In memoria di Mario Lodi: un’intervista di Daniele Novara (2004)


Mario Lodi, novembre 2004 tra Drizzona e Senigallia, febbraio 1922

Maestro, scrittore, pedagogista. Con la sua quotidiana ed efficace osservazione dei bambini ha contribuito a trasformare il mondo della scuola del primo dopoguerra fino agli anni Settanta.

Ho incontrato per la prima volta Mario Lodi nel 1986 quando organizzai per Cem Mondialità un convegno molto importante che si intitolava Liberare l’educazione sommersa. Insieme a Mario Lodi avevo chiamato Paulo Freire che da tantissimi anni non veniva più in Italia e quella fu un’occasione estremamente interessante per la pedagogia italiana: parteciparono anche Johan Galtung, don Tonino Bello, e tanti altri. Erano presenti circa seicento insegnanti ed educatori da tutta Italia. Si percepiva ancora la spinta degli anni Sessanta e Settanta, indubbiamente il periodo d’oro della pedagogia italiana, l’epoca in cui Mario Lodi scriveva i suoi famosi libri tra cui Il paese sbagliato. Il suo Cipì, questo libro per bambini tradotto in tutto il mondo, è probabilmente, dopo Pinocchio, il libro più importante della tradizione narrativa infantile italiana.
Dopo quel convegno non ci siamo più persi di vista: Mario ha sempre apprezzato il mio impegno per l’educazione alla pace perché, ed emerge anche da questa intervista, la pace è per lui uno dei valori fondanti l’educazione stessa.
Facevo parte del comitato scientifico della Scuola di Pace di Senigallia. Oggi come allora questa Scuola di Pace ogni anno propone un calendario di iniziative pubbliche: nel 2004 mi chiese di fare una serata sulla Costituzione con Mario Lodi intervistato pubblicamente da me. In quegli anni io curavo la collana Partenze presso la casa editrice La Meridiana ed avevo con lui un rapporto professionale: ero impegnato a recuperare alcuni dei suoi libri per bambini che erano stati abbandonati dalle case editrici. Pubblicammo Favole di Pace che ebbe un certo successo e diverse ristampe e altri classici come La mongolfiera, uno dei suoi libri più famosi negli anni Settanta. Proposi a Mario la serata a Senigallia e di andarci insieme in auto, avrei guidato io. Accettò. Lo passai a prendere a Drizzona dove vive in una bellissima cascina oggi sede del Museo delle arti e del gioco per i bambini.

Quel lungo viaggio in macchina fu un’esperienza bellissima. Parlammo di tante cose, dei figli, e di una serie di passaggi suoi anche molto personali. Da questo punto di vista i viaggi in auto sono estremamente interessanti: si crea un ambiente ovattato, quasi un confessionale, dove puoi parlare con una certa libertà anche in mezzo ai camion.

La serata andò molto bene. Mario ritrovò Giovanna Legatti, una delle fondatrici dell’MCE il Movimento di Cooperazione educativa, e ricordarono con un po’ di nostalgia i bei tempi andati quando, negli anni Cinquanta, l’MCE era una forza pedagogica eccezionale. Durante la serata Mario fu come sempre molto preciso nelle risposte e si creò un momento veramente molto intenso. Quell’intervista pubblica è una delle tante che ho fatto a Mario nel corso degli anni. Con me è stato molto generoso per quanto sia una persona riservata e poco desiderosa di comparire. Ripubblicarla adesso, nel 2012, nell’anno in cui compie novant’anni, è per me un omaggio a una delle personalità più significative del nostro panorama educativo. Mario Lodi, insieme a pochi altri ancora in vita, ci ricorda l’importanza dell’atto educativo, del metodo educativo, e che senza un investimento in questa direzione la società si atrofizza, si spegne, si riduce a puro e semplice consumismo. Grazie Mario.

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IL RAPPORTO TRA SCUOLA E DEMOCRAZIA

già pubblicata su
Conflitti. Rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica, n. 3, 2005

In che modo, quando eri bambino, hai vissuto lʼinvadenza dellʼeducazione fascista? Come la scuola ha contribuito, a quel tempo, a creare consenso nella gente?

