Marco Rossi-Doria, Imbecillità sistematica, un estratto da “Di mestiere faccio il maestro”, 1999

 
Imbecillità sistemica
   (Marco Rossi-Doria, 1954)

 

 

 

 

 

 

 

Le ragioni della profonda stanchezza e della rassegnazione disgustata espresse da Sandro Onofri, vanno forse trovate altrove. Marco Rossi-Doria è un maestro che ha trovato una strada nuova. Fa parte di quel gruppo di insegnanti che, insieme a Cesare Moreno, ha deciso di abbandonare la scuola formale e di dedicarsi, ai limiti del volontariato, alla scuola di frontiera, come maestro di strada.

Da questo osservatorio impegnativo ed esigente, Rossi-Doria analizza in modo spietato e giudica senza appello il terremoto che ha scosso le fondamenta della vecchia istituzione con la legislazione sull’autonomia. Il suo giudizio, impietoso verso il “centro”, non lo è meno verso la base, e cioè verso quegli insegnanti, che rinunciano allo loro autonomia professionale e culturale per una
nuova dipendenza fatta di un attivismo senz’anima e di una concezione puramente organizzativa della scuola e del proprio lavoro: “Gli insegnanti stanno davanti a una svolta: o si propongono direttamente come artefici primi dell’autonomia e cercano di imporne, conflittualmente le misure.
O potranno lamentarsi di nuovo, perché saranno per l’ennesima volta sottomessi a un sistema che non sa e non vuole educare, e confermare quella amara verità che una volta ebbe a sottolineare Cesare Musatti: di tutte le categorie professionali, gli insegnanti sono quelli meno capaci di diventare adulti”
 (pg.121).

Il discorso si ispira idealmente alla tradizione pedagogica italiana, soprattutto a quella dei primi anni del Dopoguerra, piena di quella “qualità etica”, ricca di risorsa umana che fonda la propria legittimità sulla relazione educativa, basata sul riconoscimento reciproco, sul rispetto, sull’andare verso… Come allora, per Rossi-Doria, si tratta di “fare una scelta: partire dall’amministrazione e dalla politica così come sono o partecipare ai processi reali e, quanto possibile, aprire da fuori, dal basso i cancelli delle opportunità. Le emergenze dell’educazione spingono a pensare che, per quanto incompleta e rischiosa perché forse velleitaria e in qualche modo utopica o secondo alcuni moralistica o più semplicemente naïf, non abbiamo che da tentare la seconda strada” (p.139).


 

Di mestiere faccio il maestro *

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Nelle Mille e una notte i maestri elementari, “vestiti eleganti e di belle maniere”, vengono descritti quasi sempre come buoni conoscitori del Corano e della prosodia, della grammatica e della filologia, del diritto e della poesia. Eppure il giudizio su di essi è senza appello poiché, come raccontava un valentuomo, “le persone sono tutte d’accordo sulla imbecillità dei maestri di scuola” e “nessun maestro di scuola ha la testa a posto, anche se conosce tutte le scienze”.

Questo giudizio estremo che hanno dei maestri di scuola i racconti che narrano “le gesta degli Antichi affinché l’uomo vegga gli eventi ammonitori capitati ad altri e ne ricavi un freno salutare” mi è più volte tornato alla mente nel corso di venti anni di mestiere di maestro.

Non siamo sempre ben vestiti, purtroppo non sempre di belle maniere e non so quanto e di quante scienze di oggi siamo conoscitori, anche se da qualche anno siamo stati garbatamente sollevati, e davvero non so se con buoni o cattivi risultati, dal dovere dei maestri di scuola elementare di un tempo di saper di tutto, un poco o il giusto.

Ma è bene confessare che molte volte ho visto nei miei colleghi e nelle mie colleghe i segni sicuri dell’imbecillità e molte volte anch’io mi sono dovuto riconoscere imbecille davanti alle emozioni, alle paure, all’attenzione, alle richieste, alla memoria dei più piccoli… Però il più delle volte, negli ultimi anni, ho conosciuto, nella nostra scuola elementare: – che i più riconoscono come segmento più vivo e flessibile della intera costruzione delle istituzioni scolastiche italiane – un imbecillità ben più ampia e feroce, che mi viene da definire sistemica, e che sta alla base dell’acuto e crescente disagio degli insegnanti e della scuola. Tanto è che, di fronte a essa, sempre più spesso – come accade per qualsiasi persona che, frustrata, per un momento anela a una soluzione magica, come succede quando si è bambini, ho fatto un sogno a occhi aperti.

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Vorrei che, come d’incanto, fossero chiamate alle Grandi Assise tutte le donne e gli oramai rari uomini che fanno questo mestiere – purché, in cuor loro, riconoscano lo smarrimento nell’arte di insegnare ai bambini in questi tempi, simile quasi alla pena cieca nel cuore di Shahriyar, l’antico re di Persia che, per placarsi, volle ascoltare la leggiadra Sharahzàd, conoscitrice di storie…

Così finalmente ognuno potrebbe dire della propria imbecillità, tante volte vissuta e della ferocia con cui l’imbecillità sistemica si è abbattuta su di noi fino a sviarci da quel che siamo chiamati a fare… imbecillità ben più funesta della nostra perché priva di smarrimento, di dubbio e di pena.

