UNA CITTÀ n. 213 / 2014 maggio
Intervista ad Alessandra Cenerini, presidente dell’Associazione docenti e dirigenti scolastici italiani
realizzata da Giovanni Pasini
Alessandra Cenerini è presidente dell’Adi (Associazione docenti e dirigenti scolastici italiani) dalla sua fondazione, avvenuta nel 1998, con la finalità di affermare il professionismo della docenza, poi allargatasi alla dirigenza scolastica. È autrice di numerosi articoli e saggi sulla scuola e sulla condizione del docente.
In queste settimane si è tornati a parlare di valorizzazione del merito per gli insegnanti, cosa ne pensa?
In realtà se ne sta parlando da trent’anni, la novità sta nel fatto che recentemente il Miur ha avviato due “cantieri”, uno per la docenza e uno per l’istruzione tecnica e professionale. Sono due temi entrambi fondamentali. Il primo, in particolare, dovrebbe formulare proposte in materia di formazione, reclutamento e valorizzazione della professionalità degli insegnanti. Vedremo cosa ne sortirà. Non vi è dubbio che nei Paesi in cui si è puntato sull’istruzione come leva per lo sviluppo, si è sempre prestata grande attenzione agli insegnanti. Due esempi per tutti: la Finlandia e Singapore. Oggi Singapore è la quarta potenza finanziaria mondiale ed è uno dei Paesi in cui i quindicenni hanno i più alti risultati nell’indagine internazionale Pisa, ma fino al 1965, Singapore era un’isola tropicale povera, con poche risorse naturali e con un analfabetismo dilagante. È noto che la principale chiave del successo di Singapore, dopo aver conquistato l’indipendenza, è stata, per l’appunto, il grande investimento sulla scuola e in particolare sugli insegnanti.
In che termini è stata perseguita la valorizzazione del merito degli insegnanti nei Paesi da lei citati?
Innanzitutto con una fortissima selezione in ingresso. Sia a Singapore sia in Finlandia accedono alla formazione per diventare insegnanti i migliori studenti. In Finlandia è ammesso solo il 10% dei candidati. A Singapore c’è un’analoga selezione in ingresso, a cui si accompagna anche un successivo sviluppo di carriera sulla base del merito. Una carriera dinamica che si articola in tre percorsi specialistici e può portare a gradi professionali molto elevati attraverso tappe successive di formazione e valutazione. Da noi nulla di tutto questo. Da un lato l’ingresso all’insegnamento avviene per sanatorie continue per le quali conta solo l’anzianità di servizio, si pensi ad esempio ai Pas, i tristemente noti percorsi abilitanti speciali, dall’altro non esiste alcuna differenziazione di carriera, sebbene se ne parli da trent’anni. E invece le sole efficaci valutazioni del merito sono proprio nella fase del reclutamento e nella differenziazione e articolazione di carriera. Le altre modalità, quali il merit pay, sono cose antiche che non spostano di una virgola la qualità complessiva dell’insegnamento. Il premio al “bravo insegnante”, per il solo lavoro svolto con la propria classe, non stimola la creazione di un patrimonio professionale condiviso e quindi non si sedimenta. La scuola ha invece bisogno di costruire un forte capitale sociale, fondato sul team work. E questo può avvenire solo se si può contare su docenti specializzati che costituiscano una sorta di leadership intermedia a sostegno dell’organizzazione complessa delle scuole autonome.
Si parla anche di una crescente difficoltà ad attirare nell’insegnamento i migliori.
In molti Paesi, come la Francia, c’è una carenza conclamata di insegnanti, la docenza non ha più un grande appeal. In Italia, viste le graduatorie sovraffollate che ancora abbiamo, siamo al momento lontani da questa situazione, anche se il fenomeno comincia a farsi sentire per le discipline tecniche e scientifiche.