Tutta la vicenda della storia del fascismo lʼho vissuta sulla mia pelle di scolaro. Mio padre aveva fatto la Guerra mondiale, era socialista, pacifista ed era stato anche pedinato durante la guerra e anche dopo è stato controllato proprio perché aveva queste idee di pace. Mia madre era cattolica-cristiana e ha cercato di educare noi figli al Cristianesimo e ai suoi valori. Mentre loro costruivano questi figli e li educavano in questo modo si è abbattuta sulla nostra pelle di ragazzi lʼesperienza del fascismo. Dopo la Guerra Mondiale che si è scatenata in Europa attraverso lo scontro delle potenze, diciamo coloniali,

che volevano conquistare lʼEuropa e tutto il Mondo, lʼItalia ha partecipato alla guerra e quando è finita con la vittoria ci si è accorti che tutte le promesse che erano state fatte ai contadini e ai lavoratori non erano state mantenute.
Allora nascevano le cooperative, (mio padre per esempio è stato un fondatore della Cooperativa di consumo), nascevano le leghe e i sindacati e contro questa forza che si stava esprimendo, nel paese si formò unʼidea violenta, unʼidea barbara, quella di mettere ordine. Vi fu la marcia su Roma e il “Capo” andò dal Re e disse: “Io metto ordine in questo travagliato momento, dovete darmi fiducia, rimetterò tutto a posto”. Il Re, invece di arrestarlo perché era contro la legge gli affidò questo compito di governare lʼItalia.
Nella mia aula di bambino di prima classe elementare avevo la fotografia del Duce che mi guardava con quegli occhi spiritati, ed io avevo paura e la mia maestra mi diceva: “Quellʼuomo è stato mandato dalla Provvidenza perché

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metterà ordine in Italia” ed infatti mise ordine a modo suo in Italia.

La prima cosa che cambiò fu il modo di salutare, invece di dire buongiorno e buonasera oppure ciao si doveva salutare col braccio teso come si faceva davanti allʼimperatore nel mondo romano. Poi sono nate le divise e gli stivaloni, in poco tempo cambiò il volto dellʼItalia.

Il Duce fece delle grandi opere per avere il consenso della gente, prometteva senza sapere poi cosa sarebbe accaduto. Noi bambini nelle scuole vivevamo su un altro piano questa esperienza politica che stava attraversando il paese, la vivevamo attraverso il rapporto con la maestra, la quale incuteva paura e terrore: ricordo le bacchettate sulle unghie se non si sapevano le tabelline. La mia maestra era considerata la più brava perché alla fine della seconda tutti i suoi scolari imparavano le tabelline, per via del metodo della riga sulle unghie e tenendoci a scuola unʼora in più alle quattro di pomeriggio, e io non capivo perché a questa maestra cattiva tutte le mamme alla fine dellʼanno portavano la torta.

Questa era la situazione di noi scolari nei confronti della maestra la quale era anche pedagogicamente avanzata. Per esempio mia mamma aveva raccolto tutti gli scarabocchi che facevo mentre mio padre dipingeva, io volevo fare come lui e dipingevo scarabocchi sulla carta che mi dava mia mamma. Il primo giorno di scuola quando mi iscrisse alla prima classe portò questi disegni alla maestra. Lei disse: “Non li voglio nemmeno vedere, io gli insegnerò a disegnare” ed infatti ci faceva copiare dalla lavagna i disegni. La stessa cosa che si faceva allʼistituto magistrale dove il mio professore di disegno ci dava un tema e noi dovevamo realizzare un disegno sulla nostra lavagna e diceva: “Quando sarete maestri voi dovrete disegnare bene sulla lavagna e far copiare i bambini”. La mia maestra ci diceva “Voi dovete diventare bravi come Giotto che è il più grande pittore del mondo” e aveva scoperto che io copiavo meglio degli altri. Un giorno mi disse: “Vedi questo giornale?” era una rivista scolastica che riportava delle figure “Riesci a copiarne questa

