Mappe immaginarie. Per una didattica della geografia, di Marcello Benfante

Nel corso del tempo ho messo a punto alcuni stratagemmi didattici che ormai fanno parte del mio repertorio istrionico-pedagogico.

illustrazione di Chris Ware

Questo intervento è uscito sul n.29 de Gli asini. Abbonati ora per ricevere la versione cartacea.
“In fondo, sia l’attore che il geografo hanno a che fare con delle tavole: per il primo, sono quelle del palcoscenico, per il secondo quelle che noi chiamiamo carte, ma che si chiamavano tavole fino all’Ottocento. L’unica differenza è che l’attore le calpesta con i piedi e perciò le sottomette, il geografo le tratta invece con i guanti e perciò, se non fa attenzione, ne cade preda” (Franco Farinelli, Geografia)
Nel corso del tempo ho messo a punto alcuni stratagemmi didattici che ormai fanno parte del mio repertorio istrionico-pedagogico.
Suppongo si tratti di invenzioni che posso ritenere mie allo stesso titolo dell’acqua calda o della carta vetrata. Chissà quanti miei colleghi fanno le stesse cose e probabilmente molto meglio di me.
In particolare, ricorro spesso a un banale escamotage, per così dire, di prestidigitazione cartografica, che finora mi ha gratificato con ottimi risultati.
Ecco in sostanza di che si tratta. Bisogna premettere che nella mia scuola, un istituto professionale alberghiero, le cartine geografiche sono una vera rarità. Ogni tanto, per un breve periodo, ne appare una, generalmente del tutto avulsa dai programmi della classe. Dopo un po’ la cartina scompare, non prima tuttavia di aver subito mutilazioni e deturpazioni che vanno dal futile all’osceno. È il destino nomade di queste icone del viaggio. Qualcuno le trafuga o le distrugge, per fini imperscrutabili. Oppure qualcuno, ancora più misteriosamente, le occulta, recludendole in polverosi stanzini o inaccessibili magazzini, dove giacciono abbandonate al loro destino, insieme ad altre talora intonse o pressoché, talaltra sconciamente ribattezzate. Quasi nessuno degli alunni si accorge o si rammarica della sottrazione. La cartina era ritenuta un mero addobbo senza scopo, e come tale un che di effimero e superfluo.
Sennonché a volte, spiegando una lezione, una cartina farebbe comodo. Soprattutto per quella ostinata abitudine degli eventi storici e dei fatti biografici di accadere sempre in tempi e luoghi determinati.
Le carte geografiche d’altra parte non sono strumenti di lavoro che riguardano esclusivamente la geografia. Sono misteriose rappresentazioni di spazi virtuali che attengono al mito e all’epica, al romanzesco e all’avventuroso. Sono, parafrasando un bellissimo titolo di Angelo Maria Ripellino, un “itinerario nel meraviglioso”.
Nel suo saggio “La casa ideale” (The Ideal House, 1898) Robert Louis Stevenson si sofferma a descrivere un ipotetico studio perfetto. La stanza avrà alle pareti “scaffalature di libri fino alla cintola” e, insieme a varie incisioni, “una grande carta tipografica del circondario”. Nell’ampio spazio della camera troveranno luogo cinque tavoli disposti  come isole di un arcipelago. Uno lo immagina destinato al lavoro corrente. Un altro ai libri di consultazione. Un terzo occupato da manoscritti e bozze da correggere e spedire. Un quarto invece sgombro, per ogni occorrenza. Infine un quinto esclusivamente “destinato alle carte geografiche”.
È forse quest’ultimo il tavolo più creativo e amato. Più che un’isola, è “un mare di carte a grande scala e di mappe”. Un luogo di viaggi e avventure. Di sogni e letture.
Per Stevenson la carte geografiche sono veri e propri libri (ho pensato dapprima che alludesse agli atlanti, ma nel testo non c’è traccia di un simile riferimento). Non solo: “Fra tutti i libri questi sono i meno noiosi e i più ricchi di contenuto; il corso di strade e di fiumi, i contorni e  le chiazze delle foreste nelle mappe – i banchi di scogli, i fondali, le ancore, le linee di rotta, le figurine dei piloti nelle carte nautiche – e in entrambe il cartiglio con la toponomastica, le rende il genere di stampa più adatto a stimolare e appagare la fantasia”.
