Margherita Zoebeli, ieri e oggi di Luigi Monti

7 maggio 2011 – Rimini

Intervento sociale ed esperienze pedagogiche di tipo comunitario nell’Italia del secondo dopoguerra. Il caso del Ceis di Rimini e la figura di Margherita Zoebeli

 

Oggi in Carlo De Maria (a cura), Intervento sociale e azione educativa. Margherita Zoebeli nell’Italia del secondo dopoguerra, Clueb 2012 Bologna

 

Margherita Zoebeli, ieri e oggi

di Luigi Monti

 

 

Sebbene siano passati solo poco più di vent’anni dalla morte di Margherita Zoebeli, ripensare oggi alla sua figura e alla sua opera fa sembrare abissale la distanza che ci separa dall’epoca in cui operò questa ostinatissima e non meno libera educatrice svizzera. L’orizzonte storico in cui si formò e in cui costruì l’ossatura di una delle più importanti imprese pedagogiche italiane dello scorso secolo, il Centro italo-svizzero di Rimini, è molto più vicino all’epoca d’oro del movimento socialista europeo che all’Italia del boom, l’epoca in cui il suo esperimento pedagogico e sociale raggiunse pieno sviluppo. E all’interno del movimento socialista molto più simile alla sua componente libertaria e utopistica che a quella statalista che già all’inizio del ‘900 prevalse sulla prima. Che cosa dunque l’insegnamento di una donna dell’800 quale lei in effetti fu ha ancora da dare a chi è mosso oggi da istanze simili alle sue, ma in un contesto completamente mutato?

Il confronto risulta ancora più difficile se si considera il fatto, come evidenzia Goffredo Fofi su queste pagine, che Margherita Zoebeli operò “in tempo di pace”, sotto una fortissima spinta propulsiva alla ricostruzione, anche quando la guerra era ancora in corso. Noi al contrario ci troviamo forse nell’ultima propaggine di una stagione che ha gestito pessimamente la pace conquistata preparando il terreno, anche pedagogicamente, a nuove guerre la cui intensità potrebbe affiorare presto in forme non più invisibili. Attendere però passivamente un nuovo vettore ideale capace di coagulare un movimento altrettanto forte di quello che animò maestri ed educatori alla fine della seconda guerra mondiale – ovvero la necessità di ricostruire una nazione dalle sue macerie fisiche e morali – risulta operazione pericolosa, nostalgica e venata di cinismo. Quel movimento composto per lo più da maestri elementari e di cui il Ceis fu uno dei più importanti centri propulsori si incontrò e si riconobbe intorno al comune desiderio di reagire, dalla prospettiva della propria professione pedagogica, allo sfascio delle strutture civili e al degrado della cultura italiana uscita dalla dittatura. Ma guerre, conflitti sociali o bancarotte finanziarie non sono l’unico terreno di coltura per quel desiderio di critica e di rivolta, quell’“immaginazione sociologica”, quella creatività pedagogica che definirono allora l’identità del Villaggio e che sole ci possono sollevare dalla melma in cui la nostra struttura sociale, comprese le istituzioni educative che la reggono, sembra essere finita. Adagiarsi in questa complice e per lo più intellettuale rassegnazione potrebbe anzi farci trovare ancor più impreparati allorquando conflitti, bancarotte e guerre dovessero riaffacciarsi nel nostro orizzonte storico.

Che cosa dunque vale la pena prendere dal metodo e dai principi che ispirarono le comunità educative che la Zoebeli ideò e animò per mezzo secolo? In che termini la storia di quelle comunità può contribuire al dibattito odierno sulla crisi della scuola e delle nostre istituzioni educative?

 

Una storia che poteva essere diversa

Con una certa (ma utile) forzatura storiografica possiamo affermare che il lavoro di Margherita Zoebeli, la libertà con cui seppe coniugare la sua profonda ispirazione socialista con i desideri e i bisogni dei bambini e delle bambine che accolse al Villaggio, testimonia, per contrasto, l’assenza nella parabola della storia della scuola italiana di una “riforma pedagogica” reale, di un cambiamento consapevole e su larga scala capace di opporsi all’ancien regime della pedagogia “classica” e autoritaria. Come ha mostrato Lamberto Borghi in quel capolavoro della storiografia, non solo pedagogica, che è Educazione e autorità nel’Italia moderna a un’analisi attenta e libera è possibile rinvenire un’evidente continuità tra le filosofie dell’educazione e le riforme scolastiche che si sono susseguite dal Risorgimento all’Italia repubblicana. In quel testo Borghi osserva e ci insegna a osservare la scuola italiana nel suo dispiegarsi storico alla luce delle categorie di “autorità” e “libertà”. E nel farlo ci offre una grande lezione di metodo, fondamentale oggi più di allora per osservare il volto vero della nostra istituzione scolastica: nell’analizzare leggi, riforme, documenti ufficiali e discorsi parlamentari riguardanti la scuola degli ultimi cento anni di storia patria, lo sforzo di analisi (e di critica) maggiore egli lo riserva non tanto alla pedagogia liberale e conservatrice (che senza troppi infingimenti, faceva dell’autorità uno dei suoi principi dichiarati) quanto alla pedagogia socialista e progressista. Emblematiche, in questo senso, le pagine che dedica a Mazzini o all’amico Salvemini, che gli causarono non poche incomprensioni.

Cosa si proponeva il grande pedagogista livornese, amico di Margherita Zoebeli e frequentatore assiduo del Ceis, in questa fondamentale “storia dell’educazione”? Di scovare e definire nella sua multiforme continuità il principio di “autorità” nelle politiche e nelle filosofie educative che si sono succedute dagli anni che precedono il Risorgimento fino alla fine della Seconda guerra mondiale, per contribuire, da una prospettiva pedagogica, a spiegare la crisi della cultura europea e quella “personalità autoritaria” che avevano portato ai totalitarismi e a quel campo di sterminio che fu l’Occidente uscito da trent’anni di guerre intestine. E con ciò svelare tutti i collegamenti più o meno nascosti che trasmettevano il seme dell’autoritarismo da una corrente di pensiero a un’altra, trasversalmente a filosofie politiche che, per quanto riguarda la concezione pedagogica, si assomigliavano molto di più di quanto il colore politico lasciasse pensare.

Nonostante le qualità individuali di alcune delle figure intellettuali e politiche di spicco che animarono il Risorgimento italiano, nonostante la spinta democratica e liberatrice del movimento operaio, il fattore che minò alla base ogni possibilità di cambiamento profondo e reale della società, tanto agli esordi del Risorgimento che a quelli del socialismo italiano, fu la mal riposta fiducia in una presa del potere (dall’alto) a scapito della formazione di coscienze libere e autonome (dal basso). Ancora una volta, o forse per la prima volta nell’Italia moderna, possiamo costatare gli effetti del prevalere del “politico” sul “pedagogico”.