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sulla lavagna?” indicò la figura di un pesce. Io la guardai era semplice, era un pesce ed io sapevo come era fatto un pesce perché osservavo sempre mia mamma quando lo puliva. Il pesce ha le scaglie, così disegnai le scaglie al pesce, ma nel modello non cʼerano e la maestra furibonda mi disse di cancellarle perché dovevo imparare a copiare quello che lei diceva e non la verità. Non era una maestra invasata, era una maestra che aveva la sua pedagogia, era la pedagogia della cultura dellʼio ti trasmetto e tu devi ripetere, del se sei bravo a ripetere io ti do un bel voto e se non sei bravo io ti boccio. Era la logica della scuola trasmissiva di quel tempo che corrispondeva alla logica del rapporto tra il Governo e i cittadini “Voi dovete ubbidire”.

In questo modo creò del consenso. Le maestre dicevano: “Se suo figlio non viene a scuola con la divisa non posso accettarlo” e mia madre mal volentieri dopo aver tentato di mandarmi senza divisa due o tre volte, accettò e mi cucì una camicia nera e dei pantaloncini grigio verdi.

A scuola si giocava, si giocava a fare la guerra, cʼera unʼaula sulla quale cʼera scritto armeria e cʼerano dentro dei moschetti in miniatura veri che sparavano delle pallottole di legno; inoltre andavamo a marciare come dei soldatini, i soldati erano il nostro modello, per noi era un gioco ma per loro (i grandi), quei bambini che si esercitavano sarebbero diventati poi i soldati di quella guerra che doveva essere la naturale conclusione di quella politica. Mio papà quando gli riportavo le parole della maestra: “Il Duce è bravo e ci vuole bene” mi diceva “Io ho fatto solo la terza elementare e ti dico che quel uomo porterà alla rovina lʼItalia” e io non sapevo a chi credere alla maestra o a mio padre, perché tutti e due avevano unʼopinione sbagliata su quellʼuomo che portava lʼItalia verso il suo ordine. Lʼabolizione di tutti i sindacati, tranne il suo, lʼabolizione dei giornali, il carcere per chi disobbediva, ecc. Fu allora che capii chi aveva ragione, se mio padre o la maestra.

E per creare il consenso, per creare unʼattesa di eventi che sarebbero venuti si mandavano i

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bambini alle colonie estive in montagna o al mare, perché si irrobustissero, perché diventassero forti, perché dovevano essere i soldati di domani. In Italia noi avemmo ben tre guerre in 10 anni, quella dellʼAbissinia, (a scuola ci facevano mettere i tricolori sulla cartina geografica dove si conquistava qualche postazione), la guerra combattuta dai volontari in Spagna, poi la seconda guerra mondiale che ha fatto 50 milioni di morti ed è veramente stata la disfatta del fascismo. Ecco, in quel momento lì io avevo 24 anni e ci trovammo a combattere contro il fascismo chi allo sbando nelle bande armate, chi facendo le staffette, chi in tanti altri modi e riuscimmo ad avere la libertà e la pace. Era il 1945.

Gli anni Cinquanta e Sessanta furono vitali per la democrazia italiana. Quale entusiasmo catturava i giovani maestri italiani? Che cosa ha significato a quel tempo la nascita del Movimento di Cooperazione Educativa?

La mia storia di giovane maestro cominciò nel ʼ45. Mi resi conto che ero incapace di fare il maestro perché ci avevano insegnato un sistema che non era adatto ai bambini, noi non sapevamo allora che tutti i bambini del mondo da quando nascono con i loro scarabocchi raccontano la loro vita, raccontano quello che hanno scoperto del mondo. Non sapevamo che i bambini non sono dei vasi da riempire, ma sono dei vasi pieni da organizzare perché hanno già avuto fina dalla nascita una esperienza personale ricca. Non sapevamo questo e in quel momento in cui gli italiani ottenevano il voto attraverso la Costituzione del 1948, io entrai di ruolo nella scuola pubblica. Ci sono delle coincidenze che sembrano combinate, ma veramente è accaduto così. Noi giovani maestri siamo stati mandati nella scuola che avevamo in testa idee di libertà e di democrazia, dovevamo insegnarle ai bambini. Ma non eravamo capaci, fu in quel momento che nella scuola italiana avvenne una specie di miracolo: questi insegnanti

