Ricordare Illich
di Pietro M. Toesca
dossier Illich Ricordare Illich Ricordare Ivan Illich è ricordare il suo contributo all’elaborazione di un giudizio grazie all’identificazione dei criteri che lo costituiscono come una vera e propria presa di coscienza radicale. |
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Ricordare Illich, per me e per coloro che appartengono alla mia generazione (che è appunto quella di Illich), significa ritrovare, attraverso la memoria, le tracce del percorso che ci ha condotto al giudizio che noi oggi diamo della realtà che ci circonda e alla presa di coscienza il più lucida possibile dell’alternativa storica dinanzi alla quale noi ci troviamo. Proiettiamo forse il nostro pensiero su una posizione datata facendola apparire anticipatrice e straordinariamente profetica? Certamente, ma il senso di questa proiezione sta proprio nella possibilità di assumere Illich come nostro interlocutore attuale: come per tutti i grandi pensatori la sua storicità non è un limite che lo costringe prima o poi all’obsolescenza, ma lo straordinario contributo, concreto e ad un tempo universale, metatemporale, alla formulazione di un giudizio che non si riduca all’interpretazione di fatti che, con il loro superamento, travolgano con sé il pensiero che ne ha preso atto, ma che è destinato a rimanere elemento di una rappresentazione dinamica grazie alla quale chi pensa e agisce nel mondo gli può essere consapevolmente, appunto lucidamente presente e attivamente attento alle sue necessità. L’istituzionalizzazione Ricordare Illich è dunque riscoprire un criterio di giudizio che permette di vedere la realtà storica, che ci riguarda, nel suo insieme; ed è il criterio della deistituzionalizzazione. E per istituzione si intenda la realtà e il simbolo di quella storicizzazione assoluta che va sotto il nome di realismo. L’istituzione è la risposta organizzata a bisogni ovvero a domande che l’individuo rivolge alla società nella convinzione che essa possa supplire alla sua impotenza ad esercitare un diritto e quindi trasferendo questa necessità soggettiva ad un meccanismo oggettivo che via via si costituisce in logica oggettiva e diventa così pretesa esclusiva di disporre degli strumenti necessari a soddisfare quei bisogni e quelle richieste. Il diritto si trasforma così, a sua volta, in dovere e l’obbligo sociale di intervenire e di provvedere passa al soggetto individuale come dipendenza assoluta e appunto obbligo di rivolgersi senza alternativa all’istituito ed autorizzato fornitore di servizi. Così si costituisce il monopolio istituzionale e il rapporto tra individuo e società si rovescia perfettamente, poiché non è più l’attività del soggetto individuale che associandosi fonda e controlla continuamente l’organizzazione delle risposte sociali e quindi della società intesa come soggetto collettivo e dialogante tra di sé, ma è la società organizzata, tendente alla conservazione della propria figura definita una volta per tutte, ad imporre le proprie regole ed i propri procedimenti e quindi assumendo nella propria oggettività tutta la soggettività degli associati espropriandoli proprio di ciò che essa sarebbe invece chiamata a sostenere e a garantire realmente. L’originaria giustificazione dell’istituzione si perde con la trasformazione di questa in interlocutore obbligatorio e assolutamente autoreferenziale. Attraverso questa autoreferenzialità passano tutte le regole di comportamento che invece di mettere in grado gli associati, cioè la comunità, di esercitare la propria libertà creativa trasferiscono direttamente quel potere a chi, in un modo o in un altro, cioè con la forza o con il consenso, è incaricato o si incarica di esercitarlo concentrandolo in sé ‘per il bene e al servizio’ di tutti. Ogni istituzione è a rischio di questa ambiguità, dalla famiglia alla scuola, dal luogo di lavoro alla società tutta. La società organizzata tende a sostituire monopolisticamente ogni processo di realizzazione della relazionalità che è un aspetto dell’individualità di ciascun soggetto umano e che per essere mantenuta nella sua verità deve poter fare riferimento continuo a se stessa ed alla propria formazione progressiva. La società deve ‘fare’ liberi, come la società deve essere ‘fatta’ dalla libertà effettiva degli associati. Il monopolio espropriante Contestare l’istituzione significa per Illich contestare questo monopolio espropriante che mantiene in uno