Su Ivan Illich: Leggere il presente nello specchio del passato, di Filippo Trasatti – da A rivista anarchica

rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003

dossier Illich

Leggere il presente nello specchio del passato
di Filippo Trasatti

dossier Illich

Leggere il presente nello specchio del passato
di Filippo Trasatti

È quasi impossibile inquadrare l’opera di Illich all’interno di un preciso ambito disciplinare perché egli sfugge ad ogni tentativo di definizione.

«Se qualcuno mi domandasse: “Ivan, che cos’è che ti potrebbe stimolare di più nel prossimo anno e mezzo?” – è questo il tipo di orizzonte nel quale inquadro la mia vita – risponderei che mi piacerebbe convincere un certo numero di persone a riflettere più su come gli strumenti influiscano sulla nostra percezione che su ciò che possiamo fare con essi, a indagare su come gli strumenti modellino la nostra mente, come il loro uso modelli la nostra percezione della realtà ben più di quanto noi si modelli la realtà applicandoli o utilizzandoli.»

 Strategie di spiazzamento

È quasi impossibile inquadrare l’opera di Illich all’interno di un preciso ambito disciplinare: dalla Nemesi medica, a Descolarizzare la societàLavoro-ombraLa convivialitàIl genere e il sesso, fino agli ultimi articoli, come L’era dello sguardo, ogni volta sembra che, partito da un terreno familiare, Illich svolti all’improvviso per imboccare una strada diversa. Lui stesso sfugge a ogni tentativo di definizione: sociologo, filosofo, antropologo, studioso di teologia?
Questa insofferenza per gli steccati, lo ha portato anche nella sua vita a riunire gruppi di amici, provenienti da differenti ambiti disciplinari, intorno a un progetto di ricerca e nei suoi libri c’è sempre una traccia importante di queste esperienze di discussione, di ricerca e di condivisione.
In questo c’era la sua insofferenza per le idées reçues, ma anche l’orrore per la specializzazione che non ha mai smesso di denunciare come processo alienante.
Immergendosi nella lettura dei suoi libri e dei suoi articoli, l’impressione è quella di un salutare spaesamento, che richiede una ri-definizione dei concetti scontati e la messa in discussione dei tabù. A volte sembra che davvero Illich voglia epater le bourgeois, ma lo fa prima di tutto per sgomberare il campo dalle ovvietà, per dar vita a una confusione creativa che porti a un modo diverso di vedere il problema considerato.
Per far questo egli utilizza diverse strategie di spiazzamento. Ne segnalo qui tre: a) la trasmigrazione delle idee; b) il plurilinguismo; c) lo specchio del passato.
a) Illich ci ha offerto esempi illuminanti del potere delle idee quando travalicano i limiti disciplinari. Propongo qui un solo esempio, il concetto di quello di «limite». Illich si imbatte in questo concetto nell’ambito della morfologia, ossia dello studio delle forme animali e vegetali. In particolare legge il saggio di un biologo inglese, eccentrico e ribelle, John Haldane, Della giusta misura (1) che mostra, attraverso argomentazioni da biologo evoluzionista, perché una formica non può avere le dimensioni di un elefante. Per ogni tipo di animale, così come lo conosciamo, c’è una giusta misura superata la quale diventa inevitabile un radicale mutamento di forma. Da qui la trasposizione prima di Haldane, poi di Illich: «Proprio come gli animali hanno una misura giusta, anche le istituzioni umane hanno una grandezza ottimale». Questa idea diventerà uno dei cardini della ricerca sulla convivialità nel senso di una critica all’elefantiasi delle istituzioni nel mondo tardocapitalistico. Non è che un esempio tra i tanti, ma mostra come Illich considerasse produttiva questa trasmigrazione delle idee.
b) Illich era poliglotta, parlava correntemente più di una decina di lingue, considerava naturale l’homo plurilinguis e una mutilazione invece ciò che noi consideriamo normale, l’uomo monolingue, nato secondo lui sotto il segno degli Stati-nazione.
Lo studio delle altre lingue permette di guardare a distanza la storia intellettuale e i concetti espressi nella propria lingua: solo quando ci si immerge in un’altra lingua, si comprendono meglio i confini della propria. Illich stesso ricorda di aver tentato una più radicale esperienza di estraniazione nelle lingue orientali, ma di aver poi rinunciato. Studioso del Medioevo, usava il latino che aveva appreso nella sua formazione di sacerdote, per provare a ritradurre in quella lingua i concetti fondamentali del nostro presente.
c) Se consideriamo come Illich guardava al proprio lavoro, notiamo che più spesso nell’ultimo periodo della sua vita si attribuiva il compito di storico, uno storico però del tutto particolare.»Io studio la storia come un negromante rievoca il morto» (2), diceva.
A volte parla di una storia degli spazi mentali, delle topologie mentali, si potrebbe anche dire delle mentalità, riprendendo il termine di una delle scuole storiografiche più innovative del XX secolo (3). Questo è per lui un elemento di metodo fondamentale che potrebbe ben diventare lo slogan per lo studio della storia: «Non ho scritto questo volume per portare un contributo specialistico, ma per offrire una guida verso un punto di osservazione nel passato che mi ha schiuso nuove vedute sul presente» (4).
Illich sceglie uno spiazzamento temporale come punto di vista sul presente, cosicché i suoi libri che sembrano libri di uno storico, mentre ci parlano del presente che stiamo vivendo: «ho voluto suggerire che solo nello specchio del passato risulta possibile riconoscere la radicale alterità della topologia mentale del XX secolo e divenire consapevoli dei suoi assiomi generativi, che normalmente rimangono oltre l’orizzonte di attenzione dei contemporanei» (5).
Illich usava questa strategia di spiazzamento fin dai libri più famosi, uno tra tuttiDescolarizzare la società di cui parla in queste pagine Pietro Toesca. Negli ultimi libri e articoli sembra di cogliere ancor più fortemente la volontà di distaccarsi dal tempo presente per guardarlo con altri occhi.