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giovani, inesperti, incapaci di gestire la scuola pubblica, dopo il passaggio dalla dittatura alla libertà e dalla guerra alla pace, si riunirono, trovarono una persona che seppe riunirli insieme e insegnar loro che attraverso lʼunione e lo scambio delle esperienze, attraverso la documentazione di tutte le esperienze potevano diventare i realizzatori della democrazia a scuola. Un amico morto da poco, Giuseppe Tamagnini, raccolse questi primi maestri in un nucleo. Lui non ha inventato niente, aveva capito che lʼItalia aveva bisogno di una scuola che fosse democratica, una scuola della libertà. Ha cercato un poʼ dappertutto una scuola modello che potesse essere presa come esempio per quella italiana, anche in Italia ce nʼera qualcuna, ma erano tutte scuole private, scuole particolari, lui invece voleva introdurre nella scuola pubblica il concetto di democrazia e di libertà. Trovò un esempio nel maestro francese Celestine Freinet, il quale dopo la prima guerra mondiale era ritornato dalla battaglia con un polmone in meno perché era stato ferito e riuscì a realizzare

insieme ai bambini una cosa strana e cioè che i bambini avessero a disposizione la stampa, una tipografia a scuola con la quale potevano stampare i loro pensieri, non quelli della maestra, non quelli del libro scolastico, ma i loro pensieri. Queste tecniche di vita furono proposte a noi giovani maestri per sperimentarle e vedere se è vero che si può realizzare lʼinsegnamento della scrittura e della lettura attraverso il pensiero stesso dei bambini e fu così che piano piano, quelli che avevano fatto delle esperienze, le portavano nei convegni annuali che facevamo e ci si scambiava queste esperienze e ci si arricchiva così. Era la prima volta che nella storia della scuola italiana i maestri si riunivano assieme e rielaboravano una pedagogia popolare, capace di introdurre nella scuola la democrazia e la libertà. Questa è stata lʼesperienza che ho vissuto io nel passaggio dal fascismo alla libertà e alla democrazia. Alcune di queste cose erano un ribaltamento completo della pedagogia della trasmissione. Prima si dettava il tema, cosa

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assolutamente abolita da noi, perché voleva dire costringere lʼalunno a parlare di una cosa anche se non la conosceva bene e allora si puniva chi non era capace, ma quelli puniti saremmo dovuti essere noi perché non riuscivamo a trovare un argomento che potesse interessare ai bambini. Unʼaltra cosa era la corrispondenza, i maestri insegnavano ai bambini che scrivere vuol dire comunicare, ma a chi? A persone fittizie? No a persone vere che erano bambini di unʼaltra scuola anche lontana con la quale potevano poi incontrarsi ed essere ospitati. Il calcolo vivente, parola nuova che non avevamo mai sentito, la matematica pratica, lʼeconomia, tenere le entrate e le uscite in una cassa scolastica, i soldi veri a scuola, ci occorrevano per acquistare la carta e lʼinchiostro per stampare i giornali. La ricerca e la scienza non era studiata sul libro ma trovata sul libro della natura, nellʼambiente. Perciò cʼera un ribaltamento completo di quella che era la vecchia pedagogia.

Mentre parlavi di corrispondenze mi è venuto in mente che una delle tue corrispondenze scolastiche più famosa è stata quella con don Lorenzo Milani e penso che possa interessare questa tua esperienza che in qualche modo ogni tanto riemerge dagli archivi della vita di don Lorenzo Milani. Puoi raccontarci qualcosa di questo tuo incontro?

