LA LOTTA PER I ‘DIRITTI DELL’INFANZIA’: UN PROGETTO POLITICO-CULTURALE di Andrea Sola

 

Il degrado crescente della vita scolastica

I motivi di tensione e disagio nella scuola sono decisamente in crescita. Il peggioramento delle condizioni strutturali (sovraffollamento delle classi, instabilità cronica del corpo insegnante, complessivo senso di insicurezza ambientale e precarietà economica). La difficoltà di valorizzare la presenza crescente di alunni provenienti da contesti culturali diversissimi che da risorsa culturale e civile diventano fattori di disgregazione ed ostacolo all’andamento della vita collettiva nelle classi.  La progressiva iperburocratizzazione di tutti gli aspetti della conduzione delle pratiche didattiche (legislazioni sempre più severe, riduzione degli spazi di iniziativa e movimento all’interno della scuola e di scambio con l’esterno) e l’invadenza sempre più accentuata di una mentalità classificatoria e valutativa. Lo svuotamento di tutte le forme di controllo democratico e diretto della conduzione scolastica da parte dei suoi effettivi protagonisti ed una sempre più crescente centralizzazione nelle mani dei dirigenti. La rimozione da parte degli organi rappresentativi del personale scolastico dell’interesse per la dimensione del rapporto educativo, limitandosi a riportare tutto il problema in termini puramente economicistici (i tagli agli investimenti, la lotta al precariato, i fondi alle scuole private, ecc) che, pure sacrosanti, non possono spiegare la vera natura della crisi del sistema, che ha una valenza che investe la concezione stessa del rapporto educativo e formativo. Un progressivo peggioramento delle condizioni psicofisiche del corpo insegnante, che è naturalmente oltre che causa, effetto della situazione di degrado ed emergenza complessiva (l’incidenza di forme di disagio psicologico e burnout negli insegnanti è superiore in modo statisticamente significativo rispetto alle altre professioni a causa proprio della situazione di stress prodotto da questo tipo di organizzazione scolastica).

Più in generale si può affermare senz’altro che si assiste ad uno scadimento della qualità dell’insegnamento e dell’impegno “ideale” del corpo insegnante, determinato essenzialmente dal tramonto delle sperimentazioni degli anni settanta e dal clima di impegno ed attenzione alla relazione educativa che lo caratterizzava, che va di pari passo con l’assenza di percorsi formativi degni di questo nome per i futuri insegnanti. L’immissione nell’insegnamento di nuovi docenti assolutamente digiuni delle esperienze e del bagaglio culturale delle generazioni passate, con la perdita della memoria delle sperimentazioni degli anni settanta, che pur coinvolgendo una ristretta minoranza del corpo insegnante avevano iniziato a dare un fondamentale contributo “politico-culturale” ad un rinnovamento in senso democratico e progressivo al mondo della scuola.

I nuovi insegnanti, assolutamente digiuni delle esperienze e del bagaglio culturale delle generazioni passate ed in compenson infarciti del ciarpame pedagogico di cui è spesso costellato oggi qualsiasi corso di laurea in scienze della formazione (la rincorsa alla “misurazione del sapere”, al mondo dei test, alle certificazioni, ai “bisogni speciali”, ecc ecc), sono troppo spesso privi di quella carica ideale, condizione a priori per una buona relazione educativa, che solo potrebbe renderli idonei ad affrontare ipotesi di cambiamento.