Quell’Assemblea non sarebbe il luogo dove lamentarsi e insolentire. Sarebbe il luogo dove mettere a nudo l’impressionante catena di sollecitazioni e obblighi che, dall’alto, ci chiama ogni settimana, ogni giorno, ogni ora a occupare il tempo e l’attenzione intellettuale ed emotiva per cose che non riguardano l’essenziale del nostro mestiere che è, appunto, di tessere faticosamente una relazione educativa solida con i bambini e le bambine: l’accoglienza dovuta non ai bambini e alle bambine ma alla irrefrenabile produzione delle circolari, ognuna da siglare, leggere o altrettanto faticosamente ignorare, il confronto non procrastinabile con la montagna dei progetti a cui aderire o non aderire e a cui comunque doverosamente adeguare le proprie progettazioni, le carte e gli adempimenti formali in costante parossistica innovazione a cui non si può non…

Una mia collega, sulla scorta di un’attenta conta delle carte in arrivo in una scuola elementare, ha ipotizzato che leggere ogni pagina in arrivo vorrebbe dire leggere, in orario contrattuale, due romanzi in un anno… Ma naturalmente qui si tratta di lettura dovuta che, sia accolta sia rifiutata, implica un lavoro di selezione e uno stress che non sono stati mai ne quantizzati sindacalmente né opportunamente studiati in funzione del ruolo ma che certamente hanno ben poco a che vedere con l’essenza del nostro mestiere. Queste montagne di carte in entrata nei luoghi deputati a stare con i bambini e le bambine e a organizzare cose con e per loro porta ad alcune gravi conseguenze pratiche che non riguardano solo gli insegnanti ma il procedere stesso, presente e futuro, di tutta la scuola italiana.

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Da un lato i dirigenti scolastici e gli uffici delle scuole sono soffocati da quest’arrivo di direttive, questionari, adempimenti, formulari e prestano spesso solo l’attenzione residua ai compiti inerenti a tutte le pratiche che consentono un procedere più umano della scuola quali gite, iniziative sollecitate dal basso, spese direttamente definite e richieste dagli insegnanti e dai genitori, organizzazione degli spazi e dei tempi interni a misura di ambino secondo quanto proposto e deciso a livello di classe, di gruppo docente, di scuola pensante. In questo anche i dirigenti migliori, quelli con l’occhio più attento ai bambini e al territorio che alle funzioni autoreferenti e alle mappe astratte dei dover essere, rischiano di svolgere quasi solo la funzione di imbuto-filtro, quando va bene, o di ufficio del protocollo di ciò che è in arrivo quando va male; e devono rinunciare a farsi voce coordinatrice delle idee, delle aspirazioni e delle proposte che continuano a emergere dal rapporto creativo diretto dei docenti con i bambini, dalla relazione educativa vera e propria o voce di stimolo alla riflessione e al dubbio su cosa stiamo facendo, su come e perché. Poiché è vero che nel fuoco del fare scuola è grandemente necessaria una sapienza coordinatrice, una voce esterna che favorisca opportunità, che sia garante, faciliti e indirizzi. Ma è anche vero che questa figura per vivere deve sottrarsi a un ruolo improprio, dannoso. Dall’altro lato – ed entro questo clima – si allarga, per forza di cose, l’area della passività rinunciataria tra i docenti, che si nutre di una speciale forma di delega dal basso verso i progetti-contenitori: si sa che è in arrivo o che si rinnoverà il progetto del Ministero o del Provveditorato chiamato x o y, che esso consentirà di usufruire – entro limiti, secondo modalità e per finalità e obiettivi già stabiliti – di incentivi per il lavoro in più che comunque chi vuole fare buona scuola compie: ebbene ci si immette, ci si ingloba entro quel progetto x o precostituito o quella data funzione già specificamente codificata in alto, rinunciando a trovare, a studiare, a discutere in effettiva libertà, a inventare in proprio i progetti più adatti a quel che si vuole davvero fare a partire dalle proprie effettive competenze e capacità e dalla diretta relazione educativa in atto, a elaborare compiti specifici per persone o gruppi sulla base del compito educativo.