 

La debolezza del punto di vista dialettico, che i socialisti applicarono alle questioni sociali e educative durante il primo quindicennio di questo secolo, riceve nuovo risalto se si esamina il loro atteggiamento verso il potere politico. I socialisti riformisti, proprio in quanto accettavano la moderna società capitalistica e subordinavano il loro trionfo finale al suo ulteriore sviluppo, non potevano mettere in questione, come infatti non misero, la legittimità dello Stato italiano. Perciò non solo non ostacolarono il programma educativo del governo italiano diretto a rafforzare l’influenza dello Stato sulla scuola, ma domandarono la ‘pubblica istruzione da parte dello Stato’. Quando il governo si assunse il controllo di gran parte delle scuole elementari del paese, essi accolsero questo avvenimento come un loro successo […] Essi ritenevano che il fatto stesso che l’istruzione fosse estesa a gruppi più larghi della popolazione mediante un efficiente sistema di scuole statali, facendo le masse partecipi della cultura che esse avrebbero impartito, avrebbe di per sé promosso la libertà e la democrazia. Non si resero conto che l’istruzione può essere del pari uno strumento di irreggimentazione e un organo di liberazione.

 

Le radici autoritarie del pensiero italiano dalle principali correnti dell’epoca risorgimentale arrivano fino all’Italia della ricostruzione, attraversando, senza soluzione di continuità (sebbene con effetti di diversa intensità), il socialismo del movimento operaio come il fascismo, i governi democratici come quelli totalitari. Col prevalere della tendenza statalistica del socialismo italiano nel primo quindicennio del secolo, questa la tesi “scandalosa” di Borghi, quei fermenti autoritari improntarono di sé anche il movimento di rinascita educativa all’interno del socialismo stesso e, “accolti come fonte di ispirazione teorica e pratica dalle forze che schiacciarono il movimento operaio fra il 1919 e il 1922, costituirono il fondamento della struttura che il fascismo impose all’Italia nel ventennio successivo.”

L’effetto che ancora oggi produce l’analisi di Borghi è una salutare presa di coscienza di come la “storia” con cui abbiamo raccontato e continuiamo a raccontare la scuola italiana sia in buona parte (anche quando “a fin di bene”) mistificata. E di come essa sarebbe potuta andare diversamente.

Abbiamo sempre considerato la scuola una variabile dipendente dalle strutture politiche ed economiche. E i movimenti politici e culturali progressisti non fanno eccezione. Finora ha sempre funzionato così: che lo si riconosca o meno, che lo si condivida o meno, la scuola ha sempre servito sistemi sociali (fossero quelli sognati dal socialismo o quelli imposti dal fascismo) più che la crescita libera di individui autonomi e responsabili. È questa, in fin dei conti, la “riforma” mancata alla scuola italiana. Un cambiamento di paradigma istituzionale che rompesse la sovrapposizione ambigua tra scuola pubblica e scuola di stato (molto più deleteria, a conti fatti, di quella fra pubblico e privato); un cambiamento che garantisse la conservazione del sogno democratico della scuola come servizio pubblico (come strumento cioè in grado di colmare quelle differenze che la natura e la società imponevano alle persone, garantendo pari opportunità a tutti) ma sganciandolo dalle esigenze politiche ed economiche dello stato, di cui le comunità scolastiche potevano piuttosto rinsaldare l’ossatura democratica garantendo su di esso un controllo critico. Tale cambiamento sarebbe potuto avvenire solo a partire da un movimento che affidasse alle sperimentazioni pedagogiche dal basso e a partire dalle necessità dei bambini e dei ragazzi il compito di definire la struttura di un percorso formativo in grado di liberare le loro potenzialità creative e intellettuali.

 

 

Costruire ponti, saltare steccati

Se Margherita Zoebeli seppe indicare, inascoltata, la direzione che avrebbe potuto e dovuto compiere la scuola per rispondere realmente alla propria missione di emancipazione e di liberazione fu grazie alla capacità che possedeva di travalicare categorie che impedivano di guardare alla scuola per quello che essa realmente era: pubblico-privato; socialismo-libertarismo; scuola speciale-scuola di tutti sono solo alcuni dei confini, spesso astratti e ideologici, con cui descriviamo i fatti educativi, che Margherita seppe attraversare e ridefinire con molta persuasione e altrettanta adesione alla realtà.

Prendiamo ad esempio il socialismo, tutto personale, di Margherita. Sebbene a lei non interessassero le etichette e le categorie con cui potremmo definire la sua ispirazione politica, le cui radici sono profondamente immerse nella tradizione del movimento operaio europeo, la sua impostazione politica, anche se lei probabilmente non l’avrebbe definita così, è molto più riconducibile al socialismo utopistico e al movimento cooperativistico ottocenteschi alla Landauer, alla Kropotkin, alla Buber. Un socialismo con venature libertarie, antidogmatico, vicino a un certo anarchismo anglosassone che del socialismo utopistico è stato forse la filiazione più coerente. Non è un caso che fra i tanti incontri e frequentatori del Ceis ci fossero intellettuali e attivisti del movimento anarchico: penso in particolare al dialogo a distanza con Giovanna Caleffi Berneri e al giro di Volontà, penso all’urbanista e architetto Carlo Doglio al medico Ugo Gobbi e soprattutto al ruolo che nel corso del tempo ha avuto Lamberto Borghi.

Colpisce forse, ma non deve stupire (anche per chi ha conosciuto Margherita solo attraverso quel poco di iconografia che ne ha trasmesso l’immagine, come alcuni bellissimi scatti di Werner Bischof che a Rimini passò alcune settimane nel ’47 innamorandosi e portando via con sé una delle maestre del Villaggio), l’accostamento fra la sua figura molto ordinata, austera, ottocentesca e le idee del pensiero e del movimento anarchico che lei non studiò sistematicamente, né probabilmente abbracciò ma che influenzarono la sua visione pedagogica e il modo di organizzare le comunità educative da lei dirette.

Probabilmente anche a causa della sua provenienza transfrontaliera, della natura del suo intervento iniziale, paragonabile a qualcosa di simile a ciò che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” e infine soprattutto alla sua idiosincrasia per posizioni solo ideologicamente fondate, il Ceis seppe instaurare un rapporto, ancora tutto da studiare, nella relazione fra intervento privato e istituzioni pubbliche. Insomma, l’anomalia della sua figura, socialista e proveniente dall’organizzazione sindacale, ma dedita fin da giovanissima a iniziative sociali e pedagogiche transnazionali e per così dire “super statali”, le permise di scardinare, nonostante i sospetti che all’inizio le arrivarono sia dalla destra cattolica che dalla sinistra comunista, lo schema pubblico-privato (pubblico = stato = democrazia; privato = uguale interessi padronali o confessionali = classismo = autoritarismo oligarchico).

