UNA CITTÀ n. 180 / 2011 Dicembre 2010-Gennaio 2011
Intervista a Antonella Cilento
realizzata da Barbara Bertoncin
CENERENTOLA CHI?
Ragazzini a cui nessuno racconta più le favole, bambine il cui l’unico sogno, da grandi, è “fare la mamma”, ma anche classi che cacciano il bidello per non dover interrompere un racconto…; il resoconto di quasi vent’anni di laboratori di scrittura nelle scuole del nord e del sud. Intervista a Antonella Cilento.
Antonella Cilento, scrittrice, ha ideato e conduce il Laboratorio di scrittura Creativa Lalineascritta dal 1993 presso associazioni, librerie e scuole in giro per l’Italia. Vive a Napoli. Il libro cui si fa riferimento nell’intervista è Asino chi legge. I giovani, i libri, la scrittura, Guanda 2010.
Da molti anni proponi dei laboratori di scrittura nelle scuole. Puoi raccontare?
Insegno scrittura creativa da 18 anni. Lalineascritta è una delle scuole di scrittura creativa più antiche d’Italia, è nata nel 1993. A Napoli svolgo quest’attività con 70-80 studenti l’anno, che vengono a formarsi all’interno del nostro percorso. Oltre a fare i corsi classici di scrittura creativa a pagamento -quindi con le persone che vengono e si iscrivono- da molti anni vado anche nelle scuole pubbliche a fare formazione per i bambini e gli studenti medi e superiori, e poi faccio formazione agli insegnanti.
Quest’attività al Sud è realizzata con i Piani di Offerta Nazionale, i cosiddetti Pon, che si avvalgono di fondi europei. Tra due anni, però, termineranno e quindi non si sa cosa succederà. In altre regioni lavoriamo invece attraverso i Pof (Piano dell’Offerta Formativa), oppure nell’ambito dell’ offerta formativa che la scuola mette a disposizione.
L’obiettivo, ambizioso, è quello di portare le persone, in primis i giovani, alla lettura e alla scrittura.
Asino chi legge è un po’ il censimento degli oltre cento laboratori condotti in questi anni da Bolzano fino a Modica, con particolare attenzione alla Campania. E’ il racconto di quello che succede quando entro nelle classi, mettendomi in qualche modo nel mezzo fra studenti e insegnanti, facendo accadere delle cose che normalmente non accadono. La scuola non prevede più uno spazio in cui possano accadere delle cose impreviste, così a esser più penalizzato è proprio il livello emotivo, che normalmente non viene minimamente preso in considerazione, perché non c’è il tempo, ma anche perché gli insegnanti fanno resistenza a mettersi in gioco veramente, anche per paura di essere sopraffatti. La parola che si usa in questi casi è “gestire le emozioni”, come se le emozioni si potessero in qualche modo controllare!
Il risultato è che i ragazzi, fin dai primi incontri, per il tipo di strumenti che uso, si mettono completamente a nudo e scoprono di sé delle parti che spesso i loro insegnanti non hanno mai visto né sentito.
Comunque succede la stessa cosa anche quando facciamo formazione con gli insegnanti: anche loro, pur avendo lavorato nella stessa scuola magari per molti anni, non di rado scoprono di non conoscersi affatto.
Tutte le indagini riferiscono che siamo un paese che legge poco. Rispetto alla tua esperienza qual è la situazione?
Se si va a guardare capillarmente nelle scuole, i ragazzi leggono poco, pochissimo e ci sono dei luoghi dove non si legge affatto.
In una scuola media di Frattamaggiore, dove alcuni anni fa lavoravo con dei ragazzi drop out, un giorno, durante un laboratorio, parlando, dissi: “come succede in Cenerentola…”. Beh, mi accorsi che i ragazzi mi guardavano senza capire. “Ragazzi non conoscete la favola di Cenerentola?”, “No, non ce l’hanno mai raccontata, “Ma non avete mai visto nemmeno il film di Walt Disney?”. Incredibilmente questi ragazzi non conoscevano la storia di Cenerentola. Parliamo anche di una situazione particolare: molti erano impiegati in lavoro minorile, lavoro al nero o in operazioni palesemente delinquenziali, erano vestiti come adulti, le ragazzine truccatissime, anche se avevano 12 anni, qualcuna era già incinta. Comunque, nella loro infanzia, nessuno, né a casa né a scuola, aveva loro mai raccontato la favola di Cenerentola.