Mentre noi facevamo tutte queste esperienze, don Milani realizzava nella sua parrocchia una scuola nuova che era una pluriclasse perché cʼerano bambini di età diverse. Questi bambini andavano a scuola tutto lʼanno anche per Natale e per Pasqua. Io ho avuto lʼoccasione di andare a Barbiana, mi ha portato un giornalista mio amico, Giorgio Pecorini, un giornalista dellʼEspresso che era già venuto nella mia scuola a interrogare i bambini. Unʼestate del 1963, mentre le nostre famiglie andavano al mare, mi propose di andare con lui a conoscere un prete diverso e mi accompagnò su a Barbiana. Incontrai questo prete il quale era molto diffidente

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nei confronti di chi andava lì a vedere e a curiosare quello che faceva, ma grazie alla presenza del mio amico si fidò. Lui mi fece tantissime domande: che cosa facevamo a scuola, comʼera la scuola, comʼerano i bambini, comʼerano i programmi ecc. Allora io ho spiegato quello che stavamo facendo come Movimento di Cooperazione Educativa: il calcolo vivente, il testo libero, la corrispondenza, il disegno, addirittura anche la danza, i giochi, insomma la scuola attiva. Lui era molto meticoloso e voleva sapere bene, allora gli spiegavo anche i particolari, di come per esempio si stampava un testo, cʼera una cassa tipografica con i caratteri di piombo e le parole che venivano dal pensiero del bambino, il quale pensiero veniva dallʼesperienza del bambino. Dallʼesperienza al pensiero, dal pensiero allo scritto, alla stampa, alla stampa che portava a casa ogni giorno, quella paginetta sulla quale cʼera scritto quello che avevamo fatto a scuola. Ascoltò tutto questo con grande interesse, io stesso chiedevo ai ragazzi di Barbiana cosa facevano e mi

hanno spiegato la loro scuola. Una scuola dove siamo tutti maestri e scolari, perché quello che capisce bene una cosa la deve insegnare a chi non lʼha ancora capita, era la solidarietà in atto. I più grandicelli diventavano i più abili maestri di questa scuola, il priore faceva la lezione, loro la imparavano e chi non capiva veniva aiutato dai compagni. Sono stato lì a dormire e continuammo anche il giorno dopo a parlare. Erano due esperienze, il Movimento di Cooperazione Educativa nella scuola pubblica e don Milani nella scuola privata. Infine mi disse: “Io di tutte queste cose che ho sentito ce né una che mi interessa, la corrispondenza, perché la corrispondenza è il fare una lettera insieme, mettere insieme i nostri pensieri, anche quelli dei più piccoli con i bigliettini, metterli insieme e creare una lettera, una lettera che fosse lʼespressione del lavoro della nostra classe” lui vedeva questo come una cosa religiosa, la comunione, la solidarietà, il pensiero rispettato del bambino e valorizzato. Disse “Siamo in agosto, se noi decidiamo di tenere la

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corrispondenza dal 1 al 4 novembre dovrebbe arrivarvi la lettera”. Il 2 novembre puntualmente ne sono arrivate due, una era la lettera dei bambini che scrivevano come era la loro scuola e perché ci andavano e se gli piaceva, e lʼaltra era la lettera di don Lorenzo che spiegava come essi avessero imparato lʼarte dello scrivere, ci avevano messo nove giorni per fare questa lettera, ma avevano imparato una cosa fondamentale: se da quella scuola usciva un documento, avrebbe portato il pensiero di tutti. Un pensiero di cui don Milani si rendeva notaio.

Oggi il lavoro di gruppo a scuola non è unʼesperienza normale e comune, dal 1978 la scuola ha avuto unʼinvoluzione abbastanza netta, si è passati da una scuola dove esistevano queste tendenze e tensioni a favorire delle esperienze, a stabilire dei contatti e a problematizzare; a una scuola rientrata ancora sulla ripetizione e sul nozionismo. Ci si chiede come è possibile essere tornati indietro ad una

scuola fortemente de- esperienzalizzata. Lezione, studio, interrogazione… mi chiedo in relazione a questa ultima riforma scolastica, come valuti questo ultimo periodo della scuola italiana?