La questione non riguardava (e non riguarda del tutto nemmeno oggi!) i privilegi assegnati all’istruzione di tipo confessionale o alle scuole private per i figli della classe dirigente. Anzi, una delle spinte maggiori di Margherita nasceva proprio dal desiderio di poter offrire un’alternativa (metodologica, più che ideologica) alle strutture assistenziali che erano per la maggior parte appaltate a organizzazioni di orientamento confessionale, nelle opere di ricostruzione, di mutualismo, di assistenza alle vittime di guerra e di educazione dei piccoli. Riguardava piuttosto la necessità di poter scegliere metodi insegnamento e filosofie dell’educazione che, come dimostrò proprio in quegli anni Lamberto Borghi, ribaltassero quell’autoritarismo adultocentrico di matrice idealista che trovò massima espressione nella scuola gentiliana ma che sopravvisse nella cultura e nelle pratiche educative dell’Italia Repubblicana proprio perché le origini erano da rintracciare ben prima della pedagogia fascista.

Non è esagerato sostenere che la parte di società civile che tradusse in maniera più consapevole e coerente l’eredità dell’antifascismo fu l’anima democratica, antiautoritaria, decentrata e sperimentale del movimento pedagogico che animò la vita culturale e sociale dalla fine della guerra fino all’inizio degli anni ’60. Pensiamo in particolare ad Aldo Capitini, alle cattedre illuminate dell’università di Firenze e al giro di Scuola e città (rivista e scuola), a Danilo Dolci, al Movimento di cooperazione educativa, al Giornale dei genitori di Ada Gobetti. Molti dei giovani maestri che diedero vita a questo movimento si erano formati alla “scuola” dell’opposizione al nazifascismo, cercando di prolungarne i principi nella ritrovata funzione democratica della scuola dell’obbligo. Intorno alla spinta della ricostruzione si coagulò allora un movimento critico paragonabile (più per le istanze che lo muovevano, che per la capacità di incidere sulle strutture e il funzionamento della scuola pubblica) a quello delle “scuole nuove” che tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 rinnovarono negli Stati Uniti e in molti paesi d’Europa il modo corrente di fare scuola.

La capacità di Margherita di aggirare con ferma noncuranza idee e visioni fossilizzate e di abbattere steccati ideologici in nome dell’interesse e della libertà dei bambini, nasce anche da qua e dalle caratteristiche principali che distinsero il Ceis dagli altri gruppi che animarono tale movimento: gli scambi internazionali e l’attività culturale e di ricerca pedagogica nella quale, per almeno un decennio, il Ceis divenne senz’ombra di dubbio il centro più importante. Oltre a Lamberto Borghi, passarono da lì e lo considerarono sede naturale del movimento di rinnovamento pedagogico che stava prendendo forma in quegli anni, Célestin Freinet, Aldo Pettini, Marcello Trentanove e i maestri dell’Mce, Giovanna Caleffi Berneri, Fabrizia Ramondino (in quegli anni maestra e attivista dell’Associazione risveglio Napoli), Carleton Washburn, Pierre Naville, Lucien Bovet, Maria Calogero e il Movimento di collaborazione civica, solo per citare i più conosciuti.

Potrebbe essere una forzatura cercare prove nella sua formazione, nelle sue frequentazioni, nelle sue letture (fra cui mi piace ricordare, oltre ai “maestri” Adler e Piaget, anche Bakunin, Jack London e Ivan Illich), che dimostrino una vicinanza al pensiero libertario, dovuta più “naturalmente” alla sua predisposizione ad aderire alla realtà dei “fatti educativi”, ma è innegabile la capacità che ebbe di tenere insieme istanze di liberazione e di giustizia affiancate al pragmatismo, allo sperimentalismo e allo spirito di ricerca senza i quali il pensiero libertario altro non è che un’ideologia astratta al pari delle altre. Ed è altrettanto indubbio che la forza attrattiva del Ceis nasceva dalla stessa anomala miscela di visioni e progetti culturali di provenienza così diversa, concentrati in una figura al tempo stesso modesta e radicale, consapevole, in questo caso sì, dell’apporto che le comunità educative come il Villaggio potevano avere nella ricostruzione, questa volta dal basso, dell’assetto democratico della civiltà europea sfibrata da quasi mezzo secolo di totalitarismi.

 

Un esempio che orienta l’azione

È evidente che oggi la scuola intesa come istituzione, come rappresentazione sociale, come strumento per formare le nuove generazioni è distante anni luce dalla scuola con cui dialogò alla luce del proprio esperimento pedagogico Margherita Zoebeli. Anzi la ragione principale per cui il dibattito pubblico sulla scuola si è avvitato su se stesso senza riuscire a trovare da allora nessuna analisi o proposta reale per il cambiamento dipende proprio dal fatto che ci ostiniamo a guardare e a descrivere la scuola con categorie e modelli che sono completamente saltati. Non solo perché probabilmente nemmeno allora ne descrivevano la sua reale natura (un conto era la scuola della Costituzione e del grande sogno dell’“educazione progressiva”, un conto era il progetto reale di “ingegneria sociale” che della scuola, secondo la lezione di don Milani, faceva uso) ma soprattutto perché tutti sentono ma quasi nessuno ammette che sebbene la partita si giochi ancora intorno ai saperi, essa avviene ormai da altre parti, lontano dalle mura scolastiche.

Se si osserva anche da una prospettiva non specialistica il dibattito sulla scuola pubblica degli ultimi decenni è evidente quella che potremmo chiamare l’“aporia del pendolo”. Ciclicamente, di fronte a ogni cambio di governo, a una crisi economica, a un movimento di protesta, le analisi sullo stato di salute della scuola, a destra e a sinistra, oscillano sempre entro lo stesso raggio, gli stessi opposti poli concettuali: scuola pubblica-scuola privata, educazione-istruzione, meritocrazia-egalitarismo, razionalità-emotività, autoritarismo-permissivismo, cognitività-creatività, per usare le categorie più ossificate con cui ingabbiamo il discorso pubblico sulla scuola. Ma il punto è che se non si reimposta il problema al di fuori delle categorie e del modello con cui abbiamo sempre pensato la scuola (del suo modo di organizzare i corpi, il tempo e lo spazio, di formare, selezionare e destinare geograficamente gli insegnanti, di confezionare e gestire burocraticamente e statalmente il sapere) le contraddizioni reali della scuola, definite grossolanamente da quegli opposti poli concettuali che insegnanti e alunni vivono, a volte drammaticamente, sulla propria pelle, non possono trovare soluzione.

