PRESENTAZIONE DEL SITO www.educareallaliberta.org

QUALCHE PRINCIPIO

L’attuale crisi dei sistemi educativi e formativi ha la sua origine nella presenza di un vuoto culturale che riguarda la incapacità di attenzione all’infanzia ed alla giovinezza, cioè alla sostanza del rapporto educativo, non soltanto da parte delle istituzioni ma dell’intera compagine sociale.

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Il centro territoriale ‘Mammut’ di Scampia. Video-intervista a Giovanni Zoppoli

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Intervista a Giovanni Zoppoli, uno dei fondatori del centro territoriale ‘Mammut’ di Scampia, Napoli, realizzata da Andrea Sola nel 2011.

Il Centro territoriale Mammut è un progetto nazionale di ricerca-azione nato nel 2007. Partito da Scampia, ha coinvolto città del Lazio, Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Liguria. Obiettivo del progetto è produrre innovazione metodologica con percorsi educativi rivolti a bambini, ragazzi e adulti caratterizzati dalla eterogeneità di provenienza sociale e politica.

Il progetto Mammut è partito dalla condivisione delle difficoltà che insegnanti e educatori di diverse regioni italiane trovavano nel proprio lavoro quotidiano. Cercando di accorciare la schizofrenia tra chi studia e chi lavora su campo, ne è nata una ricerca metodologica ispirata alla ricerca azione. Le finalità sono quelle di dare un contributo alla scuola nuova, perché il tempo dell’apprendimento sia tempo di liberazione, a partire dal corpo, dalla curiosità, da intuiti e talenti di cui ciascuno è portatore nella sua unicità. Una scuola che si fa città, dove la città è la Scuola.

“Come partorire un Mammut (senza rimanerci schiacciati sotto)”, Marotta & Cafiero edizioni,  2010, Napoli,  è un primo resoconto dell’opera di scrittura collettiva che questa ricerca ha prodotto, essendo sua finalità non solo di incidere sul fare concreto degli educatori coinvolti e delle loro agenzie educative, ma anche produrre pensiero critico e innovazione pedagogia.

Mammut, Piazza Giovanni Paolo II Scampia- Napoli – tel/fax 081 7011674

www.mammutnapoli.org

mammut.napoli@gmail.com

 

E’ uscito il numero 196 di “Una città” di cui riportiamo il sommario.


UNA CITTÀ n. 196 / 2012 Agosto-Settembre

E’ possibile farsi un’idea della rivista (mensile di interviste e foto, di 48 pagine, senza pubblicità) andando al sito http://www.unacitta.it o richiedendo copia saggio a mailing@unacitta.org.