 Un commentario 

Nella vigna del testo, uno degli ultimi libri di Illich, è un commentario (6) al Didascalicondi Ugo di San Vittore, un testo dell’XII secolo, ma è anche, come recita il sottotitolo, «per un’etologia della lettura» (da ethos, in greco «costume, abitudine»), un’indagine sulle abitudini e sulle modalità di lettura. È un altro esempio di quelle strategie di spiazzamento di cui parlavamo prima: trasferirsi nel Medioevo e più precisamente a Parigi nel XII secolo per guardare da quella distanza ciò che sta accadendo nel presente.
Questo libro, dice Illich, commemora gli albori della lettura scolastica e lo fa in un’epoca in cui è visibile il tramonto del libro, o meglio il tramonto del modo «scolastico» di leggere. Secondo George Steiner la bookishness (la cultura del libro) nasce dall’intreccio di una tecnica, l’invenzione della stampa, da una certa ideologia, quella della borghesia in ascesa, da una certa mentalità.
«Dipende dalla possibilità di possedere libri, leggerli in silenzio, e discuterli a piacimento in casse di risonanza quali caffè, periodici, università. Questo tipo di rapporto è l’ideale delle scuole. Paradossalmente, tuttavia, più l’obbligo scolastico si è esteso alla maggioranza delle persone, più si è ridotta la percentuale di bookish people nel senso di Steiner» (7).
Il libro ha smesso di essere una metafora fondamentale per leggere il nostro tempo; lo è stato a lungo fin dal Medioevo, attraverso l’età moderna (si pensi al «libro della natura» galileiano), forse fino alla metà del secolo XX, ma oggi non lo è più. Non si tratta di un piagnisteo sull’esiguità del numero di lettori, sulla vittoria della TV sul libro. Per Illich è una semplice constatazione:
«L’immagine con relativa didascalia, il fumetto, la tabella, il riquadro, il grafico, la foto, gli schermi e l’integrazione con gli altri media esigono dall’utente un genere di abitudini del tutto opposte a quelle coltivare nei modi di lettura scolastici» (8).
Il mutamento in corso è «la dissoluzione della tecnica alfabetica nel miasma della comunicazione». Per molti il libro è diventato solo una metafora della comunicazione, termine che Illich aborriva.
Ecco dunque che mentre si sta chiudendo un’era, Illich vuol mostrarci da lontano quali ne erano le caratteristiche essenziali.
Lo fa, come sempre utilizzando come chiave di lettura le tecnologie e spiega chiaramente che quest’opera rientra nella sua più generale ricerca «sull’interazione simbolica tra tecnologia e cultura, o, più precisamente, tra la tradizione e la finalità, i materiali, gli strumenti e le norme per il loro uso» (9).
Più precisamente Illich indaga le trasformazioni tecniche che nel 1150, cioè trecento anni prima di Gutenberg, permisero l’emergere di quella che si può chiamare lettura scolastica del testo.
E qui l’analisi si fa minuziosa e affascinante, il dialogo con il testo di Ugo da San Vittore ci apre un mondo davvero inaspettato. Per i monaci la lettura non era una qualunque attività; Ugo scrisse per loro il libro, per insegnare come leggere e gli diede come sottotitolo de studio legendi, dove «studio» non va inteso solo nel senso che gli diamo noi: studio significa «affetto, amicizia, desiderio, occupazione».