Possibile che delle due esperienze del Movimento di Cooperazione Educativa e della scuola di Barbiana niente oggi sia valido? Che sia tutto ignorato e che si inventi una riforma inesistente sulla base delle abilità del bambino? Questo è un interrogativo che io pongo a me stesso quando penso a questi problemi della scuola. Io sono stato nella commissione di De Mauro per poco tempo perché poi ci sono state le elezioni e il ministro è andato a casa e sono venuti altri ministri (N.d.R. a Tullio De Mauro ministro fino al 2001, segue come ministro dellʼIstruzione Letizia Moratti che attua una riforma del sistema scolastico negli anni 2003-2004) che hanno creato questa idea della riforma. Quando eravamo in commissione io sostenevo, ed anche altri sostenevano, che la scuola è fatta per il bambino, mi

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pare unʼidea lapalissiana che il bambino cresca e diventi un cittadino libero. Per avere questa idea, per realizzare questa idea occorre essere convinti che bisogna collocare la scuola dentro un sistema. Il sistema nostro deve essere della libertà e della democrazia o deve essere invece dei furbi che diventano padroni di tutto? In che modo dobbiamo creare cittadini democratici rispettosi? Possiamo prendere dalle esperienze di cui abbiamo parlato: il movimento e don Milani, (dimentichiamo che ci sia stato il movimento e don Milani) cʼè però il bambino, noi dobbiamo fare il discorso su questo importante elemento della nostra società, il bambino, il cittadino futuro. Dobbiamo studiare o meglio capire o meglio imparare

dal bambino la lezione che
egli ci da.
Il bambino nel grembo materno è stato paragonato a un astronauta che deve sbarcare su un mondo sconosciuto e che deve imparare a conoscere. In una situazione di privilegio e di protezione, dal cordone ombelicale gli arriva il cibo, è

protetto dal liquido amniotico, il corpo della madre lo riscalda, lui si forma e perfeziona gli strumenti che gli serviranno per conoscere il mondo in cui sbarca e quando è pronto, una spinta lo lancia fuori e sbarca sul pianeta terra. Di questo inizio dobbiamo tenere conto quando vogliamo creare una scuola adeguata al bambino. Che cosa fa quando sbarca? Subito e improvvisamente si trova di fronte a delle difficoltà, ma anche a delle scoperte, lui scopre che cʼè una voce sconosciuta che gli parla, se lui ha un bisogno e piange la voce sconosciuta gli va vicino e gli da una risposta amorevole e pronta, così capisce che non è solo e che cʻè qualcuno che si cura di lui. Comincia poi da solo ad inventare la sua scuola che è una scuola fondata sul piacere e sul gioco, lui gioca con tutto quello che vede e che può toccare. Nei primi tre anni di vita avviene questo miracolo che il bambino inventa… fa la riforma scolastica in cui cʼè la scienza sperimentale. Prima dei tre anni di vita il bambino in casa comincia ad orientarsi, va a gattoni ma si orienta. È già in

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nuce la geografia e lui lo fa giocando, toccando il divano, la sedia, spostando. I suoni, i colori, i sensi servono per catturare queste sensazioni, grazie a questi sensi ricava i dati della realtà, li incorpora, li fa propri, li confronta tra di loro e ricava una sintesi che lui non dice ma che pensa. Il suo cervello è come il computer che mette a confronto, ricava delle sintesi e si forma una sua cultura. Le esperienze dei primi tre anni di vita le può raccontare anche con il segno, i primi scarabocchi sono il racconto della sua vita, della sua esperienza e noi ci troviamo di fronte a genitori che li deridono e che non apprezzano questa grande scoperta del piccolo dellʼuomo. Quello scarabocchio potrebbe diventare arte, perché se noi li mettiamo nelle condizioni di continuare quella ricerca lui man mano che cresce si accorge dei particolari che mancano, ma se noi lo interrompiamo perché gli vogliamo far fare il chiaro e lo scuro o il senso della prospettiva ecc… che lui non è capace di fare, lo ostacoliamo e distruggiamo un suo linguaggio,

il linguaggio grafico. Lo stesso accade per la parola, in principio sente un suono ma poi nelle diverse situazioni sta ad accostare o ad abbinare un gesto ad un suono e comincia a decifrare ed a carpire il segreto del linguaggio sconosciuto di questo Pianeta che è la sua lingua. A tre anni sa già parlare, non ha frequentato nessun corso di linguistica o di grammatica, ma lui sa già un certo numero di parole, le sa coordinare sintatticamente, dare un senso alla parole e parlare. Quando va alla scuola dellʼinfanzia lui sa esprimersi e noi questo non lo consideriamo, chissà, forse pensiamo di essere noi i creatori di questa pedagogia fondata sul piacere del gioco e sulla conquista dei linguaggi. Che cosa dovremmo fare? Viene fuori la scuola dei grandi per i bambini. La scuola dei grandi, se vuole rispettare la prima esperienza del bambino che lo ha portato a queste conquiste, deve continuare, fare entrare nei programmi il gioco come didattica, che poi diventerà interesse. Quando ci si innamora della cultura e studia, è perché gioca, perché