Impotenza della politica

La scuola italiana si presenta quindi in tutti suoi gradi come una istituzione chiusa in cui il grado di malessere ed insofferenza da parte di tutte le sue componenti sta costantemente aumentando e che ha come conseguenza un crollo verticale della sua credibilità. Di fronte a questa situazione la politica ha un atteggiamento di sostanziale ambiguità: da una parte proclama un grande interesse per il problema, ma dall’altra adotta criteri di intervento che dimostrano una scarsissima fiducia nelle reali possibilità che la scuola possa realmente assolvere al suo ruolo: segue la strada di emanare norme generaliste e calate dall’alto che non prevedono alcuna forma di partecipazione democratica, rinunciando quindi in partenza alla possibilità di impiegare e valorizzare le energie sane presenti nella scuola e nella società (sola strada per poter sperare nel superamento di una crisi che è di carattere fondamentalmente culturale). Dall’altra, sul versante delle scelte economiche, dichiara candidamente che gli investimenti per il settore saranno tendenzialmente in calo, aprendo quindi la strada a svariate forme di infiltrazione del potere economico privato nel settore della formazione. Sembra quindi che la vera scelta che sta dietro a politiche di questa natura (in maniera più o meno consapevole e deliberata, perché l’insipienza non è cosa da escludere a priori…) sia una rinuncia ad assumersi la responsabilità di un programma educativo coerente e di largo respiro, con ciò dimostrando di non sapere ne volere affrontare i veri nodi del rinnovamento del sistema educativo del paese.

Lo stato della sperimentazione nella scuola pubblica e le difficoltà crescenti di agire all’interno dell’istituzione

Nella scuola pubblica sono ancora in atto, anche se sporadiche, forme di partecipazione democratica e di pratiche didattiche che metto al centro la relazione educativa (vedi la categoria del sito che ne da conto). Molti insegnanti, qualche dirigente ed alcune realtà scolastiche di eccellenza stanno impegnando enormi energie per costruire forme di didattica che abbiano al centro i bisogni del bambino, ma tuttavia sono casi isolati e sopratutto non vengono incoraggiati e sostenuti come sarebbe auspicabile e logico.

Se poi si tratta di un singolo insegnante, nel caso in cui abbia sufficiente spirito critico ed energie da spendere per un impegno al cambiamento, quando tenti di mettere in atto una serie di comportamenti “controcorrente”, si scontra con il rischio di atti repressivi da parte della dirigenza, ma sopratutto con la difficoltà di sostenere scelte che di fatto lo isolano dai colleghi (oggi praticare il ruolo di “diverso” è del tutto fuori moda).

Le realtà scolastiche di eccellenza, che pure esistono, sono di norma caratterizzate dalla presenza di gruppi di insegnanti che da tempo agiscono in sintonia e sono stati in grado di mantenere al loro stile di lavoro una connotazione precisa con pratiche di sperimentazione collettiva anche di grande rilevanza, riuscendo così a far fronte alle mutazioni del quadro complessivo (cambio di dirigenza, immissione di nuovi colleghi, nuove emergenze sociali, ecc..) conservando le caratteristiche di partenza con una forte determinazione.

Va comunque tenuto presente che anche queste situazioni di avanguardia oggi stanno subendo, nonché un aiuto e uno stimolo al mantenimento delle loro caratteristiche di eccellenza, un continuo attacco da parte dell’apparato burocratico che, contrariamente ai buoni propositi dichiarati, non è assolutamente in grado di riconoscere e valorizzare queste esperienze, come è il caso delle rarissime sperimentazioni in atto che, nonostante abbiano ottenuto risultati di eccellenza, non sono mai state riprese e riproposte (vedi per tutte il caso della Scuola-Città Pestalozzi di Firenze).

Le strade fuori dall’istituzione: i percorsi  scolastici alternativi

Di fronte a tutti questi fattori di degrado che si ripercuotono in maniera pesantissima sugli alunni che mostrano sempre maggiori segnali di sofferenza e disagio, si assiste al fenomeno, oggi in Italia in grande crescita, della ricerca da parte delle famiglie di percorsi scolastici esterni alla scuola di Stato (vedi la categoria corrispondente).

Va innanzitutto detto che l’iniziativa da parte delle famiglie di cercare soluzioni alternative è un fenomeno assolutamente naturale perché risponde prima di tutto ad una forma nuova di consapevolezza e sensibilità alla tutela della salute e del benessere dei figli. E’ questa preoccupazione che muove un numero sempre crescente di famiglie ad attivarsi per cercare una risposta al disagio e spesso alla sofferenza dei propri figli.