Com’è noto, Stevenson concepì la trama de “L’isola del tesoro” a partire da una mappa elaborata per gioco insieme al giovanissimo figlio di sua moglie Fanny, quel Lloyd Osbourne che diverrà anch’egli scrittore e collaborerà con il patrigno a vari romanzi.
Le mappe quindi non solo raccontano storie, ma addirittura le contengono, proprio come un intrinseco tesoro.
Cartine e mappe (non quelle cosiddette “concettuali) sono quindi molto utili per tutta una serie, intricatissima e avvincente, di percorsi culturali. Bisogna però supplire, almeno nel mio istituto, alla loro endemica penuria o latitanza.
Così mi sono inventato le cartine immaginarie. Indico una parete bianca e dico, per esempio: “Ecco vedete qui il Marocco? E questo breve tratto di mare che lo separa dalla Spagna?”.
La prima volta gli alunni ridono e fanno battute diversamente spiritose. Qualcuno approfitta dello sketch per agitare le acque oltre il consentibile. Tuttavia, ho guadagnato la loro attenzione. Tutti guardano il muro e seguono i miei gesti che tracciano nel vuoto spazi  invisibili, fondano città fantasma, disegnano  nazioni e continenti con una sorta d’inchiostro simpatico.
Il trucco, nella sua disarmata semplicità, funziona sempre. Se avessi usato una vera cartina, quasi nessuno avrebbe prestato attenzione. Ma il gioco d’inventarsela, di fare finta che c’è, coinvolge gli alunni, li diverte e li stimola.
Man mano che io esploro ciecamente questo mondo potenziale, i ragazzi si prestano benevolmente alla finzione, riescono a vedere i luoghi, a farsi un’idea del mondo, ancorché approssimativa.
Il visibile era per loro inguardabile, e al contrario questa evocazione illusionistica di confini, capitali, fiumi, catene montuose, golfi, deserti tra una crepa e l’altra della nuda parete costituisce un viaggio della mente. Una concreta esperienza conoscitiva.
Occorre dire, a questo punto, che pochissimi fra i miei alunni sanno qualcosa di geografia. Non solo ignorano termini specifici come istmo o come fiordo, ma non hanno alcuna idea di dove si trovi l’Islanda o il Portogallo. Anzi, la situazione è ben peggiore. Anche l’Italia e perfino la stessa Sicilia costituiscono un autentico mistero. D’altronde la Geografia è una materia ormai esclusa dal loro corso di studi (anche se recentemente è stata reintrodotta in dosaggio omeopatico).
Non mi soffermerò tuttavia sul paradosso demenziale di alunni costretti a studiare Turismo senza essere messi in grado di collocare in un planisfero Berlino o Singapore.
Mi interessa un’altra considerazione. E cioè che si continua a parlare di gap tecnologico quando invece ci sarebbe bisogno di un po’ più di fantasia. Davvero ci serve la lavagna elettronica, questa specie di televisione di classe? Non sarebbe meglio, invece, attivare processi di ricerca, magari anche attraverso quei mezzi tecnologici di cui ormai dispone pressoché ogni alunno?
Non si tratta infatti di essere misoneisti o luddisti. Bensì di escogitare i modi di un apprendimento attivo e di un uso creativo  delle capacità di insegnamento-apprendimento.
Con i miei alunni, ormai, la cartina immaginaria è un tormentone umoristico. Loro stessi si prestano alla gag, dimostrando di avere acquisito, se non altro, una certa capacità di orientamento. E intanto la condivisione di un momento di buonumore cementa la classe e dispone favorevolmente gli alunni all’acquisizione di nozioni basilari. Con un pizzico di autoironia siamo riusciti ad aggirare e superare una penuria di mezzi, che potremmo definire al tempo stesso scandalosa e provvidenziale.
La scuola invece tende troppo spesso a essere seriosa e a sopravvalutare gli aspetti tecnici (per non parlare di quelli burocratici). Insomma, si prende troppo sul serio. Poco seriamente, s’intende.