Ecco allora che, per tentare una risposta alla domanda da cui hanno preso le mosse queste pagine, la pedagogia ostinata e libera di Margherita Zoebeli, la libertà con cui travalicava confini, idee preconcette, stereotipie ideologiche e che le veniva dalla totale adesione alla “verità” dei desideri e dei bisogni dei bambini è ancora oggi fondamentale per liberare l’orizzonte entro cui ci ostiniamo a definire i problemi dell’infanzia e della sua educazione.

Margherita Zoebeli aveva una certa sfiducia nei confronti delle visioni totalitarie e “rivoluzionarie”. Ogni radicalità è dal suo punto di vista inutile se si limita al piano delle idee e non genera un’azione e un cambiamento. La cultura dell’educazione non è qualcosa che può essere distrutta da un giorno all’altro, è fatta di relazioni tra esseri umani. La distruggiamo contraendo forme di relazione diverse, comportandoci in modo diverso. Per lei sembra valere il principio che secondo Buber distingueva la strategia del movimento cooperativistico ottocentesco da altri filoni di ispirazione utopica: lavorare a mutamenti eseguibili nelle condizioni e coi mezzi che sono dati (se tra i “mezzi dati” consideriamo anche quelli che si possono inventare e sperimentare!). Anche da qui, probabilmente, nacque l’incomprensione cui andò incontro la Zoebeli da parte di molte sue collaboratrici e degli educatori che operavano al Ceis negli anni della contestazione.

La muoveva l’idea che nella società esistano già forme liberate di organizzare le relazioni fra gruppi e persone. I bambini sono naturalmente orientati a queste. Compito dell’educatore è osservare e sperimentare forme di relazione e di insegnamento che alimentino una certa, non univoca, tendenza alla libertà dei bambini e vedere come questa possa essere potenziata. La pedagogia, in questo senso, era per Margherita un nucleo di analisi e di sperimentazioni volte a risolvere problemi pratici, legati all’apprendimento, alla salute del corpo e della mente del bambino. Infine, ma non per questo meno importante, fondamentale nel suo insegnamento fu il costante richiamo all’azione diretta e individuale, affinché ognuno, educatori e bambini compresi, risponda il più possibile autonomamente e liberamente ai propri bisogni e desideri, insieme a un forte riferimento a relazioni mutualistiche.

La libertà di Margherita Zoebeli, che ho tentato di accostare in queste pagine a una certa pedagogia libertaria (più che a un movimento anarchico a cui lei non partecipò mai) è interamente contenuta nel suo pragmatismo, nel suo sperimentalismo, nel suo spirito di ricerca, messi al servizio dell’infanzia e di una visione della società che non schiacciasse l’individuo, ma offrisse le condizioni per una sua più completa liberazione.

 

Libro fondamentale e introvabile, edito da La Nuova Italia, Firenze, nel 1951

Ib. p. 101

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’INSEGNAMENTO DI MARGHERITA ZOEBELI

CARLO DE  MARIA, aprile 2005

L’INSEGNAMENTO DI MARGHERITA ZOEBELI

«Ci fu un tempo in cui Margherita Zoebeli

fu uno dei fuochi della pedagogia italiana»

(Raffaele Laporta)

 

 

Margherita Zoebeli sosteneva che educare fosse un termine molto «delicato». Nei suoi rari interventi pubblici (perlopiù, colloqui e interviste), troviamo chiara consapevolezza della differenza che corre tra insegnare, per fornire gli strumenti dell’autonomia, e istruire, per costringere in un modello confacente al gruppo. È proprio su questo spartiacque, di valore anche politico, che si misura la novità del Centro educativo italo-svizzero di Rimini, nell’Italia del secondo dopoguerra.

Margherita Zoebeli, zurighese, pur essendo aliena da ogni sistemazione teorica, era stata fortemente influenzata nella sua formazione dalla psicologia individuale di Alfred Adler, che faceva leva sul diritto ineliminabile di ogni persona a essere tutelata nel suo bisogno di espressione e di creatività. Una libertà responsabile, che attraverso scelte e ripulse, tentativi ed errori di collaborazione, trovasse infine le proprie regole di condotta. La libertà, così intesa, era messa evidentemente alla prova dei rapporti sociali: non rappresentava più un’idea ingenua di libertà assoluta.

Il progetto di Margherita Zoebeli, come ha notato qualche anno fa Goffredo Fofi, portava con sé scelte pedagogiche radicalmente nuove per il nostro Paese. Ad esempio, il rifiuto di un insegnamento direttivo e frontale, che inquadrasse i bambini in attività uniformi e collettive, nell’ambito di uno spazio organizzato come “blocco unico”. Di fronte a Margherita si pose il problema enorme del rapporto con gli insegnanti italiani, provenienti da una scuola di stampo autoritario, che risentiva della pesante eredità del fascismo e che, quindi, era avvezza all’uniformità e all’obbedienza. Affrontò la situazione nell’unica maniera possibile, con la discussione quotidiana: «Le maestre si fermavano a ragionare con me fino a tarda sera». A distanza di molto tempo, in un colloquio con Raffaele Laporta, Margherita confessò: «Quando ripenso alle difficoltà delle giovani insegnanti che iniziarono a lavorare con me, provo un senso di grande imbarazzo e di rimorso perché non credo di aver potuto misurare in tutta la sua entità lo sconcerto che deve averle prese nei primi anni; io provenivo da un’altra realtà politica e sociale, mi ero formata all’Università sui metodi della scuola attiva…».

È la stessa Margherita Zoebeli, dunque, a richiamare l’attenzione sul suo percorso biografico. Nata nel 1912, proveniva da una famiglia operaia. Per la verità, il padre, come lei stessa teneva a precisare, era «un meccanico molto specializzato», impegnato politicamente, sindacalista e cooperatore socialista. Margherita ebbe la possibilità di frequentare il liceo e di iscriversi successivamente alla facoltà di scienze politiche, interrompendo però gli studi a causa di sopraggiunti problemi famigliari, che la costrinsero a trovarsi un lavoro. Il suo percorso formativo non si era dunque indirizzato immediatamente verso la pedagogia. Vi arrivò per strade traverse e, più precisamente, attraverso l’impegno politico. Margherita militava, infatti, nella gioventù socialista, dove si occupava dei campi di vacanza e delle gite del sabato pomeriggio: «Erano tempi [gli anni Trenta] in cui la disoccupazione cresceva ed il Soccorso Operaio Svizzero si occupava dei bambini dei disoccupati e cercava giovani disposti ad occuparsi dei ragazzi». Il Soccorso Operaio era nato proprio all’inizio di quel decennio per far fronte alla grande crisi economica e alla sua ricaduta sulle industrie della orologeria. A questo iniziale obiettivo si aggiunse presto l’assistenza ai perseguitati dal nazismo. A partire dal 1933, infatti, molti ebrei tedeschi si rifugiarono in Svizzera. Davanti a tale urgenza Margherita consolidò il proprio impegno politico, continuando a proiettarlo soprattutto nel campo educativo. Il Soccorso Operaio Svizzero organizzava seminari di psicologia e di pedagogia: «dovevamo discutere come organizzare una comunità, come creare il posto per ogni bambino e come valorizzare le risorse di ogni bambino». Del resto, il versante degli studi psico-pedagogici risultava particolarmente ricco in Svizzera: era la patria di Adler, ma anche di Jean Piaget.