Ad ogni modo, per poter attirare i migliori nell’insegnamento occorre ridare prestigio sociale a questa professione e un giusto riconoscimento retributivo. Ma questo, in Italia, comporta una politica più selettiva degli organici, che dovrebbero essere costruiti in funzione delle esigenze della scuola e non dei problemi occupazionali, come avviene ora. Comporta anche rivedere l’orario di servizio e l’organizzazione del lavoro, che oggi sono funzionali a un’impostazione dell’insegnamento intesa come attività individuale, frutto della persistente, fallace, convinzione che il solo potere dei singoli sia in grado di cambiare il sistema. Si tratta invece di costruire un’organizzazione funzionale al lavoro di squadra. Servono i singoli bravi insegnanti, ovviamente, ma i singoli soggetti non cambieranno il sistema se non collaboreranno e non svilupperanno un’impresa collettiva.
Sono obiettivi ambiziosi. Come si possono raggiungere?
La vera priorità per rompere prassi ataviche, rigidità e vincoli è spezzare la dipendenza del personale della scuola dal ministero. Primo ineludibile passaggio è dunque la decentralizzazione dell’amministrazione del personale attuando il Titolo V della Costituzione. Allo Stato deve rimanere solo la definizione di regole generali nazionali attraverso la formulazione di un nuovo stato giuridico. Entro questo nuovo quadro si dovrebbero delegare nuove responsabilità agli istituti scolastici autonomi e ai dirigenti scolastici, in un auspicabile contesto di reti di scuole.
E sarà proprio in questo nuovo quadro normativo istituzionale che sarà più facile superare il precariato, operare un reclutamento efficace e anche costruire nuove figure professionali degli insegnanti. E non bisogna avere paura che questo avvenga a geometria variabile sul territorio nazionale. Anzi, è forse la sola possibilità per avviare il processo.
Nell’intervista sul numero 211 di “Una città”, Mario Nanni si chiedeva appunto perché non si riesca a consentire alle scuole di bandire i concorsi.
Questa proposta, che noi condividiamo, sembra dirompente, e viene dai più vissuta come un obiettivo “di destra”, ma non è vero. Infatti, se è vero che la sinistra è sempre stata statalista, è anche vero che fu il ministro Berlinguer, in un governo di centro sinistra, colui che propose, attraverso la famosa commissione D’Amore, che il reclutamento avvenisse a opera delle scuole e in coerenza con il piano dell’offerta formativa. All’epoca era chiarissimo che l’autonomia scolastica avrebbe potuto funzionare solo se le scuole avessero avuto il potere di assumere gli insegnanti, ma anche di licenziarli. Adesso, una volta assunti, e senza possibilità di scelta, gli insegnanti sono inamovibili, anche se totalmente incapaci. Questa situazione deve cambiare e si deve riuscire ad assumere e pagare meglio i migliori insegnanti nelle scuole più svantaggiate, per esempio negli istituti professionali.
Perché la situazione degli istituti professionali è così grave?
Perché sono diventati il ghetto di chi va male a scuola, dei ragazzini immigrati e degli alunni disabili. Tutti questi sono “orientati” al professionale, una selezione in negativo. Come se non bastasse in questi istituti si hanno insegnanti quasi tutti precari, con una girandola annuale di assegnazioni, mentre i pochi di ruolo appena possono scappano. Si tratta insomma di situazioni esplosive. Per di più la riforma Fioroni ha letteralmente tolto identità agli istituti professionali per sottrarli alle Regioni alle quali la riforma Moratti li aveva destinati. L’istruzione e la formazione professionale è infatti di competenza esclusiva delle Regioni, per dettato costituzionale, così per mantenere questi istituti statali il ministro Fioroni ha dovuto omologarli agli Istituti tecnici. Oggi gli Istituti professionali non possono più impartire autonomamente le qualifiche triennali, ed è quasi scomparsa, con la riforma Gelmini, ogni attività pratico-laboratoriale. Se gli studenti dei professionali vogliono conseguire la qualifica devono integrarsi con i percorsi professionali regionali. Un’assurdità. Tant’è vero che mentre i corsi di formazione professionale stanno registrando un grande sviluppo, gli istituti professionali sono in crisi, fatta eccezione per quelli della ristorazione.