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In questa rinuncia non c’è solo la messa in ombra del proprio lavoro di educatore. C’è la mortificazione di tutti quei passaggi faticati ma creativi attraverso i quali sempre avviene la crescita professionale: la discussione tra operatori alla pari sul come quando dove e perché, in riferimento al fare e non a quel che dice la tale circolare o il tale altro progetto pervenuto; la registrazione onesta e l’integrazione mediata delle proposte tra docenti in funzione dell’azione coi bambini; la necessaria azione di mediazione tra adulti diversi che è il sale e il pepe di ogni condivisione democratica nell’azione educativa; l’elaborazione formale scritta secondo quel che effettivamente si vuole fare e non scopiazzando una modellistica e un lessico predefiniti; l’adeguamento intelligente in corso d’opera dei proponimenti iniziali all’effettivo processo di cui si è attori-osservatori; l’approntamento dei modi di osservazione, narrazione fattuale e verifica del lavoro. Al posto di questo c’è uno scopiazzare linguisticamente raccapricciante, sostanzialmente de-responsabilizzante e profondamente avverso alla crescita della democrazia a scuola perché inibente ogni ascolto reciproco a favore di pratiche furbesche di adeguamento a quel che si vuole da noi per ottenere approvazione, fondi, lustro e della delega verso il più capace in questa arte opportunista di ritagliare piccoli spazi e piccole frasi adeguate a ottenere entro un quadro progettuale definito altrove.

Questa prassi servile e diffusa – che penalizza l’azione educativa creativa, l’elaborazione e la crescita professionale fondata sull’osservazione critica del proprio operare – rischia ora di far naufragare la stessa autonomia scolastica che, nelle intenzioni e nelle parole che la hanno accompagnata, nasceva esattamente per impedire questa ipertrofia del flusso di sollecitazione dall’alto a tutto vantaggio dell’azione educativa decisa e gestita creativamente e in piena responsabilità da ogni scuola. Se, però, non tace il richiamo dall’alto ma anzi si fa assordante, se il centro sta sempre lì a imporre indirizzi e a chiedere conto in base a proprie idee, a propri parametri di priorità, a proprie mappe di organizzazione, di formalizzazione di ciascun atto e di spesa, allora come e quando sarà possibile un’effettiva azione autonoma di ogni scuola? Se gli stessi flussi finanziari dall’alto verso le scuole dell’autonomia sono largamente influenzati dall’adesione o meno delle scuole a progetti e ad azioni già tipologizzate al centro, se non dall’influenza personale bi-univoca tra capi d’istituto e uffici centrali – che dovrebbero vaporizzarsi per lasciare la responsabilità alle scuole ma continuano a ri-creare e alimentare poteri, veti, blocchi decisionali – di quale crescita autonoma mai vedremo l’inizio?

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Ma c’è di più: il progetto di autonomia fondato sull’idea di autogoverno di ogni e ciascuna scuola prevede, nel complesso intreccio del dettaglio delle norme e delle circolari applicative, decine di organi, uffici e persone competenti partecipanti che si sovrappongono e si intralciano inestricabilmente. Così da un lato rimane pervasiva la burocrazia dall’alto e, per altro verso, si moltiplica l’apparato burocratico a dismisura decentrando caoticamente funzioni, competenze, autorità in materia…

E davvero impressionante lo scarto che c’è tra le intenzioni dichiarate e la realtà degli assetti entro i, quali cerchiamo di stabilire più adeguate relazioni educative. É uno scarto di tale ampiezza e pervasività da imporre una riflessione sul nostro paese che va ben al di là delle contingenze politiche e delle vicende specifiche della riforma del nostro sistema educativo. È davvero difficile trovare, in Italia, la disponibilità a parlare di quel che accade, di quel che è stato e di quel che è, a nutrire e fare crescere una qualche cultura dei risultati, che parta dai fatti inerenti al compito. Non siamo un paese che è propenso a vedere l’andamento dei processi da un punto di vista empirico; chi si mette a ragionare sui processi è raramente una persona anche capace di contribuire a dare soluzioni a problemi sorti lungo il percorso. Si è più èpropensi, in generale, ad aprire contenziosi e a partecipare a diatribe che a misurare le cose fatte e da fare passo passo e inventare e poi provare soluzioni a problemi. Sta di fatto che non è negabile, a guardare la scuola oggi, che ogni cambiamento, anche di semplificazione e di più banale modernizzazione, stenta davvero ad attuarsi. Ed è forse bene notare che l’istituzione-scuola si comporta nei confronti dei docenti proprio come proprio tristemente oggi avviene a tanti genitori e insegnanti coi propri alunni e figli adolescenti: si dice ogni momento autonomia, la si sventola davanti, a un tempo, come una promessa, una necessità e una minaccia ma la si nega nei tatti volta dopo volta impedendone la reale esperienza. Lascio ad altri i pensieri anche su cosa possa voler dire questo nell’Italia della sempre più scarna partecipazione, del federalismo promesso e negato, della responsabilità individuale continuamente sollecitata a parole e poi vilipesa e impedita. C’è di sicuro una qualche terribile reciproca funzionalità – come è in tutte le relazioni tra vittime e carnefice – tra l’imbecillità sistemica e uno status di protezione accolto e accettato da molta parte di noi docenti o di una parte, più o meno grande.

Marco Rossi-Doria, Di mestiere faccio il maestro, Napoli, L’ancora del mediterraneo, 1999, pp. 103-21.

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