La “missione” più importante di quegli anni Margherita la svolse in Spagna, alla fine del 1938. Si trattò dell’espatrio e della sistemazione in territorio sicuro di un centinaio di bambini di Barcellona, che vennero così salvati dallo scenario della guerra civile che attanagliava la città catalana. «Abbiamo lavorato più di un mese – ricordava lei stessa a distanza di tempo – per trovare i mezzi di trasporto, i documenti, che erano parziali perché molti bambini avevano perso i genitori nella fuga». Il punto di arrivo era la Francia e, precisamente, una colonia estiva sulla spiaggia di Sète, dove i bambini poterono finalmente fermarsi, con il consenso del governo francese. Negli anni successivi Margherita si abilitò all’Università di Zurigo per l’insegnamento nella scuola dell’obbligo e nella prima metà degli anni Quaranta lavorò come insegnante nelle scuole svizzere. Ma è facile osservare, a questo punto, come la sua esperienza educativa non fosse nata in ambiente scolastico, ma muovendosi, piuttosto, tra le rovine delle città in guerra, assistendo profughi, raccogliendo bambini in fuga. Ancora nel 1944, operò come staffetta in Valdossola per favorire, dopo la sfortunata avventura della locale repubblica, il passaggio dei partigiani in Ticino.

Ecco, dunque, Margherita Zoebeli affacciarsi in Italia, seppure lontana da Rimini, dove, a partire dal 1945, passerà la seconda parte della sua vita.

Al termine della guerra le condizioni della città romagnola erano tragiche: Rimini, che era considerata pilastro della Linea gotica e porta di ingresso nella Valle padana, aveva subito 396 bombardamenti in 11 mesi: «non esisteva una sola strada che si potesse percorrere da un capo all’altro, neppure in bicicletta». Solo il dieci per cento degli edifici si era salvato dalle bombe. Il sindaco della città, il socialista Arturo Clari, si appellò alla solidarietà internazionale e la sua richiesta di aiuto venne accolta dal Soccorso Operaio Svizzero, anche grazie alla mediazione di Antonio Greppi, sindaco di Milano e compagno di partito, che nel 1943-44 aveva trovato riparo proprio in Svizzera.

Nel dicembre 1945, Margherita Zoebeli raggiunse Rimini. Così ricordava una parte di quel viaggio, compiuto attraverso le macerie della guerra: «Ho preso una corriera semidistrutta a Piazza Castello a Milano alle 6 del mattino, con una nebbia fittissima. La corriera era piena zeppa di passeggeri diretti a Bologna, ma i ponti sul Po erano ancora distrutti e bisognava fare lunghe deviazioni per arrivare. Partiti alle 6 del mattino, siamo arrivati alle 8 di sera a Bologna». A Rimini giunse il 17 dicembre.

La mattina del 16 gennaio 1946 i facchini della stazione di Rimini scaricavano il primo dei trenta carri ferroviari provenienti dalla Svizzera con il materiale destinato alla costruzione di un asilo per l’infanzia: quello che venne poi denominato Centro educativo italo-svizzero. Quintali di legno: c’erano gli elementi per i padiglioni dell’asilo e le relative attrezzature, ma anche dei grossi imballaggi destinati alla popolazione civile. Si trattava del cosiddetto “pacco mobili”: un imballo compatto che, mediante un razionale sistema di confezione, conteneva quel che poteva servire a una famiglia che nella guerra avesse perso ogni cosa: vi si trovavano infatti disposti, ben smontati e ripiegati, due letti, quattro seggiole, un tavolo, un armadio e vari utensili da cucina. Una specie di scatola di montaggio per provvedere ad alcuni dei bisogni elementari di ogni persona: potere dormire su un letto e mangiare su un tavolo.

Pochi giorni prima, il 6 gennaio, una delegazione del Soccorso Operaio si era incontrata, nella sede provvisoria dell’Amministrazione comunale, con una rappresentanza di socialisti locali, tra i quali Liliano Faenza, che a distanza di tempo ricordò in modo suggestivo quell’incontro. La delegazione zurighese era formata da due uomini e da due donne. Una di queste era, naturalmente, Margherita Zoebeli, l’altra la misteriosa Deborah Seidenfeld: «fiumana e non svizzera, introdotta come “Barbara”, […] con un suo passato cospirativo. Aveva conosciuto Gramsci a Torino, negli anni di “Ordine Nuovo”. Poi era passata a Mosca e in seguito in Francia. Nel 1929, con la Rita Montagnana, aveva compiuto una missione clandestina in Italia, con valigie a doppio fondo, per contatti con gruppi cospirativi al Nord e con giovani intellettuali napoletani (Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Eugenio Reale). Nel 1933 aveva avuto saltuari rapporti anche con Trotskij, nel corso della breve permanenza dell’esule famoso (e esecrato) a Fontainebleau. Anche Margherita aveva un passato di tutto rispetto… ». Ma questo già lo sappiamo. I due uomini erano l’architetto Felice Schwarz e Alberto Panizzi, zurighese di origine italiana.

