si schiaccia. Man mano che l’altezza diminuisce l’angolo in alto si allarga, mentre i due angoli alla base si stringono, fino al caso limite in cui un angolo diventa piatto e “prende da solo” tutti i 180 gradi. A questo punto gli altri due angoli sono completamente chiusi e dunque valgono zero. Naturalmente questo non è più un triangolo, perché non ha tre angoli e perché l’area è zero, ma ragionando per assurdo su questo caso limite, tu ci hai insegnato a vedere e a pensare figure e angoli in movimento… 

In una immaginaria gerarchia, quali sono i concetti che più ti piacerebbe che incontrassero i ragazzi nella scuola media?

Emma: L’infinito e l’infinitesimo. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Però per arrivare a quei concetti non puoi lavorare tanto con i materiali. Se pensi ad Achille e la tartaruga, ma questo è un esempio troppo difficile… Diciamo: se pensi ad una formica che va verso una mollica di pane, lei percorre un tragitto. Nel percorrere questo tragitto prima ne fa la metà, poi la metà della metà, poi ancora la metà della metà della metà, insomma non arriva mai… però in questo caso non è che si possa toccare tanto. Anzi, non si tocca per niente!  E’ il fascino dell’infinitesimo. La formica arriverà mai a prendere la mollica di pane?

Franco: In questo esempio c’è un contrasto tra la logica e la realtà.

Emma: Questo è il fatto, perché va da sé che ci arriva… e però. Realmente ci arriva, però ragionando, sembra che non ci debba arrivare mai perché qualsiasi tratto di percorso può essere sempre diviso a metà. Qui incontri veramente il fascino dell’infinito.

 

L’intelligenza dei ragazzi africani

Franco: Quando racconti delle tue esperienze educative sperimentate in Niger dici che lì non avevi ponti o viali alberati da mostrare…

Emma: Certo, loro non avevano mai osservato la prospettiva di un viale perché di alberi, davanti alla scuola, non ce n’era nemmeno uno. Però una strada sterrata senza alberi c’era e, guardandola con attenzione, si vedeva che le linee convergevano.

Un’altra cosa che ho notato è che i ragazzi non avevano idea di come disegnare un cubo. Allora ho messo uno scatolone sulla cattedra e ho domandato: come lo vedete? Nessuno aveva mai fatto osservare loro come si vede un cubo…

Poi a Niamey, alla biblioteca francese, ho trovato un libro sui primi disegni che avevano la prospettiva e glieli ho fatti vedere. Com’è che accade questo? Si guarda di meno? Forse si osserva di meno dappertutto. Forse in Niger, con le tragedie che si devono affrontare ogni giorno, sfugge l’importanza di imparare a vedere la prospettiva… Eppure non si pensa mai abbastanza che delitto sia non dare spazio e possibilità alle straordinarie intelligenze dei ragazzi africani…

 

Franco: Come si sono diffusi nella scuola i materiali che hai creato?

Emma: Quando la Casa editrice La Nuova Italia era nel suo fulgore, domandai a Sergio Piccioni se poteva fare qualcosa per costruire e diffondere nelle scuole alcuni materiali di cui proponevo l’uso nei miei libri. Lui allora ha fatto realizzare alcune scatole con dei materiali, che poi credo siano andati anche in Argentina… C’erano asticelle, cubi, stanghette simili a quelle del meccano… Avevo anche preparato dei lucidi per la lavagna luminosa con figure mobili che si spostavano. Devo ancora avere qualcosa… Allora c’era una fabbrica di sussidi didattici in Minnesota, figurati… Tutte cose che non esistono più da secoli, morte. Per questo c’è bisogno che qualcuno riprenda il lavoro, che non si perdano le esperienze fatte.  E’ pensando soprattutto ai giovani che iniziano ora ad insegnare che iniziative come questa dell’officina matematica mi sembrano importanti.