Qui bisogna però non fare confusione tra la scelta di mandare i propri figli in luoghi elitari o connotati ideologicamente (scuole private per benestanti e scuole religiose) che c’è sempre stata ed ha riguardato una fascia precisa della popolazione scolastica, e la nuova (per l’Italia) tendenza da parte delle famiglie a cercare e\o costruire un percorso alternativo alla scuola pubblica non appunto in nome di una scelta ideologica o reazionaria (del tipo: “io mio figlio in mezzo agli immigrati non ce lo mando”) ma motivati da una ricerca sincera di contesti educativi che rispettino la persona del bambino e la sua libertà di apprendere, che siano cioè costruiti mettendo il bambino, i suoi bisogni i suoi diritti, al centro del progetto educativo/scolastico.

Queste esperienze di ricerca di percorsi alternativi alla scuola di Stato, pur molto diverse tra loro per ispirazione iniziale ed impostazioni pratiche, vanno allora viste come una risposta più che coerente alla crisi strutturale del sistema scolastico. Purtroppo questo fenomeno viene in Italia travisato e confuso con quello delle scuole private in generale, tralasciando, del tutto illegittimamente, che queste iniziative partono da uno sforzo ed un impegno personale rilevante delle famiglie che si fanno carico di avviare o aderire a questi progetti (certo partendo da una condizione di non indigenza e di consapevolezza culturale), ma comunque sempre motivato da una ricerca di un contesto educativo adeguato ai bisogni dei bambini. A questo proposito il vero oggetto del contendere andrebbe riportato sul piano della libertà dell’individuo e dei margini di autonomia nella costruzione di spazi di autogestione che si possono conquistare e di rimozione degli ostacoli alla loro crescita; e qui naturalmente bisognerebbe avere il coraggio di fare delle distinzioni nel merito: distinguere tra imprese commerciali e confessionali ed iniziative basate sull’esercizio del diritto all’autodeterminazione e quindi senza scopi di lucro; nel qual caso si tratterebbe di lottare per provvedimenti di varia natura amministrativa e burocratica, di liberazione di risorse immobiliari, di facilitazioni normative riduzione degli oneri burocratici e dei controlli, sgravi fiscali, ecc. Detto en passant, non si capisce perché una riduzione degli iscritti alle scuole pubbliche non dovrebbe essere vista come una tendenziale riduzione del numero di iscritti per classe con beneficio diretto della didattica. E comunque dare un’occhiata a quello che si sta facendo in qualche paese estero dove la pratica dell’autogetone educativa basata su pricipi democratici e nient’affatto classisti è in atto da lungo tempo non sarebbe affatto male per ampliare i termini del dibattito. Qui da noi ci sono concetti che sono interpretati in maniera estremamente riduttiva, al punto che non si vede nemmeno che potrebbero avere un significato diverso: ad esempio si identifica il termine “pubblico” con “di Stato”, cosa che non è assolutamente vera perché pubblico è qualcosa che è destinato a tutti, senza limitazioni, e allora lo Stato, attraverso i suoi organismi elettivi, potrebbe benissimo essere il garante di questa ‘pubblicità’ e quindi democraticità del servizio, senza per forza esserne il gestore. Sarebbe possibilissimo immaginare una diversificazione dei soggetti che gestiscono le proposte scolastiche, controllata da organismi super partes che ne controllino gli standard etici, qualitativi e gestionali. Oppure si identifica il titolo accademico come conditio sine qua non per accedere all’insegnamento: non sarebbe il caso di provare a mettere in discussione il valore legale del titolo di studio almeno nell’ambito dell’insegnamento? Non può forse essere considerato  prezioso insegnate uno scrittore, un artista, un artigiano, un musicista, ecc anche se non ha conseguito alcuna abilitazione all’insegnamento? Perché privare i giovani di conoscere ed entrare in relazione con figure portatrici di saperi profondi? 