Qual è la vostra proposta sugli istituti professionali?
La proposta dell’Adi è radicale: l’istruzione professionale statale va abolita com’è avvenuto con successo a Trento e Bolzano. Gli Istituti professionali statali vanno riconvertiti in parte in Istituti tecnici, ma soprattutto in istituti che impartiscano la formazione professionale regionale, con qualifiche triennali e diplomi quadriennali.
Occorre una drastica riduzione delle discipline, una crescente prevalenza delle materie professionalizzanti e un’efficace alternanza scuola-lavoro. Tutto questo sarebbe salutare per i giovani e per il Paese, diminuirebbe drasticamente il numero dei drop out e dei Neet, ma purtroppo va in rotta di collisione con gli interessi categoriali e con la salvaguardia degli organici, intoccabili, pena violente reazioni sindacali. Per attuare le innovazioni che proponiamo è fondamentale che gli istituti godano di grandissima autonomia.
Consideriamo questi istituti un terreno privilegiato per sperimentare nuovi modelli gestionali, che possano avvalersi di insegnanti con elevate attitudini di educatori, disposti a un orario diverso e ben pagati.
L’esperienza di quindici anni ha dimostrato che gli istituti scolastici hanno un’autonomia di carta, sono imbrigliati da mille vincoli che paralizzano qualsiasi possibilità di innovazione. È necessario pertanto trovare il modo, come è stato fatto in altri Paesi, di “liberare le scuole”, attribuendo loro ampia autonomia nella costruzione dei curricoli, nella definizione dei tempi scuola, nella scelta e nell’utilizzo dei docenti, nella gestione del bilancio. Pensiamo a un nuovo modello sperimentale di istituti scolastici autonomi “a statuto speciale”, come fu fatto in Inghilterra nel 2000 da Tony Blair, per le scuole che hanno la volontà di uscire dall’immobilismo e assumere la sfida di una gestione realmente autonoma.
Le scuole rimarrebbero a tutti gli effetti scuole statali, gratuite, alle quali verrebbe assegnato un budget in relazione al numero degli iscritti, calcolato sulla spesa media per alunno degli istituti del medesimo indirizzo. Il fondo di dotazione così stabilito non avrebbe vincoli di destinazione e verrebbe utilizzato in coerenza con il piano dell’offerta formativa e sulla base delle priorità definite nel piano stesso.
Nella vostra proposta gli insegnanti verrebbero reclutati dalle scuole ma manterrebbero lo status di dipendenti pubblici. È corretto?
Certo. Noi non pensiamo che si debba abbandonare lo status attuale, ma che lo si debba adeguare contrattualmente e normativamente a queste nuove esigenze. Non ci sarebbe peraltro nulla di rivoluzionario. Prima che i contratti “livellassero” tutto e tutti, gli Istituti tecnici e professionali avevano la competenza di assumere gli insegnanti tecnico pratici e il personale Ata, avevano altresì la possibilità di sottoscrivere contratti ad personam con personale esperto e avevano Consigli di Amministrazione che consentivano un più stretto collegamento con il mondo del lavoro. Ugualmente, per una lunga fase delle sperimentazioni, le scuole hanno avuto la possibilità di utilizzare la “chiamata diretta” di insegnanti da altre scuole, allo scopo di disporre di competenze adeguate al loro progetto.
Peraltro pensiamo che la proposta di Istituti autonomi a statuto speciale sarebbe anche funzionale alla sperimentazione dei licei quadriennali, a cui l’Adi è favorevole e che è noto invece che incontra la resistenza degli insegnanti e dei sindacati.Gli insegnanti però, si accorgeranno presto che le scuole che richiederanno di avviare i percorsi di quattro anni attireranno molti più studenti e saranno incentivati a provare.