Grazie alla figura di Felice Schwarz possiamo affrontare, nel migliore dei modi, un tema fondamentale per comprendere la peculiarità del Centro educativo italo-svizzero: il rapporto tra organizzazione dello spazio e pedagogia. In un articolo della primavera 1946, pubblicato sul periodico locale “Città nuova”, Schwarz scriveva a premessa: «L’architettura è l’espressione più chiara della volontà, delle intenzioni politiche dell’umanità. L’uomo servendosi direttamente dell’architettura, ne è direttamente influenzato. Fedeli alle nostre concezioni socialiste, tentiamo di organizzare il materiale da costruzione di cui noi disponiamo in modo da favorire attraverso le forme ambientali la libera educazione dei nostri bambini». Ad esempio, i padiglioni di legno del CEIS erano stati disposti in modo da lasciare spazio a cortili per i giochi dei bambini e per nascondere ai loro sguardi la vista del paesaggio spettrale di rovine che, allora, li circondava. All’interno dei locali, alcune lavagne mobili davano la possibilità di dividere, rapidamente, le aule in ambienti più intimi. Era ritenuto, infatti, molto importante che il bambino avesse la possibilità di isolarsi, o di crearsi un piccolo gruppo di gioco. Gli sgabelli erano stati studiati in modo da poter essere utilizzati come dei giganteschi cubi da costruzione. «Forse ci sarà dato», concludeva Schwarz, «di raggiungere una modestissima tappa dei nostri scopi politici: educare uomini indipendenti e sicuri di se stessi, capaci di rifiutare ogni forma di concessione del mondo esteriore che tenda a intervenire in modo autoritario». Era propria di Schwarz, come di Margherita Zoebeli, la convinzione che i problemi della pedagogia non potessero considerarsi in modo avulso rispetto alla più larga tematica sociologica, politica e, anche, filosofica. Altrimenti, non sarebbe stato possibile raggiungere un’adeguata intelligenza dei processi dello sviluppo personale. Allargare l’orizzonte pedagogico: era questa la parola d’ordine che loro portavano in Italia.

L’inaugurazione del CEIS avvenne simbolicamente il primo maggio 1946, ma l’asilo era in attività dal mese di aprile. La struttura venne intitolata a Remo Bordoni, figlio dell’assessore Gomberto Bordoni, allora segretario della sezione riminese del PSIUP. Remo, soldato in Grecia, era stato catturato subito dopo l’armistizio da reparti tedeschi, mentre tentava di raggiungere formazioni partigiane, e fucilato. La delegazione svizzera – cioè, i quattro di prima, discesi a tre dopo il rientro a Zurigo dell’architetto Schwarz – si accrebbe con l’arrivo di giovani educatrici da Zurigo e Berna: si trattava di ragazze svizzere che avevano deciso di fare il loro tirocinio a Rimini, raggiungendo così Margherita e Barbara. Nel reclutamento del personale insegnante il CEIS aveva un certo vantaggio: come scuola privata, infatti, non assumeva per prove formali di concorso, ma in base a una conoscenza diretta delle capacità personali, messe a punto in corsi progettati accuratamente e verificate nel tirocinio presso il Centro.

Il primo nucleo di ospiti del villaggio fu composto da 20 orfani di guerra, dai tre ai sei anni; 150 bambini frequentavano la scuola materna all’inizio dell’anno scolastico 1946-47. Verso la fine del 1947 venne organizzata una prima classe elementare, che poteva accogliere una ventina di alunni. Negli anni successivi si completò il corso elementare: 5 classi, che vennero parificate nel 1953.

Il Centro fu motivo di contrasto tra le forze politiche locali. Gli ideali socialisti di Margherita Zoebeli, dell’architetto Schwarz e di tutti i dirigenti del Soccorso Operaio avevano creato sospetti fin dall’inizio, tra i moderati. L’inaugurazione del primo maggio, con tutti quei fazzoletti rossi al collo e le note dell’Internazionale diffuse dall’altoparlante, proprio mentre il vescovo faceva il suo ingresso nel recinto del Centro, era sembrata una provocazione bella e buona. Inoltre, il nuovo asilo sembrava porsi come contraltare alle varie scuole materne tradizionalmente gestite dalle istituzioni religiose. Infine, non bisogna dimenticare che la direttrice del CEIS, oltre a essere socialista, era anche protestante. Ragione di più per evitare quelle “baracche” di legno. Da parte sua, Margherita Zoebeli confermava, a distanza di anni, questa difficoltà di dialogo: «Con le scuole cittadine non ebbi inizialmente molti rapporti; del resto si sentiva molto la diffidenza di insegnanti e operatori scolastici nei nostri confronti ed io non mi sentivo in diritto, proprio in quanto straniera, di entrare in discussioni di carattere ideologico o culturale».

Nell’immediato dopoguerra, il Dono Svizzero – struttura di coordinamento delle organizzazioni assistenziali presenti nella confederazione elvetica – si fece promotore di seminari internazionali dedicati all’infanzia vittima della guerra. Nacquero così le SEPEG (Semaines internationales d’études pour l’enfance victime de la guerre), che offrivano a specialisti di discipline mediche, sociali, pedagogiche, e alle organizzazioni educative e assistenziali dei Paesi devastati dalla guerra, incontri per discutere come affrontare i gravi problemi dell’infanzia e della gioventù colpite dagli eventi bellici. Due convegni SEPEG si tennero al CEIS di Rimini nel periodo 1947-48, con la partecipazione, tra gli altri, di Ernesto Codignola e Lamberto Borghi, i caposcuola della pedagogia laica italiana di quegli anni.

All’inizio del 1945, con l’appoggio della sezione locale del Partito d’Azione, Codignola aveva fondato a Firenze la “Scuola-città Pestalozzi”, che venne affiancata nel 1950 dalla rivista “Scuola e Città”. La “Pestalozzi” sorgeva nel quartiere Santa Croce, in un ambiente sociale povero e degradato, «in cui i ragazzi scorazzavano a frotte abbandonati a se stessi, macilenti e sbrindellati, spesso già pervertiti, a sei o sette anni, dall’esempio della famiglia e della strada». La scuola fiorentina di Codignola e quella riminese della Zoebeli furono esperienze parallele e si trovano di fronte gli stessi ostacoli. Già nell’autunno 1944, ad esempio, Codignola aveva individuato la necessità di «un faticoso e amorevole tirocinio rieducativo» degli insegnanti, per rivitalizzare la scuola italiana, annichilita da vent’anni di fascismo, a forza di trovate reclamistiche e propagandistiche, audizioni radiofoniche, adunate, conferenze di regime e lavori campestri. Da ricondurre alla figura di Codignola sono anche le iniziative della casa editrice La Nuova Italia (diretta dal figlio Tristano), che in quegli anni cominciò a tradurre le opere più interessanti di psicopedagogia, pubblicandole nella collana “Educatori antichi e moderni”, destinata ai maestri. Ad esempio, nel 1949, uscirono le due principali opere pedagogiche di John Dewey, leader indiscusso della cultura progressista americana tra il 1910 e il 1940, Scuola e società e Democrazia e educazione. Sull’importanza di questa operazione culturale ha insistito, in tempi abbastanza recenti, Lamberto Borghi, pedagogista deweyano e libertario, nonché appassionato lettore di Andrea Caffi, che conobbe Codignola nel 1947 a Rimini, proprio in occassione di uno degli incontri SEPEG.