Va detto che oggi non è più il tempo in cui ci si possa aspettare che i movimenti dal basso nascano e si caratterizzino da subito con una connotazione politica chiara e consapevole. La sfera politica è una dimensione a volte sfuggente che non riesce ad imporsi con chiarezza di obbiettivi e con risposte che contemplino la dimensione complessiva implicata dai singoli bisogni cui si tenta di dare risposta. Credo che si debba saper leggere la prospettiva in cui i movimenti reali si inseriscono anche se sono solo parzialmente consapevoli delle implicazioni del loro agire. La forte spinta cui oggi assistiamo ad una ricerca di vie alternative nella relazione con l’infanzia è ancora per lo più priva di una consapevolezza “politica”, nel senso che nasce come risposta ad un disagio concretissimo ma vissuto nella sfera individuale; ma sarebbe un gravissimo errore non vedere come di fatto contenga l’istanza di un radicale rifiuto dei valori della pratica educativa autoritaria, dogmatica e adultocentrica oggi ancora imperante: rispetto del bambino nella sua unicità, rifiuto della sopraffazione e del principio di autorità, riconoscimento della dignità individuale anche dei più piccoli, una dimensione ecologica nei rapporti con la natura e l’ambiente, uno sforzo di costruire relazioni di convivenza basate sulla democrazia reale, tanto per fare un rapido sommario, sono criteri regolatori che non potranno non avere ripercussioni positive nella prefigurazione di un avvenire diverso per tutti e che saranno i temi imprescindibili su cui misurarsi per un rinnovamento radicale delle scelte educative del futuro.

Le strade fuori dall’istituzione: gli interventi nel territorio

Sono in atto in tutto il territorio nazionale tutta una serie di interventi caratterizzati da una consapevolezza che definirei di ordine politico dello stretto legame che intercorre tra la realtà scolastica vera e propria e il territorio, cioè interventi che mirano a coinvolgere giovani e bambini per dare risposte ai loro bisogni fondamentali di socializzazione, benessere psicofisico, istruzione e crescita civile (vedi la categoria correlata). Questi interventi riguardano principalmente realtà disgregate come i quartieri popolari del sud e delle grandi città e le fasce di popolazione private dei diritti fondamentali all’istruzione (un settore importantissimo riguarda i giovani stranieri di recentissima immigrazione). Questi interventi partono dalla consapevolezza che c’è un legame indissolubile tra la dimensione scolastica e dell’educazione in generale e quella cittadina, cioè le condizioni sociali in cui si trovano a vivere i giovani. Questi percorsi, per quanto si dibattano in difficoltà crescenti rappresentano comunque nella  loro esemplarità la traccia da seguire per rompere l’isolamento del discorso educativo e dargli quel respiro sociale e politico che solo potrà portarlo fuori dalle secche del dibattito asfittico sull’educazione cui si sta assistendo oggi: una scuola “fuori classe” (per usare una espressione particolarmente felice usata dagli animatori del centro territoriale Mammut di Napoli) con i suoi percorsi di eccellenza è quella su cui si deve focalizzare l’attenzione per orientare il discorso. Ed è proprio su questo terreno che si può attuare una concreta contaminazione tra attività esterne e  pratica scolastica istituzionale: chi opera nella scuola ed è disponibile a ricercare nuove forme di relazione educativa può trovare in queste realtà lo stimolo culturale e lo slancio ideale per provare a modificare la routine scolastica e le proprie condizioni lavorative.

Certamente tutti questi tentativi e percorsi si muovono “senza rete”, in un doppio senso: sia dal punto di vista economico, per la estrema difficoltà di ottenere sostegno e riconoscimento dalle istituzioni (con il rischio concreto, tra l’altro, di essere sfruttate come “supplenze” alla carenza di risorse del welfare); sia dal punto di vista dell’isolamento in cui ciascuna realtà locale si trova ad operare rispetto alle altre realtà consimili.