 

Per una cartografia della disperazione

“Gentile or Jew
O you who turn the wheel and look to windward,
Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you”
(T. S. Eliot, Death by water)

Quando insegnavo alle scuole medie, nel periodo più felice di quella che, non senza ironia, posso definire la mia carriera immobile, in tutte le aule c’era una cartina geografica: l’Italia, in Prima, l’Europa in Seconda, il planisfero in Terza. Generalmente, di quelle double-face, da un lato fisiche, dall’altro politiche.
Né mancava mai il crocifisso, sebbene non avrebbe dovuto esserci nella scuola pubblica e laica (ma su questo sono stato sempre dell’idea di Natalia Ginzburg: “Non può essere obbligatorio appenderlo. Però non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo”). Ben altri e tuttora vigenti sono gli scandali concordatari e le prepotenze politico-pedagogiche del cattolicesimo.
Oggi che giustamente il crocifisso non c’è più, non è che la scuola risulta meno bigotta o codina.
Schematizzando, la cartina indicava l’appartenenza a questa terra, il “noi siamo qui”. Il Cristo in croce al cielo. Dei due simboli, l’immanente e il trascendente, non so dire quale fosse il più ignorato.
Anche il Cristo (ecce homo!) subiva non di rado lo stesso giocoso vilipendio del mondo sublunare, e talora un fumetto, disegnato sul muro, dichiarava la squadra di calcio per cui faceva il tifo, pur nel culmine della sua passione.
Si può dire che la cartina, al pari della lavagna, contrassegnava ufficialmente lo spazio della classe. Affermava, come nel teatro elisabettiano, che in quel luogo si faceva lezione. S’imparava a capire questo mondo.
Nel mio libro “Cuore”, l’edizione Garzanti della mia infanzia, che risale al 1964, c’è un’immagine che mostra la classe del narratore, l’alunno Enrico Bottini, una terza elementare nella Torino sabauda del 1878.  L’illustrazione, di gradevole e classica fattura, è di Angelo Bioletto. Si vede un affollato gruppo di alunni rivolto verso il maestro, che sta in piedi davanti alla cattedra. Alla parete, in uno sfondo più sfumato, si scorge una cartina fisica dell’Italia, con i rilievi alpini e appenninici abbozzati. Fin da piccolo mi colpì l’assenza clamorosa  Sardegna. L’episodio corrispondente è quello in cui il generoso Garrone si assume la colpa del lancio del calamaio che ha colpito involontariamente il maestro Perboni appena entrato. L’autore dello sfortunato gesto in realtà è il povero Crossi, l’alunno dai capelli rossi e dal braccio atrofizzato, esasperato dagli scherzi maligni di alcuni compagni (tra cui, manco a dirlo, il solito Franti, destinato impietosamente al marchio dell’infamia). Il disegno mostra infatti Garrone in piedi nell’atto di denunciarsi per aiutare l’infelice figlio dell’erbivendola.
Massiccio e altruista, Garrone qui è più che “un’anima nobile”, come lo definisce il maestro. È un piccolo Cristo vivente che si fa carico del male del mondo e tutto comprende e perdona.
Garrone si è già distinto qualche giorno avanti, regalando a un nuovo alunno, un ragazzo calabrese, “un francobollo di Svezia”.
Lo scolaretto calabrese si chiama Coreci, ma raramente viene nominato. Ne abbiamo però una descrizione fisica piuttosto dettagliata e quasi lombrosiana: “di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte”.
Viene accolto dal maestro con calorosa retorica patriottica. Preso per mano, viene presentato ai suoi nuovi compagni: “Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano”.
La fratellanza viene quindi sottolineata da un gesto in vario modo pedagogico: “Detto questo s’alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio di Calabria”.