Borghi era appena tornato dagli Stati Uniti – dove si era rifugiato nel 1940, perché colpito dalle leggi razziali fasciste –, e pochi anni dopo entrò nella prima redazione di “Scuola e Città”, insieme a Francesco De Bartolomeis, Raffaele Laporta, Margherita Fasolo e Renato Coèn. Forte di questi redattori, la rivista fondata da Codignola diede battaglia a ortodossie e dogmatismi d’ogni tipo, in nome di una scuola laica e democratica. Non a caso Borghi ricollegava l’impegno espresso da “Scuola e Città” con quello che animava, negli stessi anni, “Il Ponte” di Calamandrei. Attraverso le pagine della rivista di Codignola, ma anche tramite una serie di libri pubblicati dalla Nuova Italia, Borghi diede un apporto fondamentale alla preparazione dei giovani insegnanti italiani.

È precisamente a questo punto, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, che – in una situazione scolastica difficile ma, come si è visto, non priva di aperture – fiorisce in Italia il movimento dell’educazione attiva, attraverso «iniziative di nuovo tipo» da parte di gruppi e associazioni di pedagogisti e di insegnanti d’avanguardia, collegati a movimenti già fiorenti all’estero. Si trattò di un movimento spontaneo, emergente dal basso, con ispirazione laica e intendimenti sociali. In sede di analisi, Lamberto Borghi ne sottolineò la valenza etica e, più precisamente, l’opposizione al principio d’autorità e al confessionalismo.

Nel 1948 si tenne al CEIS il primo corso di perfezionamento per insegnanti della scuola materna, al quale parteciparono operatori scolastici provenienti da tutte le regioni d’Italia. Questo corso venne ripetuto annualmente fino al 1951. Tre anni più tardi, iniziarono a Rimini i corsi CEMEA (Centres d’entraînement aux méthodes d’éducation active), che ebbero maggiore continuità dei precedenti, ripetendosi quasi ogni anno, anche per tutto il decennio successivo. Il primo nucleo italiano dei CEMEA era stato fondato a Firenze nel 1950 da Margherita Fasolo, di ritorno dalla Francia (dove l’associazione era ben forte e diffusa), con l’appoggio di Ernesto Codignola. I corsi del 1958 e del 1959 furono dedicati alla “Formazione dei monitori di colonie”. In particolare, quello del 1959 si tenne a Igea Marina, dal 2 al 12 settembre, e vide la partecipazione, tra gli altri, di Goffredo Fofi, che ha ricordato recentemente quell’esperienza in alcune pagine autobiografiche. Negli stessi anni, presso il CEIS, si tenevano riunioni e convegni del Movimento di cooperazione educativa (MCE), altra organizzazzione “attiva” sorta nell’ambiente di “Scuola e Città” all’inizio degli anni Cinquanta, ad opera di Giuseppe Tamagnini, Aldo Pettini e altri maestri sperimentatori.

Un aspetto dell’attivismo pedagogico che il CEIS portò avanti con particolare convinzione fu la cura dell’educazione estetica dei bambini, associata alla dimensione del gioco. Le attività di pittura, disegno e poesia ebbero, spesso, un felice sbocco nei cataloghi annuali e nelle mostre documentarie. Margherita Zoebeli cercava di far capire che se il bambino sa esprimere la propria creatività e sa muoversi liberamente con il proprio corpo, riuscirà più facilmente a manifestare il suo pensiero e le sue sensazioni a voce o per iscritto. Da qui, l’importanza dei gruppi di lavoro, delle attività manuali e creative. La denominazione “scuola attiva” richiama proprio il carattere educativo dell’attività.

La cura dei bambini traumatizzati dagli eventi bellici – rifiutati nella maggioranza dei casi dalla scuola del tempo – richiedeva evidentemente una particolare preparazione professionale delle insegnanti della scuola materna ed elementare. Pertanto esse furono inviate dal 1950, a più riprese, durante l’estate, a frequentare corsi specializzati in Svizzera e Francia, per ampliare le loro conoscenze pedagogiche e psicologiche e per acquisire le diverse tecniche del lavoro educativo. Si ottennero ottimi risultati di recupero. La presenza di un medico e di uno psicologo, a cui furono concesse borse di studio in pedagogia differenziale curativa con fondi provenienti dalla Svizzera, permise di istituire, fin dall’anno scolastico 1953-54, un Centro medico psico-pedagogico articolato in due branche: 1) il servizio di consultazione a disposizione del pubblico (l’area di riferimento era la provincia di Forlì) e degli enti assistenziali, per la diagnosi delle anomalie dell’intelligenza, disordini neuro-psichici dei bambini, turbe del carattere e trattamento psico-terapeutico dello stesso; 2) le classi differenziali riconosciute dal Ministero della pubblica istruzione, per bambini con turbe del comportamento, e create allo scopo di recuperare tali bambini alle classi normali e di permetterne l’integrazione in una vita sociale costruttiva. Tanto per fare un esempio, all’inizio degli anni Settanta presso il CEIS funzionavano tre sezioni di scuola materna, un ciclo elementare completo e tre classi elementari differenziali. Da notare che nel 1959, il Centro medico psico-pedagogico venne municipalizzato, continuando comunque a funzionare come organo del CEIS.

È proprio tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta che lo slancio rinnovatore espresso dal CEIS cominciò a incontrarsi, sistematicamente, con le istituzioni, anche fuori da Rimini. Ad esempio nel 1961, all’Università di Firenze, si tenne un seminario fra pedagogisti e urbanisti, che ebbe come punto di riferimento il CEIS e come obiettivo lo studio dei problemi dell’edilizia nella scuola materna. Si sedettero intorno allo stesso tavolo pedagogisti come Lamberto Borghi e Francesco De Bartolomeis e urbanisti come Ludovico Quaroni, insieme a insegnanti come Margherita Zoebeli. Sempre all’inizio di quel decennio, il CEIS diede consulenze ad alcuni comuni italiani, relativamente alla costruzione di scuole materne.

Guardando a ritroso la propria vita, Margherita Zoebeli ricordò di avere vissuto il periodo più difficile alla guida del Centro educativo italo-svizzero quando le piovvero addosso le critiche incessanti della generazione del ’68. In quel frangente, Margherita pensò addirittura di lasciare Rimini: «le cicatrici di quelle ferite sono ancora vive». Il riferimento è ai primi anni Settanta: «Per me, in quel periodo, la sofferenza non derivava tanto dalla contestazione in sé ma dalla rinuncia a quelle regole di convivenza e a quei principi d’ordine che comportano necessariamente degli obblighi nei confronti del gruppo». Margherita denunciava il libertarismo malinteso, quello per intenderci della massima “il fanciullo appartiene a se stesso e ogni forma di divieto imposta dagli adulti è soffocazione o castrazione”.