Quali strategie per il cambiamento

Abbiamo visto come ci siano tre fronti del movimento per la trasformazione dello stato attuale: uno interno alla istituzione scolastica, uno che si propone di costruire modelli e percorsi alternativi, ed uno che agisce nel territorio e con soggetti non inseriti nel percorso dell’istruzione formale. Ognuno di questi settori si muove in maniera indipendente perché non si riconosce in un referente culturale comune. Questo reciproco isolamento è ciò che secondo me oggi va messo in discussione in maniera esplicita, a partire proprio dal terreno da cui nascono tutte le più autentiche “vocazioni” educative: la consapevolezza dell’oppressione subita dai più piccoli, che è il vero spartiaque tra chi si sta impegnando per un vero riscatto dell’infanzia e chi invece è mosso dal desiderio di autoaffermazione e controllo sociale. E’ su questa idea che dobbiamo centrare l’attenzione e farla emergere ogni volta che si manifesti: c’è un filo rosso che unisce una serie vastissima di esperienze, di sforzi, di tentativi di superare le concezioni e le pratiche educative autoritarie e impositive: lo si può trovare ovunque si cominci a parlare di bisogni reali, di disagio, di frustrazioni continue con chi abbia a che fare con l’educazione: nel genitore che sente di dover mettere in discussione il proprio atteggiamento di “adulto portatore di diritti propri” nei confronti del figlio, o nell’insegnante che decide di rinunciare alla propria autorità per assumere un atteggiamento di rispetto nei confronti dell’alunno.

I bambini sono categoria oppressa per eccellenza perché non può nemmeno contare su una azione consapevole di autodifesa e la cui soggezione agli adulti si può manifestare soltanto in termini di sofferenza ed insofferenza, con tutte le declinazioni del caso:  passività, cupezza, infelicità, autolesionismo. Chi voglia operare in nome di un riscatto della condizione giovanile deve essere capace di cogliere questo scontro in tutti gli ambiti in cui è in gioco la relazione educativa e non subordinarlo a priorità che provengono da una visione adultocentrica del conflitto sociale. Bisogna saper vedere tutte le articolazioni in cui si manifesta questo conflitto cogliendo la trasversalità del discorso sull’infanzia che investe tutti gli aspetti del vivere sociale.

C’è quindi a mio parere bisogno che tutti soggetti portatori di questa consapevolezza dei “diritti dell’infanzia” comincino a riconoscersi vicendevolmente ed inizino ad agire in sintonia, ponendosi degli obbiettivi comuni. E’ una operazione difficile perché la prospettiva adultocentrica è sempre pronta a prendere il sopravvento.

L’obbiettivo “politico” oggi secondo me sta proprio nel saper riconoscere questo terreno e queste prospettive comuni anche in ambiti sociali e culturali diversi per puntare ad un progetto politico\culturale unitario che dia  spazio, valorizzi e liberi tutte quelle risorse intellettuali di cui sono portatori questa molteplicità di soggetti; solo così, con campagne condivise di ordine culturale, si potranno conquistare spazi di azione nelle pratiche quotidiane della buona relazione educativa. Perché il cambiamento potrà avvenire solo se ci sarà una apertura della scuola alla società, cioè se le tematiche dell’educazione usciranno dalle mura scolastiche e verranno affrontate unitariamente dai diversi soggetti sociali coinvolti nello stesso impegno educativo.

E questa battaglia dovrebbe entrare nel merito dei singoli aspetti di questa relazione, affrontandone sia il senso generale che i risvolti pratici, concreti, quotidiani in cui si articola nei diversi contesti: il vuoto formativo dei futuri insegnanti ed educatori, le assurde rigidità strutturali e le ansie valutative che rendono asfittica la vita scolastica, le sopraffazioni ambientali, le discriminazioni mascherate e i meccanismi di espulsione dal percorso scolastico, le ipocrisie ideologiche, i mille aspetti della mercificazione dell’infanzia e della gioventù. Vanno individuati obbiettivi capaci di coagulare attorno a sé tutta quella parte degli operatori sul campo e dell’opinione pubblica che abbiano maturato una sensibilità a questa prospettiva e che possano quindi porli all’attenzione generale  e conquistare consensi.

Imporre queste tematiche in maniera unitaria, costruendo alleanze tra tutte le forze in campo, rendendo visibile questo assieme di progettualità, è l’unica strada affinché si possa sperare di fare dei passi avanti nella conquista di nuovi spazi di libertà e di conquista dei diritti dell’infanzia. Se non si riesce a portare all’ordine del giorno queste tematiche nessuna singola battaglia troverà la forza per affermarsi.