Non si leggono libri per accumulare conoscenze, per diventare eruditi e poi magari trattare gli altri dall’alto in basso. La lettura è per Ugo una medicina (remedium), qualcosa che ci risolleva dall’oscurità dell’ignoranza e del peccato e che ci illumina. Il libro e la lettura illuminano l’uomo, ma non nel senso del rischiaramento illuministico: l’io diviene ardente, raggiante, quando è illuminato dalla lettura. Bisogna ricordare che i manoscritti medievali erano miniati e che le miniature non erano come le nostre illustrazioni, supporto al testo, ma che servivano proprio a illuminare il lettore quasi letteralmente; creavano sinestesie, suggerivano scenari per la storia sacra che viene raccontata, aiutavano il lettore ad orientarsi.
La lettura non è un’occupazione per passare il tempo, ma un modo di vivere che li accompagna per tutta la giornata. Sette volte al giorno si riuniscono in chiesa a leggere e ad ascoltare salmi e quando lavorano la recitazione collettiva diventa borbottio sommesso.
La lettura è attività motoria, dà voce alla pagina; i monaci ruminano, rimuginano, assaporano, suggono il miele della Scrittura. È un’attività fisica, tanto che i medici ellenistici la prescrivevano, al pari di una camminata, come rimedio.
Attraverso la lettura il verbo si fa carne, la parola diventa «senso». Per i monaci la lettura impegna tutto il corpo, non soltanto gli occhi come per noi. Si pensi agli hassidim ebrei che pregano oscillando il corpo avanti e indietro; ancora adesso nell’apprendimento della Bibbia e del Corano i bambini muovono il corpo. Illich riporta le ricerche di Marcel Jausse sul corporage, ossia sulle tecniche psicomotorie per incarnare una sequenza parlata. «in molti individui il ricordo equivale all’attivazione di una sequenza precisa di comportamenti muscolari con i quali le espressioni verbali sono correlate.» (10) Leggendo la pagina viene incorporata.
Illich ritrova correlati all’attività della lettura (ma non solo), una ricca costellazione di termini che si riferiscono ai diversi sensi e sostiene che «il vocabolario disponibile per indicare odori, profumi e sentori era assai più ricco nel vernacolo del Medioevo di quanto non sia nelle lingue europee moderne.» (11) Segno di un profondo impoverimento sensoriale non solo della nostra lettura, ma più in generale della nostra cultura.
Insomma la pagina è una vigna (originariamente in latino pagina significava «pergolato di viti»), di cui la lettura fa vendemmia. Tutto questo sforzo del corpo e dei sensi è certamente rivolto alla sostanza spirituale, ma viene comunque vissuto molto intensamente dai lettori.
All’epoca di Ugo e della redazione del Didascalicon, intorno al 1140, c’è una svolta: si passa dalla lettura monastica alla lettura scolastica. La lettura monastica, dice Illich, creava un ambiente pubblico uditivo, mentre quella scolastica crea uno spazio bidimensionale in cui c’è un rapporto diretto, individualistico tra l’io e la pagina. E questo avviene perché cominciano a diffondersi appunto nuove tecniche, convenzioni materiali che mutano il rapporto con il libro e la lettura.
Vengono introdotti titoli e sottotitoli che strutturano il testo, sommari e indici, parole-chiave, glosse riassuntive che si distaccano dal testo principale, virgolette per riconoscere le citazioni. Tecniche che per noi sono del tutto ovvie, ma che allora permisero la creazione di uno spazio della lettura astratto.
«Grazie a queste innovazioni tecniche, la consultazione dei libri, la verifica delle citazioni, e la lettura in silenzio sono divenute pratiche comuni e gli scriptoria hanno cessato di essere luoghi nei quali ciascuno doveva sforzarsi di ascoltare solo la propria voce.» (12)
È la nascita del testo, distinto dal libro e dalla lettura.