La contestazione passò. Margherita rimase a Rimini, non senza ricevere, nell’ultima parte della sua vita, meritati riconoscimenti pubblici, che non stiamo qui a elencare. A Rimini, Margherita è morta solo dieci anni fa, il 25 febbraio 1996. Il CEIS è ancora attivo in via Vezia, numero 2.

Cfr., ad esempio, Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, in M. Castiglioni et al. (a cura di), Una scuola una città. Il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, con foto inedite di W. Bischof, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 15-45, p. 28; T. De Luigi, S. Pivato (a cura di), Memoria come futuro. Cinquant’anni di vita del CEIS [1946-1996], presentazione di R. Levi Montalcini, Rimini, Maggioli, 1996, p. 25 (dove è citata una frase di M. Zoebeli).

Cfr. R. Laporta, L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 303-304; Id., Presente finché duri amore, in Fondazione Margherita Zoebeli (a cura di), Paesaggio con figura. Margherita Zoebeli e il Ceis. Documenti di una utopia, Rimini, Edizioni Chiamami Città, 1998, pp. 10-12.

Cfr. G. Fofi, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 1999, p. 155.

Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 34, dove aggiungeva, qualche pagina più avanti: «Il modo di lavorare come educatore-insegnante al CEIS richiedeva un impegno particolarmente forte rispetto a quello dei colleghi della scuola statale» (p. 38).

Cfr. Dialogo radiofonico di Michele Gulinucci. Radio Tre, 21 marzo 1993, in Fondazione Margherita Zoebeli (a cura di), Paesaggio con figura, cit., pp. 15-51, p. 17.

Ivi, pp. 18-19.

Ivi, pp. 20-21.

O. Delucca, Nasce il centro italo-svizzero, in De Luigi, Pivato (a cura di), Memoria come futuro, cit., pp. 11-25, p. 11.

Dialogo radiofonico di Michele Gulinucci. Radio Tre, 21 marzo 1993, cit., p. 23.

Cfr. A. Castronuovo, Margherita Zöbeli a Rimini. Storia di una donna e di una scuola, in “La piê”, 2004, n. 5, pp. 213-217.

L. Faenza, La “piccola svizzera”, in De Luigi, Pivato (a cura di), Memoria come futuro, cit., pp. 28-39, p. 29.

F. Schwarz, Il Soccorso Operaio Svizzero per i bimbi riminesi, in “Città nuova”, n. 7, 27.4.1946.

Sui criteri psico-pedagogici del CEIS, e sul loro rapporto con le strutture architettoniche, si veda anche M. Zoebeli, Appunti e proposte di discussione sui problemi dell’educazione nel C.E.I.S., testo dattiloscritto, pp. 3, Rimini, 8.2.1973, conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 959 op. 2).

In precedenza, era stato Gaetano Salvemini a perseguire in Italia una riflessione educativa che fosse strettamente congiunta con la considerazione dei fenomeni della vita sociale. Del resto, come scrisse Lamberto Borghi, «è ben noto che Salvemini non fu un pedagogista di professione e che la sua appassionata riflessione sulle questioni scolastiche fu in lui motivata da un prevalente interesse di carattere sociale e politico» (L. Borghi, Prefazione a G. Salvemini, Scritti sulla scuola, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. IX-XXX, p. IX).

Cfr. M. Zoebeli, C. Curradi, Il Centro Educativo Italo-Svizzero, in Storia illustrata di Rimini, a cura di P. Meldini e A. Turchini, con la collaborazione di P. Sobrero, Milano, Nuova editoriale AIEP, 1991, vol. 4, pp. 1105-1120.

Cfr. Delucca, Nasce il centro italo-svizzero, cit., pp. 24-25.

Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 20.

E. Codignola, Educazione liberatrice, seconda edizione rielaborata, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 248.

Cfr. E. Codignola, Smobilitiamo la scuola, in “Corriere di Firenze”, 19 ottobre 1944.

Cfr. L. Borghi, Educare alla libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 93-102.

Si vedano i riferimenti a Caffi in L. Borghi, Scuola e comunità, Firenze, La Nuova Italia, 1964, ma anche nel suo precedente John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, Firenze, La Nuova Italia, 1951.

Cfr. AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, introduzione di L. Borghi, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 157.

Si vedano soprattutto: Educazione e autorità nell’Italia moderna, del 1951; John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, ancora del 1951; Il fondamento dell’educazione attiva, del 1952; L’educazione e i suoi problemi, del 1953. Fino a Scuola e comunità, del 1964. E oltre.

Cfr. I. Pescioli, La formazione dell’insegnante della scuola di base: il contributo del movimento dell’educazione attiva, in AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, cit., pp. 87-101.

Cfr. L. Borghi, Introduzione ad AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, cit., pp. VII-XXVIII, pp. XXIII-XXIV.

Cfr. Centro Educativo Italo-Svizzero, Alcune date fra le più significative nella vita del C.E.I.S., testo dattiloscritto, pp. 4, [Rimini, 1970], conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 1032), si veda anche Centro Educativo Italo-Svizzero, Attività svolte dal Centro Educativo Italo-Svizzero dalla nascita ad oggi, testo dattiloscritto, pp. 4, [Rimini, 1966], conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 1109).

Cfr. Fofi, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia, cit., pp. 152-157 (il cap. “Una maestra svizzera a Rimini”).

Cfr. Pescioli, La formazione dell’insegnante della scuola di base: il contributo del movimento dell’educazione attiva, cit., pp. 92-93.

Si veda la testimonianza di Lamberto Borghi, in Castiglioni et al. (a cura di), Una scuola una città, cit., pp. 87-88.

Cfr., ad esempio, M. Castiglioni, F. Montanari, M. Zoebeli (a cura di), Il Centro Educativo Italo-Svizzero nei disegni dei bambini. 25 anni al Ceis in una Rassegna di Calendari (1969-1993), parte grafica a cura di M. Amadori, Rimini, Edizioni Chiamami Città, 1993.

Cfr. Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 30.

Cfr. F. De Bartolomeis, Introduzione alla didattica della scuola attiva, Firenze, La Nuova Italia, 1953; Id., Il bambino dai tre ai sei anni e la nuova scuola infantile, Firenze, La Nuova Italia, 1968.

Cfr. G. Jacobucci, Aspetti sociali e educativi del recupero dell’handicappato nella comunità, in AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, cit., pp. 77-85, pp. 80-81.

Cfr. Centro Educativo Italo-Svizzero, Appunti sull’attività medico-psico-pedagogica svolta dal Centro Educativo I.S. dal 1946 ad oggi, testo dattiloscritto, pp. 3, [Rimini, 1971], conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 1108).

Era precisamente il 1961 e il seminario era proprio intitolato “Edilizia nella Scuola Materna” (cfr. Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 38).

Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 25.

 

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