stato di inferiorità e di dipendenza permanente ed anzi progressiva gli individui che compongono la società e che invece di maturare attraverso e grazie ad essa sono costretti sempre più e in ogni campo ad obbedire a chi comanda con una giustificazione che riduce di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e cioè all’esercizio effettivo della coscienza. La società dei consumi interiorizza semplicemente la costrizione sociale, trasformando la paura della repressione in vergogna della emarginazione. Il paradosso è che la libertà circolante nella democrazia dei consumi ‘libera’ tutte le forme di licenza corruttrice ed oltretutto miope e contraddittoria in funzione di un unico scopo, quello dell’interesse esclusivamente individuale che, per corrispondenza all’abrasione sociale dell’individualità, elimina semplicemente la relazionalità come condizione e partecipazione all’umanità comune. La convivialità L’alternativa? Illich la indica nella ‘convivialità’. Si tratta di recuperare, senza i salti e i rovesciamenti della mediazione artificiale che invece di essere tramite di sviluppo sostituisce e cancella i passaggi ‘naturali’, i processi attraverso i quali la razionalità costitutiva di ogni soggetto costruisce via via i rapporti reali, li esercita e li sperimenta in continuazione, attribuendo alla società il connotato e le dimensioni autentiche di un soggetto collettivo che non estrania né espropria i singoli ma li immerge in un dialogo fecondo che, mentre li fa uscire dalla solitudine, riversa su di loro, a sua volta, la propria acquisita e crescente forza inventiva, smontando ogni volta la tentazione istituzionale e mantenendo l’insieme in perenne attenzione cosciente, giudicante, partecipe, creativa. La demistificazione del potere Con questo Illich è in pieno nel processo di demistificazione del potere e dell’autorità, quella clamorosa scoperta, o riscoperta se si fa attenzione a tutte le anticipazioni dell’umanità cosciente e pensante, che sfugge sempre, ed è addirittura sfuggita a molta parte della contestazione rivoluzionaria dell’ultima storia, che l’eguaglianza tra gli uomini è sì un diritto strutturale ma non si attiva realmente se non attraverso una effettiva eguaglianza di partecipazione sociale, non contraddetta dal rientro per la finestra, cioè sul piano dei fatti, del monopolio organizzativo, scacciato dalla porta, cioè dalle parole dichiarative grazie a cui si finge la definitiva eliminazione di uno schema metodologico di differenze qualitative e quantitative che si riaffacciano poi con tutta la forza (ahimè) necessaria, cioè dell’extrema ratio quando si passa poi davvero all’operatività. La descolarizzazione La descolarizzazione non è il rifiuto o l’eliminazione della dimensione educativa ma la sua restituzione alla trasversalità universale; ogni azione ha, lo si voglia o no, un versante pedagogico ed è alla restituzione di questo aspetto di strutturale reciprocità dinamica dell’azione umana che bisogna porre esplicita attenzione. Ogni istituzione come oggettiavazione operativa deve avere questo carattere della dinamicità e quindi della provvisorietà strumentale che esalta esclusivamente il potere derivante dallo stare insieme, potere dunque evidentemente condiviso e da condividersi sempre più (questa è la politica come pedagogia). La scuola come istituzione definitiva e sclerotizzata, cioè autoritaria, impedisce questo processo generale di coeducazione, sostituendolo con un indottrinamento istruttivo che trasforma ogni uomo che vi passa (ogni alfabetizzato) in tecnico a vari livelli, anche minimi, da cui è estromessa come destabilizzante proprio quella competenza grazie alla quale ogni uomo si riconosce appartenente ad una comune umanità, la cui figura storica è via via attrezzata sì di competenze particolari e strumentali ma soprattutto di una coscienza di sé che le deriva dalla cultura intesa come giudizio, come approssimazione alla verità, come ininterrotta meraviglia di fronte all’esistenza. Universalità della dimensione pedagogica L’apprendimento viene così liberato dalla dipendenza esclusiva dall’insegnamento: la dimensione pedagogica si ritrova come un aspetto del sapere e dell’agire di chiunque, anche del più modesto uomo la cui esperienza ha una potenzialità di comunicazione conoscitiva che è infinitamente e imprevedibilmente superiore al riconoscimento formalizzato che la codificazione sociale ne può dare. Illich