LA CO­PER­TI­NA è de­di­ca­ta agli ope­rai di Ta­ran­to.
L’UMIL­TA’ DEL­LA DE­MO­CRA­ZIA. Una de­mo­cra­zia eli­ta­ri­sta, in cui, in no­me del­la com­pe­ten­za, con­ta­no so­lo gli ef­fet­ti del­le de­ci­sio­ni, non il mo­do in cui ven­go­no pre­se; una cri­ti­ca al­la de­mo­cra­zia che vie­ne da lon­ta­no e che la ve­de co­me pu­ra ma­sche­ra­tu­ra, ca­so­mai pu­re uti­le in quan­to il­lu­so­ria per la gen­te, dell’ine­vi­ta­bi­le po­te­re del­le éli­te; un ple­bi­sci­ta­ri­smo in cui i cit­ta­di­ni so­no so­lo una mas­sa in­for­me; la de­mo­cra­zia che non vuol af­fat­to ap­piat­ti­re tut­ti ma so­lo neu­tra­liz­za­re i pri­vi­le­gi del­la for­tu­na e del­la cul­tu­ra; è la “di­ver­si­tà” de­mo­cra­ti­ca a for­ma­re quel­la che i pa­dri fon­da­to­ri ame­ri­ca­ni chia­ma­va­no “ari­sto­cra­zia na­tu­ra­le”. In­ter­vi­sta a Na­dia Ur­bi­na­ti (da pag. 3 a pag. 6).
IL BIO­ME­DI­CA­LE E L’AC­CIA­IO. Un “ap­pun­to” di Fran­ce­sco Cia­fa­lo­ni sul­la ri­pre­sa del­le espor­ta­zio­ni, con uno sguar­do al di­stret­to di Mi­ran­do­la, che va mol­to be­ne no­no­stan­te il ter­re­mo­to, e all’Il­va, che con­ti­nua a gua­da­gna­re, an­che se a prez­zo del­la sa­lu­te dei suoi ope­rai (pag. 7).
IN­VI­SI­BI­LI. Giu­sep­pi­na Vir­gi­li, im­pren­di­tri­ce dell’ab­bi­glia­men­to, rac­con­ta le tra­ver­sie che, do­po trent’an­ni, l’han­no por­ta­ta a do­ver chiu­de­re la sua dit­ta: i clien­ti che smet­to­no di pa­ga­re, le ban­che che da al­lea­te di­ven­ta­no ne­mi­che e chiu­do­no il cre­di­to, i pro­fes­sio­ni­sti che smet­to­no di se­guir­ti, le isti­tu­zio­ni che non ascol­ta­no, la so­li­tu­di­ne…; l’idea, an­che per usci­re dal­la di­spe­ra­zio­ne, di met­ter­si as­sie­me ad al­tri e fon­da­re un’as­so­cia­zio­ne per da­re vo­ce ai pic­co­li im­pren­di­to­ri, ve­ra spi­na dor­sa­le del pae­se (da pag. 8 a pag. 11).
PER­CHE’ E’ CA­DU­TA L’OC­CU­PA­ZIO­NE GIO­VA­NI­LE? Nel­la ru­bri­ca “neo­de­mos”, Lu­cia­no Ab­bur­rà ci spie­ga co­me la ca­du­ta dell’oc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le ab­bia in­te­res­sa­to so­prat­tut­to le po­si­zio­ni pro­fes­sio­na­li in­ter­me­die, men­tre pro­fes­sio­ni di ran­go su­pe­rio­re e in­fe­rio­re sem­bra­no aver avu­to un an­da­men­to di cre­sci­ta o al­me­no di sta­bi­li­tà (pag. 11).
ESO­DA­TI, DE­RO­GA­TI, SI­LEN­TI. Fran­ce­sca Tor­nie­ri, dell’In­ca Cgil di Ve­ro­na, ci rac­con­ta di co­me ne­gli ul­ti­mi me­si sia­no sta­ti tra­vol­ti dall’au­men­to del­le do­man­de di di­soc­cu­pa­zio­ne, ma an­che dal­le pra­ti­che di chi vuo­le ca­pi­re il pro­prio de­sti­no pre­vi­den­zia­le; le tan­te nor­me suc­ce­du­te­si ne­gli ul­ti­mi an­ni, l’al­lun­ga­men­to del­le fi­ne­stre, l’in­nal­za­men­to dell’età pen­sio­na­bi­le, il ca­so di chi ri­schia di per­de­re i con­tri­bu­ti ver­sa­ti e di chi in­ve­ce, all’im­prov­vi­so si tro­va sen­za am­mor­tiz­za­to­re e sen­za pen­sio­ne; il pro­ble­ma, gra­ve, del­la so­ste­ni­bi­li­tà de­gli am­mor­tiz­za­to­ri so­cia­li (da pag. 12 a pag. 14).
IE­RI E’ PAS­SA­TO… L’abi­tu­di­ne all’al­col fin da gio­va­ne, le pri­me sbor­nie, l’in­con­tro con la co­cai­na che cor­reg­ge gli ef­fet­ti dell’abu­so di al­co­li­ci e ren­de ef­fi­cien­ti, l’il­lu­sio­ne di aver tro­va­to il pa­ra­di­so… e poi i pri­mi pro­ble­mi, an­che eco­no­mi­ci, il ri­cor­so all’al­col fin dal mat­ti­no, i pri­mi ri­co­ve­ri, la fru­stra­zio­ne di non riu­sci­re a uscir­ne, i pro­ble­mi con la fa­mi­glia, l’in­fer­no del­la di­pen­den­za… fi­no a quel­la pri­ma se­ra agli Al­co­li­sti Ano­ni­mi, quan­do cam­biò tut­to. In­ter­vi­sta a Mau­ri­zio (da pag. 15 a pag. 17).
SCUO­LE LI­BE­RE. Tho­mas Pac­ker ci par­la del­la sua espe­rien­za di pre­si­de del­la We­st Lon­don, una del­le pri­me 24 Free School na­te in Gran Bre­ta­gna, scuo­le fon­da­te da in­se­gnan­ti, ge­ni­to­ri o co­mu­ni­tà, au­to­no­me nel­la scel­ta dell’of­fer­ta for­ma­ti­va, nel­le as­sun­zio­ni de­gli in­se­gnan­ti e nel­la ge­stio­ne del bud­get, ma fi­nan­zia­te dal­lo Sta­to; l’im­por­tan­za del­la di­sci­pli­na e la scel­ta di in­se­gna­re il la­ti­no (da pag. 18 a pag. 21).