Questo è l’esempio estremo, e non è nemmeno identificativo della realtà di Frattamaggiore, perché nello stesso contesto, da sette anni tengo dei laboratori in un liceo scientifico, dove invece abbiamo dei ragazzi che sono dei lettori molto forti. Quindi non puoi nemmeno dire che è colpa del territorio.
A macchia di leopardo ci sono luoghi diciamo “caldi” e luoghi invece di eccellenza in tutta Italia.
Ma quindi è venuta meno la tradizione di raccontare le favole ai bambini?
È come interrotta. Ci sono delle generazioni di genitori, sia quelli socialmente disagiati, ma anche quelli molto ricchi, che non hanno il tempo, non hanno la voglia, che non si rendono conto di quanto sia importante fare questa operazione minima che è raccontare le favole ai bambini.
Non è una notazione di poco rilievo. La lettura, la scrittura e la parola sono il fondamento per diventare cittadini liberi e indipendenti.
Come lavori con i ragazzi?
Innanzitutto spiego che cos’è la scrittura creativa. Molti, insegnanti compresi, non ne hanno idea naturalmente, e quindi racconto come si sono raccolte le tecniche dall’inizio del secolo ecc. Fatto questo, il lavoro pratico consiste nel proporre il mio personale metodo di scrittura, che è quello che adotto quando scrivo i romanzi.
La prima cosa che facciamo assieme è cercare di superare la famosa paura del foglio bianco che a scuola capita molto frequentemente, soprattutto quando ti si dice che devi “restare nella traccia”, non divagare, essere coerente, non fare ripetizioni, cioè tutte quelle cose che ti fanno restare con la penna alzata per interminabili minuti.
Ecco, una delle tecniche per superare il blocco è scrivere per cinque minuti, senza mai cancellare, senza rileggere, senza tornare indietro con l’occhio e senza mai fermarsi, quindi lasciando andare sulla pagina qualunque cosa ci venga in mente, anche “non ho voglia di stare qui…”, “non ho voglia di fare questa cosa…”, “oggi mi è capitato questo, mi è capitato quello…”.
Poi lavoriamo con tutti i tipi di stimolazione sensoriale, scriviamo a partire dall’olfatto, dal gusto e dal tatto, lavoriamo anche sul punto di vista.
Un giorno stavamo facendo un esercizio sui punti di vista, partendo dalla vita in un circo. La scuola in questione è situata nel rione Luzzatti, un quartiere popolare dietro il centro direzionale di Napoli, una zona particolarmente a rischio. In classe, a mia insaputa, c’era anche la figlia di un capoclan, con i genitori in carcere e quindi costretta a vivere a casa della nonna. Parliamo di una scuola in cui non si può parlare di camorra, non si può proprio nominare quella parola. Ebbene questa ragazzina ha scelto il punto di vista del coltello e ne è uscito uno degli esercizi più sorprendenti: il suo coltello era infatti indignato di essere stato usato per un omicidio e voleva recuperare un punto di vista legale; non potendo parlare, faceva di tutto per lasciare indizi alla polizia affinché venisse scoperto l’assassino.
Quello che ho letto era un pezzo scritto, non solo in buon italiano, ma con partecipazione. Il fatto poi che avesse assunto un punto di vista psicanaliticamente così interessante… cioè si era sottratta in qualche modo, almeno nell’invenzione, a qualcosa che lei evidentemente “annusava”, se non capiva fino in fondo. Anche perché in classe, quando poi l’ho saputo, ho riconosciuto delle dinamiche: nella stessa aula c’erano i figli dei sottoposti del clan, e fra lei e loro c’era un rapporto di potere, si capiva chi comandava.
Attraverso questi stratagemmi, lavoriamo anche sulle tecniche che servono alla costruzione del racconto, che sono tutti strumenti concreti.
Questi laboratori infatti piacciono, perché i ragazzi si mettono in gioco direttamente, possono esprimersi in piena libertà. Per parecchio tempo non guardiamo affatto alla grammatica, alla sintassi, tutti questi aspetti li lasciamo alla scuola. In realtà è difficile che ci sia un laboratorio dove non si divertono, perché è un’esperienza molto pratica ed emotivamente coinvolgente.