segnala i casi e i successi dell’apprendimento cogestito da partners di cui uno dispone semplicemente di un sapere che ne costituisce la capacità comunicativa e relazionale (vedi una lingua, una capacità tecnica) e l’altro ha bisogno di acquisire quegli strumenti per comunicare a sua volta con la realtà che lo circonda. La scuola manca assolutamente di questa condizione concreta e perciò insegna in modo statico, vale a dire ciò che non serve e a chi non ne ha bisogno (avendo in realtà altri bisogni e dunque altre attese che, disattese, lo disgustano e lo rendono ormai irrimediabilmente ignorante). E questo avviene con un dispendio enorme di denaro, di risorse, di energie e di organizzazione che si potrebbero risparmiare soltanto se si desse ascolto alla figura reale della richiesta di sapere ed alla presenza nella realtà sociale di ogni epoca e di ogni situazione di una straordinaria ricchezza di elementi educativi che non attendono altro che di essere attivati con pochissima spesa e con una reale partecipazione di tutti coloro che ‘vogliono’ sapere. La società vivente Le persone di una tale società a cui pensa Illich non sono il risultato ma il principio stesso, il fondamento di una operatività che deriva direttamente dalle doti che le costituiscono nella loro semplice esistenza. Il rapporto reale attiva queste doti il cui esercizio incrociato e molteplice costruisce via via una società che non è già costituita a priori rispetto a ciascuno dei suoi membri: egli non vi si deve inserire, ma è piuttosto in grado di attribuirle i connotati viventi che egli elabora semplicemente vivendo. Il segreto di questo passaggio, dalla vita di ciascuno alla realtà sociale, sta nell’attivazione di quella dimensione che si è chiamata pedagogica, l’utilizzazione della forza comunicativa come istituzione di un rapporto creativo di risultati, cioè di una crescita comune. Si tratta di una istituzione la cui oggettività non è altro che l’esercizio reale della soggettività attivata dalla reciprocità. Il rischio di sclerosi espropriante è evaso continuamente dalla possibilità di appropriarsi in ogni momento della iniziativa, e questo coincide con la libertà. Sostanzialmente la funzione sociale è liberatoria, e il suo principio sta nella libertà stessa dei singoli attivata dalla relazione. La scolarizzazione come principio Illich identifica nella scolarizzazione il principio invasivo dell’istituzionalizzazione sociale generale: è lì che i processi significativi vengono requisiti e il bambino si abitua a rivolgersi ad una serie di protesi che, mentre lo attrezzano artificialmente ad ogni bisogna, lo privano della possibilità, cioè della capacità di fruire direttamente delle indicazioni di un ambiente significativo. L’alternativa è proprio una società come ambiente significativo, in cui le istituzioni, invece di manipolare le indicazioni della realtà varia e dinamica ordinandola in pacchetti la cui logica di mantenimento sostituirà totalmente la funzione vitale in coloro che da quel momento da quel mantenimento dipenderanno, non avranno altro compito ed altra giustificazione che quella di mettere in grado gli ‘utenti’ di essere autonomamente attivi, giudicanti e liberi. Una sorta di ossimoro fecondo che demitizza la necessità dell’istituzione, la cui provvisorietà funzionale consisterà nell’operazione di autoeliminazione, di sostituzione progressiva della propria necessità con la maturazione comunitaria. Una maturazione che ha sì una progressività, uno sviluppo (e questa è la storia come presa di coscienza successiva crescente) ma che richiede sin dall’inizio l’impostazione del rapporto istituzione/comunità in termini tali che la prima valga come strumento interno della seconda e non come referente dialettico assoluto definitivamente ineliminabile in nessuna occasione. Questa versione statica dell’istituzione reintrodurrebbe, come di fatto reintroduce, un’altro concetto di storia, la ricorrente dialettica tra positivo e negativo, tra buoni istinti e cattivi istinti umani, alla cui neutralizzazione sarebbe addetta insostituibilmente l’istituzione. Controllo, contenimento, repressione: questo è il compito della legge. Il corretto processo di umanizzazione dell’umanità punta invece sulla presa di coscienza, che a questo punto è evidente come sia impedita invece che favorita da istituzioni che si fondano sul presupposto dell’incapacità originaria dell’uomo di organizzarsi i percorsi