IL PAR­TI­TO DEL­LA PRO­PRIE­TA’. Gre­go­ry Sum­ner, nel­la “let­te­ra dall’Ame­ri­ca”, ri­cor­da Go­re Vi­dal e il suo mo­ni­to con­tro il “Par­ti­to del­la pro­prie­tà”, da sem­pre for­te in Ame­ri­ca; le oc­ca­sio­ni per­du­te di Oba­ma (pag. 22).
LUO­GHI. Nel­le cen­tra­li com­me­mo­ria­mo l’an­ni­ver­sa­rio del­l’11 set­tem­bre.
IL BAR SI CHIA­MA RO­SA EL­LE. Trent’an­ni fa un grup­po di tren­ta­cin­que gio­va­ni te­de­schi, stan­chi di par­te­ci­pa­re tut­ti i gior­ni a una qual­che ma­ni­fe­sta­zio­ne “con­tro”, de­ci­se­ro di fon­da­re sul­le col­li­ne um­bre una co­mu­ne che vi­ve tut­to­ra, mal­gra­do una ter­ra ari­da, i fi­gli che non re­sta­no, le vi­cen­de af­fet­ti­ve in­tri­ca­te. Ne par­la­no Bea­trix, In­grid, Sa­bi­ne e Il­di­ko (da pag. 27 a pag. 31).
PER­DE­RE LA PA­CE. Il de­cen­na­le con­flit­to dell’Ar­me­nia con l’Azer­bai­jan per il Na­gor­no-Ka­ra­ba­kh e le ana­lo­gie con il Ko­so­vo; la cri­si eco­no­mi­ca e la dif­fi­ci­le tran­si­zio­ne ver­so l’in­te­gra­zio­ne eu­ro­pea. Ap­pun­ti di viag­gio di Pao­lo Ber­ga­ma­schi (pag. 32-33).
LE UGUA­LI OP­POR­TU­NI­TA’. Sul rap­por­to tra li­be­ra­li­smo e li­be­ri­smo Ei­nau­di eb­be a ri­flet­te­re tut­ta la vi­ta; l’am­bien­te To­ri­ne­se di fi­ne Ot­to­cen­to e la straor­di­na­ria espe­rien­za del “la­bo­ra­to­rio di eco­no­mia po­li­ti­ca”, la cri­si dei li­be­ra­li tra le due guer­re; l’in­te­res­se per il mo­vi­men­to so­cia­li­sta e la suc­ces­si­va de­lu­sio­ne; la cri­ti­ca ai mo­no­po­li e la po­le­mi­ca con Cro­ce sul­la pos­si­bi­li­tà di es­se­re li­be­ri in una so­cie­tà il­li­be­ra­le; gli al­lie­vi Go­bet­ti e Ros­sel­li; l’im­por­tan­za del­le re­go­le in un re­gi­me di li­be­ro mer­ca­to e la pre­oc­cu­pa­zio­ne per uno Sta­to trop­po in­va­si­vo. In­ter­vi­sta a Ro­ber­to Mar­chio­nat­ti (da pag. 34 a pag. 38).
IL CON­DI­ZIO­NA­LE AT­TE­NUA­TI­VO. Ri­chard Sen­nett par­la del­le do­ti ri­chie­ste per vi­ve­re in una so­cie­tà in cui sia­mo chia­ma­ti a con­vi­ve­re con per­so­ne con va­lo­ri e abi­tu­di­ni di­ver­se dal­le no­stre, in pri­mis l’em­pa­tia, che è di­ver­sa dal­la sim­pa­tia; la cri­si del­le scuo­le pub­bli­che e il ruo­lo dei so­cial net­work; l’espe­rien­za di Se­iu, il sin­da­ca­to ame­ri­ca­no del per­so­na­le dei ser­vi­zi, che or­ga­niz­za asi­li e as­si­sten­za agli an­zia­ni; la gra­ti­fi­ca­zio­ne che si pro­va quan­do si smet­te di ave­re pau­ra dell’al­tro (da pag. 39 a pag. 41).
“BIO­LO­GI­CO”. Gior­gio For­ti in­ter­vie­ne sul di­bat­ti­to aper­to dall’in­ter­vi­sta ad An­to­nio Pa­sca­le, spie­gan­do per­ché non ha sen­so par­la­re di agri­col­tu­ra “bio­lo­gi­ca” e qua­li so­no i mo­ti­vi per cui in­ve­ce ha sen­so op­por­si agli Ogm (pag. 42-43).
LET­TE­RA DALL’IN­GHIL­TER­RA. Be­lo­na Gree­n­wood ci par­la dell’in­fla­zio­ne del­le pa­ro­le, di un esu­le cu­ba­no e dell’in­cer­to de­sti­no del­le pic­co­le ri­vi­ste in­di­pen­den­ti (pag. 45).
LA VI­SI­TA è al­la tom­ba di Nel­lo Tra­quan­di.
AP­PUN­TI DI UN ME­SE. Si par­la di Ga­za do­ve è in cor­so un ine­di­to boom edi­li­zio e di una fab­bri­ca di ge­la­ti del We­st Bank, di scuo­le ru­me­ne, del di­bat­ti­to in cor­so in Gran Bre­ta­gna sul co­sto del­la non au­to­suf­fi­cien­za e sul­la quo­ta da chie­de­re agli as­si­sti­ti, di ban­che del tem­po e mo­ne­te lo­ca­li in Spa­gna, di soap-ope­ra in Si­ria, di mor­ti in car­ce­re, di quan­to sia po­co sa­no un mon­do po­ve­ro di mi­cro­bi, ec­ce­te­ra ec­ce­te­ra (da pag. 44 a pag. 47).
IL VEC­CHIO CER­VI. “Il pre­si­den­te ave­va let­to, in un ar­ti­co­lo di Ita­lo Cal­vi­no, che tra i li­bri dei set­te fra­tel­li, si no­ve­ra­no al­cu­ni fa­sci­co­li del­la ri­vi­sta La Ri­for­ma So­cia­le, un tem­po da lui di­ret­ta e poi sop­pres­sa dal re­gi­me fa­sci­sti­co, e di­ce al pa­dre del­la sua com­mo­zio­ne per po­ter co­sì pen­sa­re con or­go­glio ad un suo rap­por­to spi­ri­tua­le coi mar­ti­ri”; per il “re­print” dell’ul­ti­ma pub­bli­chia­mo un te­sto di Lui­gi Ei­nau­di usci­to su “Il Mon­do” del 16 mar­zo 1954 in cui rac­con­ta del suo in­con­tro, da Pre­si­den­te, con il pa­dre dei fra­tel­li Cer­vi.