Per esempio, usiamo i quadri: i ragazzi individuano un personaggio in cui devono immedesimarsi e scriverne la storia. Con quest’operazione, scoprono, tra le altre cose quanto di loro mettono dentro il soggetto, e quindi come devono gestire e in qualche modo tenere distante il materiale perché una storia, un’autobiografia funzioni. A loro, poi, piace moltissimo quando lavoriamo con la musica o con le foto d’epoca e la memoria di finzione, facciamo parecchie cose e parecchio diverse.
E’ un laboratorio fatto di esercizi pratici per stimolare le persone a inventare, a giocare. Ne escono anche una serie di dinamiche molto interessanti, sia nelle scuole di periferia o dei paesini, che vivono realtà molto protette, fin troppo protette visto che spesso emerge la paura dell’esterno, sia nelle scuole delle grandi città, dove i pregiudizi ci portano a immaginare situazioni non sempre corrispondenti alla realtà.
Ad esempio noi tutti ci immaginiamo una città come Bolzano ordinata, organizzata, funzionante, eccetera, che è vero. Tuttavia devo dire che i ragazzi con cui ho lavorato, che pure avevano tanto di più sotto ogni punto di vista, rispetto ai ragazzi di Frattamaggiore o del rione Luzzatti, facevano esercizi in qualche modo “bloccati”,
cioè la sensazione è che ci fosse un eccesso di rigore attorno a loro, e quindi un peso, un controllo sociale talmente forte, che o erano arrabbiatissimi, e quindi ribelli, oppure erano completamente schiacciati, in ansia rispetto alle regole che venivano loro imposte.
A Modica, invece, nella Sicilia profonda, dove abbiamo fatto un laboratorio nell’ex Istituto magistrale, quindi in un socio-pedagogico, le ragazze inaspettatamente hanno scritto delle cose di una bellezza straordinaria, sono venute fuori con una leggerezza, un’emozione… Non che non avessero la preoccupazione del futuro, l’idea che, come succede in molti paesi, dovranno andare lontano per fare l’università, però con una fiducia nelle relazioni sociali, nella rete fra le persone, fra le famiglie, le amicizie, che raramente si trova.
O ancora nei quartieri bene di Napoli a scuola si trovano situazioni complicate: casi di depressione conclamata, uso di psicofarmaci, famiglie ricche che hanno case talmente grandi da non sapere dove sono e cosa stanno facendo i figli. Sappiamo anche del diffondersi di giochi di gruppo di natura sessuale fra ragazzini di 11-12 anni, che servono per relazionarsi, dove una ragazzina ti dice: “Ma se io non faccio quella cosa non esisto come persona…”.
In queste situazioni la scrittura vuole diventare una chiave per entrare, per suscitare dei cambiamenti, laddove gli insegnanti, a volte per stanchezza, per sopraffazione -però a volte anche per cattiva volontà e per impreparazione- si dichiarano sconfitti.
Quanto durano i corsi? Nel corso del tempo assisti a dei cambiamenti?
Dipende. Nelle scuole ti possono chiamare, a seconda del budget che hanno, anche solo per 15 ore. Non c’è una regola, dipende esclusivamente da quello che hanno ottenuto come finanziamento. Ci sono però scuole dove sono andata a volte per 3-4 anni di seguito. In questo caso non vedi solo crescere i ragazzi, assisti all’avvicendarsi delle generazioni, ti trovi in classe i fratelli, le sorelle…
Riguardo la domanda che ponevi, direi che i veri cambiamenti non li vedi a scuola, ma a distanza di anni, quando i ragazzi si ricordano di te e magari, incontrandoti per strada ti dicono: “Sai, ho pubblicato un libro di poesie…” , oppure ti raccontano di aver letto Flaubert… Per me è sempre una grande soddisfazione!
Un cambiamento in corso d’opera forse l’ho riscontrato in una scuola di Ercolano, un istituto professionale collocato in un contesto devastato, in mezzo a guerre fra clan, e però una scuola che fa un sacco di progetti, molto bella, tenuta benissimo, dove si affrescano i muri una volta l’anno.
I ragazzi tuttavia vivono una situazione culturale difficile. Le ragazzine sono spesso incinte a 12-13 anni, e quando si fidanzano smettono di poter decidere su qualunque cosa, cioè i maschi decidono anche se devono studiare o meno, se devono venire a scuola.