per la propria realizzazione. Non all’uomo singolo associato ma ad un mitico fantasma delegato (formalmente o no) spetterebbe questa liberazione dall’impotenza, che però paradossalmente rimarrebbe eternamente tale a giustificare l’esistenza necessaria di un referente dialettico fattosi a tutti gli effetti potere. Assolutamente diseducativo poiché estraniante, interruzione, sbarramento di quei processi grazie ai quali, come dimostrano i primi anni di vita dei bambini, si esercita l’aspetto dinamico della ‘natura’ dell’uomo, cioè il suo statuto di ‘apprendista’, di persona che si fa persona. Perché ciò accada bisogna restituire al rapporto sociale la sua forza educativa, quel passaggio osmotico di capacità e di virtù che sta alla base di ogni invenzione civile e culturale. La legge sta forse alla base dell’arte, della solidarietà, del riconoscimento reciproco o non è piuttosto l’estremo e disperato rimedio alla constatazione della loro assenza, cioè del loro bisogno insoddisfatto? Dove non c’è giustizia si ricorre alla legge, e questo ricorso sostituisce definitivamente la giustizia ed il suo bisogno. Così la scuola si pretende cultura: ma quale invenzione culturale è mai nata dalla scuola e non piuttosto dalla sua contestazione (o addirittura dall’indifferenza nei suo confronti)? La restituzione sociale Il testo principale di Illich Descolarizzare la società è scritto negli anni della contestazione (’60/’70) in cui è attribuito e quindi richiesto alla stessa istituzione di autoriformarsi, cioè di trasformarsi radicalmente grazie alla riappropriazione, da parte di tutti i suoi fruitori, insieme ai suoi operatori, delle condizioni originarie e giustificative in vista delle quali esse sono nate. Il che comporta a volte, e all’estremo, la propria autodemolizione come premessa alla restituzione sociale dei processi di soddisfazione di un bisogno. Il secondo passo è proprio quello educativo, l’educarsi collettivamente cioè reciprocamente a identificare con esattezza bisogni e procedimenti adatti a soddisfarli, demistificando le induzioni generate dalla confusione del bisogno con l’impotenza; confusione che produce il proliferare di una serie di altri bisogni artificiali che prendono il posto di quello originario e lo trasformano appunto nell’incapacità del soggetto di provvedere in qualche modo a sé e lo consegnano mani e piedi ad una organizzazione che provvede, con l’apparenza e dunque l’alibi della soddisfazione del bisogno, a privarlo di ogni autorizzazione e di ogni energia autonoma. Così il cittadino non esce dalla condizione di suddito, e lo Stato sociale non è altro che il rafforzamento del Potere concentrato. Non si è mai sentito parlare di una politica sociale di destra? molti esiti delle rivoluzioni sociali del secolo ventesimo fanno capo a questo equivoco. Scuola e cultura Leggere Illich vuol dire respirare contemporaneamente le origini di una cultura che per poter manifestare la propria essenzialità deve essere liberata dalla sua ambiguità che la fa pretendere, e così spesso nella storia la trasforma, come principio del dominio, e insieme identificare esattamente l’antidoto di questo rovesciamento, cioè il ritrovamento del significato di quelle origini nel riferimento alle dimensioni elementari, ‘naturali’ dell’uomo che si scopre come soggetto ed esercita per tutta la vita le conseguenze, che sono anche le condizioni, di questa scoperta. È questo ritrovamento che la scuola impedisce, emarginando i più con l’esclusione, o con un pesante giudizio di inadeguatezza, dal processo di apprendimento requisito in termini di sistema tutto precostituito, cioè affatto indipendente e previo rispetto all’esercizio stesso dell’apprendimento, che dovrebbe invece avere principio in se stesso. Cosicché l’autoeducazione che non abbisogna di altro che dell’attivazione dell’aspetto didattico/comunicativo delle doti di ciascun vivente, è sostituita e dunque resa impotente dai dettami elaborati da un sapere che fa riferimento a se stesso (ai propri metodi, e fini, e privilegi) e affatto alle richieste reali e sensate di chi vuole sapere. Così i più sono esclusi, e la curiosità naturale e generale lascia il posto alla logica di una costruzione maneggiabile da coloro che hanno il coltello per il manico, cioè da coloro che possiedono ed esercitano il sapere come privilegio discriminatorio. Ovvero come lo strumento principale della discriminazione. Pietro M. Toesca |