 Oltre la monumentalità del testo

Tutto questo mondo che Illich ci ha aperto sembra perduto per sempre. Da vigna, la pagina è diventata lastra e più recentemente schermo. Spazio visivo, astratto da ogni movimento corporeo, con il testo è nato lo spazio mentale dell’alfabetizzazione.
La nuova tecnologia della lettura viene rivendicata come un monopolio degli scribi scolastici che si definiscono istruiti in opposizione a quelli che sono soltanto ascoltatori e si va così costituendo una casta separata di istruiti che monopolizzerà la funzione dell’istruzione degli analfabeti. Il testo, così vivo e vissuto anche fisicamente, diventerà sempre più qualcosa di astratto nel quale si depositano le conoscenze da capitalizzare, controllate dai banchieri della conoscenza. Ogni strumento, oltrepassata una certa soglia critica, si rivolta contro l’uomo, lo asservisce diviene padrone e despota. Vale lo stesso anche per il libro.
La scuola come la conosciamo è figlia del libro, ma di un libro monumentalizzato, diventato Testo unico di riferimento. Neil Postman ha sostenuto in modo suggestivo (13) che le scuole sono state strumenti per governare l’ecologia dell’informazione, per ritagliare campi del sapere, per amministrare lo snodo del sapere/potere,e per far ciò hanno creato e diffuso una lettura.
Se è vero che stiamo entrando in quella che un linguista ha chiamato Terza Fase (14), ossia l’epoca in cui l’accesso alla conoscenza avviene prevalentemente attraverso media che non sono i libri, è importante sapere che cosa stiamo perdendo, ma soprattutto cosa ci è stato sottratto dal monopolio della conoscenza costituitosi in istituzione scolastica.
Ecco ciò che mi sembra straordinario in questo testo, come Illich faccia emergere dalla cosiddetta epoca buia, un’illuminante sfilata di modi di leggere dimenticati dalla lettura scolastica e in questo modo ci metta di nuovo a confronto sulla povertà delle forme di lettura che innanzi tutto e per lo più sono diffuse.
La lettura è un’attività corporea, che coinvolge totalmente; è una medicina, un rimedio, tanto che era prescritta, ci dice Illich, dai medici ellenistici come attività salubre.
È un modo di vivere, un’attività morale al servizio della realizzazione personale, un pellegrinaggio in terre lontane…
In altre parole ci sono nel mondo tanti modi di leggere che la scuola non riesce neppure a immaginare.
È possibile che il mutamento in corso, ossia la progressiva perdita del predominio scolastico sul sapere, induca a riscoprire nuove (e vecchie) forme di lettura? Siamo proprio sicuri che la lettura collettiva non abbia ancora un forte ruolo da giocare?
È possibile, ancora e infine, giocare la lettura contro la comunicazione?

 Filippo Trasatti

Note:

1. John Haldane, Della giusta misura, tr.it. Garzanti, Milano 1978.
2. David Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, Elèutehra, Milano 2003, p. 181.
3. Il rapporto con le Annales andrebbe esplorato in modo più approfondito.
4. Ivan Illich, Nella vigna del testo, Cortina, Milano 1994, 7.
5. Ibidem.
6. Un modo per considerare un commentario in modo diverso ci viene da questa osservazione: «Il lettore noterà che non di rado io osservo il presente come se dovessi riferirne agli autori dei vecchi testi che cerco di interpretare»; il riferimento qui è ai suoi amati autori del XII secolo, in particolare a Ugo di san Vittore.
7. Ivan Illich, Mnemosyne: lo stampo della memoria, tr. it. in Nello Specchio del passato, Red edizioni, Como 1992.
8. I.I. Nella vigna del testo, cit., p. 2.
9. Ibidem, p. 96. L’impostazione di questa ricerca si può cogliere in modo ampio nel suo libro La convivialità, il cui titolo originale era «tools for conviviality», strumenti, attrezzi per la convivialità.
10. Ibidem, p. 57; e così continua: «Ogni cultura ha conferito la propria forma a questa complementarità (gesto-parola) asimmetrica bilaterale, in virtù della quale certi enunciati sono incisi a destra e a sinistra, davanti e dietro, nel tronco e nelle membra e non solo nell’occhio e nell’orecchio».
11. Ibidem, p. 173.
12. I.I., Sull’isola dell’alfabeto, in «Volontà», 1/87, p. 21.
13. Neil Postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
14. Raffaele Simone, La Terza Fase, Laterza, Roma-Bari. Nella schematizzazione di Simone due grandi fasi hanno preceduto quella attuale, la prima l’invenzione della scrittura, la seconda l’invenzione della stampa. La Terza fase è quella della Visione e delle Immagini.

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