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gli piace, e così questa lingua che il bambino scopre e che formula con brevi pensieri, può diventare poesia e noi abbiamo il dovere di innalzare il livello culturale della parola. È questa la nostra riforma: continuare lʼesperienza del bambino che è in atto fin dalla nascita, per farlo diventare un cittadino felice nel senso giusto, di avere degli interessi e nello stesso tempo nel considerare gli altri amici e non avversari. Non andare a scuola per primeggiare e per diventare il più bravo. Questo è un poʼ il senso politico della formazione del cittadino democratico. Noi in commissione abbiamo espresso queste idee e le avremmo portate avanti, le portiamo avanti adesso nellʼambito delle nostre esperienze e ci auguriamo che siano anche recepite da chi si occupa della scuola italiana.

Tu hai detto amici e non avversari, un valore molto grosso del tuo lavoro educativo è stato proprio quello dellʼincontro con lʼaltro, come dire della pace contro la guerra e la violenza,

contro le differenze e lʼeliminazione dellʼaltro. Allo stesso tempo però notiamo la tendenza a riproporre i valori militari come valori assoluti. Non si può certo dire che tutta una serie di retorica sia venuta meno. La pace è stata un caposaldo del tuo lavoro, tu valorizzavi anche i litigi dei bambini perché il litigare lo consideravi una parte della loro esperienza e non una cosa da reprimere, un momento di apprendimento. Puoi darci una speranza rispetto a questo discorso della pace?

Tu hai richiamato adesso unʼesperienza che avevo documentato nella mia classe quando i bambini litigavano: fin dalla prima classe cominciavano i litigi per delle cose banali, io ho pensato che era una ricerca che si doveva condurre sul perché nascono i litigi. Bisogna subito dire ai bambini che non sono in un tribunale dove si va a cercare il colpevole, ma si va a cercare il motivo della nascita dei litigi, questa esperienza è stata molto valida perché nei cinque anni

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erano quasi del tutto scomparsi i litigi e visti come debolezze di ciascuno a non considerare lʼaltro, anzi a volte erano osservazioni che portavano a una riflessione e a soluzioni creative.

Quali sono gli argomenti che si possono motivare nella creazione di una scuola di una società civile? Allora noi avevamo il compito di introdurre nella scuola i principi della democrazia e della libertà. Riferendoci ad oggi, potremmo riflettere sullʼEuropa. Per la prima volta nella storia dellʼEuropa, degli stati che si facevano delle guerre si uniscono insieme, probabilmente per non farsi più guerra fra di loro ma anche per creare lʼidea della pace preventiva, cioè capire i problemi dei contendenti per non fare scoppiare la guerra. Io credo a questa idea dellʼEuropa, ovviamente ci sono persone che non ci credono molto perché lo vedono quasi un impedimento a unificare lʼItalia. Io non so perché i libri di storia sono tutta una vicenda di guerra e di pace e invece non si descrive la

funzione che ha avuto il pensiero non violento da Gandhi a Cristo a Tolstoj… personaggi sconosciuti nella nostra scuola. Mi arrivano molte lettere di bambini sulla pace, sempre meglio facciano le filastrocche che altri discorsi negativi, ma io ho paura della retorica, ho paura che ci sia questa retorica della pace vista come una bella poesia e io spesso domando loro: “Ma tu, tu che mi hai scritto questa poesia, un atto di coraggio nei confronti di una persona che ti è antipatica, lʼhai fatto? O di una persona cha ha avuto bisogno, lʼhai aiutata? Quella è la Pace”.
Io vorrei dirvi: mettiamoci insieme e creiamo una pedagogia di pace una pedagogia della libertà.