In una di queste classi le ragazzine alla domanda: “Che sogni avete per il futuro?”, non mi hanno risposto per mezz’ora. “Vabbé, ma di notte sognate, almeno?”, “No, non ci ricordiamo”, “Ma come, non avete sogni per il futuro? Cosa volete fare?” . Dopo mezz’ora una ragazza ha risposto: “Mah, mi vedo mamma”, “Bene, e poi?”… Un’altra: “Mi vedo ausiliaria del traffico”, “Perché?”, “Perché è un lavoro di relazioni umane”.
Cioè una cosa incredibile. Comunque, ad un certo punto, in una di queste classi dove nessuno leggeva niente, visto che a tutti piacevano i film del terrore, ho portato un racconto di Lovecraft e mi sono messa a leggerlo ad alta voce sceneggiandoglielo un po’, e pensando: “Questi adesso si addormentano…”, invece si è creato un tale clima… Poi ho spiegato loro che certe immagini dei film che guardano vengono da Edgar Allan Poe… Insomma, quando si è affacciato uno di quei bidelli nostri, tipici, meridionali, che entra senza bussare fregandosene se stai facendo lezione o no, è partito un coro: “Fuori!”. Tanto che questi, terrorizzato, ha chiuso la porta in punta di piedi. Beh, si erano talmente appassionati che siamo rimasti un’ora dopo la fine del laboratorio normale. Di solito è difficile che si arrivi all’orario previsto. Invece alle sei e mezza, ho dovuto mandarli via io: “Ragazzi , dobbiamo andare”, è buio, qui è pericoloso: “No, no, dobbiamo finire il racconto!”.
Ecco, quando succedono queste cose, improvvisamente il laboratorio svolta. Quando riesci a trasmettere la passione, i ragazzi -e così gli insegnanti, che sono ancora più difficili da coinvolgere- improvvisamente si rendono conto che la letteratura è un fatto vivo, non è quella cosa studiata sui libri, pallosa, noiosa, è fatta di persone fisiche.
Quando intuiscono che la parola serve a qualcosa di più che a farsi capire o a prendere un voto, questa scoperta gli cambia la vita.
Rispetto agli insegnanti che impressioni hai tratto?
I poveri insegnanti sono messi male, per varie ragioni. C’è una piccola fascia di persone che ha conservato la fede, la speranza e la vocazione di questo mestiere e quindi ce la mette tutta. La scuola sta in mano a loro, ma sono una minoranza.
Gli altri si arrabattano. Su questi progetti si assiste a pratiche poco simpatiche. Voglio dire, i Pon sono delle azioni che dovrebbero portare professionalità della vita reale, dentro la scuola. Invece in molti casi, in alcune regioni del Sud , ma non solo, i Pon vengono utilizzati per dare un supplemento di stipendio agli insegnanti, così la stessa gente che insegna alla mattina in classe, si ripresenta poi nella veste di esperto esterno. Allora, a volte ci sono degli insegnanti che hanno delle competenze extra, ma nella maggior parte dei casi no e i ragazzi vengono lì soltanto perché è un ricatto rispetto alla loro promozione.
Tra l’altro in questo modo viene meno quella figura “terza”, che è la funzione vera del progetto. Nel senso che di fronte alla domanda del ragazzino: “Ma io finita la scuola, dove vado, che faccio?”, viene invitato lo scrittore, lo scienziato, il geografo eccetera.
Poi io vedo che questi professori non sono più capaci di ascoltare, questo lo vedo molto soprattutto al Sud: insegnanti che urlano dalla mattina alla sera, questo lo vedo anche ai miei laboratori. Cioè gli insegnanti non sono “scolarizzati”: non sanno stare in aula ad ascoltare una cosa, urlano, si agitano, sono distratti, sono davvero pessimi come alunni.
Va anche detto che non è solo colpa loro: il mestiere dell’insegnante non è più quello di un tempo: oggi sono oberati, oppressi da una burocrazia infernale e questa è una cosa terribile. Le ultime riforme e i tagli sono stati un disastro totale, per cui alcuni sono davvero disperati. Sono costretti a proporre saggi brevi, sequenze, analisi testuale a tutti i costi, sfrenatamente e giustamente non sanno a cosa servono queste cose, né come spiegarle ai ragazzi.