Stabilite così le posizioni e le relazioni, i vincoli storici e politici di appartenenza e condivisione, non resta che l’ultimo atto di accoglienza. Ernesto Derossi, il primo della classe, sarà delegato a dare il benvenuto, offrendo “l’abbraccio del figliolo del Piemonte al figliolo della Calabria”.
È una di quelle pagine deamicisiane in cui una stucchevole condiscendenza rende difficile individuare la linea sottilissima che separa l’ingenuità dall’ipocrisia. Non di meno, “Cuore” è un gran libro e la funzione di coesione sociale e nazionale che svolse restò valida fino a un tempo relativamente recente (né rileggerlo oggi potrebbe considerarsi un inutile perdita di tempo).
D’altra parte, l’accoglienza dell’alunno straniero nell’odierna scuola italiana non è certo più sincera o più efficace.
Nel corso degli anni la composizione delle classi in cui ho insegnato è divenuta sempre più multietnica. Ho avuto molti alunni marocchini, tunisini, dello Sri Lanka, delle Filippine, della Sierra Leone. E poi ancora rumeni e albanesi. E altri ancora da un altrove prossimo o remoto.
Il sud del mondo si è unito al nostro sud, e vi si è non di rado mescolato creando un nuovo tipo di famiglia. Ho provato anch’io a collocare ciascuno dei miei alunni venuti da lontano in un planisfero, a significare con questo gesto cordiale (ossia deamicisiano) che tutti apparteniamo a questo pianeta e ne condividiamo i problemi. Ho raccontato che anche noi siamo stati e siamo tuttora un popolo di emigranti. Che anche noi siamo stati soventi oggetto di intolleranza e persecuzione.
Ho provato a demistificare il concetto ambiguo di straniero e quello ancora più odioso e irrazionale di razza.
D’altronde, non ho mai dovuto affrontare serie situazioni di pregiudizio e discriminazione. Sarà perché nei siciliani l’accettazione della promiscuità etnica è un dato storico e un valore intrinseco. Già da prima che il fenomeno della globalizzazione investisse la scuola, i miei alunni apparivano ed erano un melting pot razziale in cui al tipo arabo si affiancava quello normanno, al moro il rosso malpelo, al levantino il “lombardo”, a quello dal cognome spagnolo quell’altro di origini genovesi.
In fondo, è ancora la cartina a dircelo e a spiegarcelo. Eccola Sicilia con le sue tre punte, proprio al centro delle rotte mediterranee. Le rotte di Odisseo e di Enea, che oggi sono quelle della disperazione e del naufragio. Della morte per acqua.
Siamo qui, al crocevia di mille destini, in uno dei più spietati gorghi della storia presente, tra i sommersi e i salvati, noi stessi sul punto di sprofondare, ma ancora, talvolta, disposti ad apprendere cose nuove da chi ha guadato il mare color del sangue.
In questo scenario così tragico e devastato, la scuola può fare davvero poco. Né può assumersi responsabilità che la sovrastano. Può tuttavia promuovere processi di conoscenza e di dialogo. Può stabilire contatti, favorire incontri culturali. Può descrivere e narrare, dare voce e visibilità a chi non ne ha. Può fare davvero e finalmente geografica antropica, a misura d’uomo.
Tra le tante cose in cui si deve impegnare, può mappare questo immane dramma collettivo delle migrazioni di massa per dare un senso, una ratio, a tale disumana mattanza, assegnando un luogo, per l’appunto fisico e politico, a ciò che nella percezione comune sembra avvenire soltanto nello spazio virtuale dei media.
Può cioè elaborare una cartografia della disperazione, in questo mare fra le terre che più spesso ha diviso che unito i popoli costieri, segnando i transiti e gli esodi, le derive e gli approdi, le scorrerie e i naufragi che ormai ne costituiscono il sottinteso reticolo, affinché ne resti traccia a futura memoria.