Anche in questo caso siamo in presenza di una grande sfida. I licei quadriennali autorizzati dal Ministro Carrozza non sono una seria sperimentazione, ma la semplice possibilità di istituire classi di Liceo internazionale, che è notoriamente di quattro anni come tutte le scuole secondarie italiane all’estero. Il perseguimento del sacrosanto obiettivo di concludere la scolarizzazione a 18 anni, al compimento cioè della maggiore età, deve evitare l’errore di cercare espedienti per recuperare l’anno “perduto”, che invece è un anno “guadagnato”. Non è insomma questione contabile, ma di qualità del curricolo. In breve, l’obiettivo strategico deve essere l’autonomia degli allievi. In questo senso bisogna creare le occasioni perché lo studente scelga, sappia orientarsi, impari da solo o in gruppo, sappia valutare i risultati, sappia assumersi responsabilità individuali. La scuola rende liberi se ci si libera dalla scuola. È del tutto evidente che una tale impostazione richiede insegnanti particolarmente qualificati, con la disponibilità a un orario flessibile onnicomprensivo, che sia strumento di rottura di antichi schemi inadeguati alle generazioni del 21° secolo. E questo oggi può essere fatto solo attribuendo agli istituti, che vorranno sperimentare il liceo quadriennale, uno specifico statuto di autonomia.
A proposito delle condizioni contrattuali dei docenti, che cosa si intende per orario onnicomprensivo e flessibile?
Noi riteniamo che negli “istituti autonomi a statuto speciale” almeno una parte dei docenti debba trascorrere più tempo a scuola. Un’organizzazione che abbandoni il modello militare delle attuali classi per età e dell’orario scandito per tutti dalla campanella; deve poter contare su un orario più flessibile degli insegnanti e su una loro maggiore presenza a scuola per il lavoro collegiale di progettazione, per un’assistenza più assidua agli studenti, per una divisione dei compiti più articolata e funzionale. Abbiamo quantificato questo tempo di lavoro a scuola in 30 ore settimanali onnicomprensive. È la visione di un “mestiere” che supera l’antico individualismo e si fa più professionale. Il compenso dovrebbe prevedere quantomeno un adeguamento al maggiore numero di ore svolte, su cui si dovrà ragionare a livello contrattuale.
C’è infine il tema della valutazione, costantemente oggetto di critiche, ma che nel caso inglese è andata di pari passo con l’autonomia.
Utilizzare in modo efficace la valutazione vuole dire passare da un’impostazione discrezionale dell’insegnamento a una basata sui dati. I dati sono fondamentali. Quando sono usati bene, consentono di predisporre azioni rapide per evitare che gli alunni rimangano indietro, di agire con tempestività per recuperare situazioni critiche.
I dati non danno le soluzioni, ma sono la premessa per la ricerca delle soluzioni, che saranno collegialmente valutate e prese per ciascuno studente.
Andy Hargreaves parla a questo riguardo di capitale decisionale degli insegnanti. Il capitale decisionale consiste nella capacità di giudicare e assumere collegialmente decisioni pertinenti in situazioni complesse. La responsabilità delle decisioni deve essere sempre condivisa, aperta ai feedback e improntata alla trasparenza.
In molte scuole in Canada e in Inghilterra vige il cosiddetto sistema del semaforo. In ciascuna scuola si trova affissa una tabella con i nomi degli studenti, accanto a ciascuno dei quali c’è un pallino a indicare lo stato dell’apprendimento: verde (ok), giallo (attenzione), rosso (pericolo). Le tabelle vengono aggiornate ogni due o tre settimane e gli insegnanti si incontrano per analizzarle e riesaminare la situazione di ciascuno studente e insieme decidere e assumere iniziative conseguenti. Ogni insegnante è responsabile di tutti gli studenti della scuola, non solo dei propri. Senza voler spingere in questa direzione, è evidente che la capacità di tenere sotto controllo la situazione, operare con verifiche comuni in alcune aree fondamentali, trarre le conseguenze dalla situazione che emerge e impostare soluzioni adeguate è azione necessaria e fondamentale per il miglioramento, non solo per il recupero dei ragazzi in difficoltà, ma anche per ulteriori stimoli agli altri, penso in particolare alle eccellenze, di cui ci si fa troppo poco carico, in Italia, nella scuola pubblica.
(a cura di Giovanni Pasini)