Quando ne parliamo, ciò che li invito a fare è prendersi dei margini di autonomia, perché in realtà se tu metti la rana morta davanti al ragazzo, come potrà piacergli? E’ un cadavere. Insomma, non gli puoi far fare l’analisi testuale prima di leggere il libro, prima che il ragazzino possa essersi identificato in quella poesia, in quel racconto, prima di aver scoperto che c’è qualcosa di lui in quelle parole. Dopo farai anche l’analisi testuale, ma se si capovolge il percorso, è finita!
Allora, gli insegnanti sono messi male e dall’altra parte lo Stato non fa assolutamente niente, anzi fa di tutto per peggiorare questa situazione.
L’altro elemento critico è che si è rotto completamente il patto tra le famiglie e gli insegnanti. Quindi, se i genitori non gli raccontano le storie e gli insegnanti non leggono, beh, poi è difficile prendersela coi ragazzi.
Dicevi prima di qualche episodio di grande soddisfazione. E momenti invece di scacco, di insuccesso?
Ciò che più pesa è la grande stanchezza, perché uno deve impiegare tanta, tanta, tanta energia per fare questo lavoro. Io sono in treno tutti i giorni, mi muovo in continuazione da tanti anni. Una delle frustrazioni è che spesso, almeno inizialmente, non si viene nemmeno riconosciuti per quello che si fa né dagli insegnanti, né dai ragazzi: lo scrittore nella percezione generale è quello che va in televisione, è quello che sta in classifica, è quello che riempie i banchi della libreria, quindi far capire che la letteratura è un’altra cosa, che il lavoro della scrittura è fatica è una battaglia molto dura.
L’ idea che i ragazzi hanno, e che alcuni adulti condividono, è che bisogna fare soldi, farli in fretta e trovare scorciatoie.
Infatti la domanda classica che mi pongono in classe è: “Ma ci fai i soldi, con i libri?” “Beh, in Italia è difficile…”, “Ma come? E allora?”, “Si fa questa cosa perché produce bellezza…”, a quel punto mi guardano con una faccia: “Ma Professorè…”. Quando però si accorgono che la bellezza piace anche a loro, beh lì è fatta.
Gli insegnanti riconoscono i risultati?
Riconoscono e sono grati. Infatti sono loro a chiamarmi. Ormai ho un giro consolidato, pure troppo, tant’è che talvolta mando i miei allievi più brillanti a fare questo lavoro.
Comunque i ragazzi che frequentano i laboratori di scrittura, soprattutto quelli che hanno voti bassi in italiano, ottengono un rialzo nei mesi successivi. Come ho detto, noi non lavoriamo sulle competenze specifiche dell’italiano, però facciamo loro venir voglia di leggere e questo aiuta.
Come nasce questa tua passione per la scrittura creativa?
La scrittura creativa è la scrittura, è solo un modo per dirlo con la formula americana.
La passione per la lettura e la scrittura ce l’ho da sempre. Riguardo specificamente queste modalità, risalgono a un’esperienza che feci quando avevo 22 anni: a Napoli era nato un piccolo laboratorio tenuto da Gabriella Ventrella, una scrittrice napoletana che poi non l’ha fatto più, che durò quattro mesi. Lei aveva fatto quest’esperienza in Francia e l’aveva quindi riproposta qui. Lo trovai un esperimento molto congeniale. Tra l’altro io all’epoca tenevo dei laboratori di teatro e avevo seguito un percorso di formazione alla gestione dei gruppi. Mi sembrava di aver trovato un “luogo” in cui potevo finalmente mettere a frutto entrambe le competenze.
Devo dire che la tecnica che col tempo ho strutturato funziona con tutte le età e con tutti i soggetti, non importa che siano studenti, cittadini stranieri, pazienti psichiatrici o senza dimora, gli esercizi che propongo sbloccano la scrittura immediatamente, mettono a scrivere tutti, senza retaggi, senza teorie, senza problemi. E da lì torniamo alla lettura.
Cioè la cosa che io alla fine posso dire di avere senz’altro osservato in questi 18 anni è che se magari per la mia generazione e anche le precedenti era normale leggere e poi arrivare alla scrittura, siccome quest’uso si è perso e la lettura non è più un valore, bisogna percorrere la strada all’inverso: portare le persone dentro alla scrittura, e da lì far loro scoprire la lettura.
(a cura di Barbara Bertoncin)