Kiskanu, una scuola elementare e media democratica antiautoritaria (2005-2011)

Kiskanu, una scuola sperimentale aperta a Verona nel 2005 ha chiuso l’attività alla fine dell’anno scolastico 2011\12. Questo documentario è stato realizzato nella primavera del 2011 da Andrea Sola.

L’avventura dello scoiattolo – laboratorio di narrazioni per immagini condotto da Andrea Sola

Il laboratorio è stato condotto nell’anno scolastico 2011/12 con gli allievi della scuola democratica Kiskanu di Verona.

L’INSEGNAMENTO DI MARGHERITA ZOEBELI

CARLO DE  MARIA, aprile 2005

L’INSEGNAMENTO DI MARGHERITA ZOEBELI

«Ci fu un tempo in cui Margherita Zoebeli

fu uno dei fuochi della pedagogia italiana»

(Raffaele Laporta)

 

 

Margherita Zoebeli sosteneva che educare fosse un termine molto «delicato». Nei suoi rari interventi pubblici (perlopiù, colloqui e interviste), troviamo chiara consapevolezza della differenza che corre tra insegnare, per fornire gli strumenti dell’autonomia, e istruire, per costringere in un modello confacente al gruppo. È proprio su questo spartiacque, di valore anche politico, che si misura la novità del Centro educativo italo-svizzero di Rimini, nell’Italia del secondo dopoguerra.

Margherita Zoebeli, zurighese, pur essendo aliena da ogni sistemazione teorica, era stata fortemente influenzata nella sua formazione dalla psicologia individuale di Alfred Adler, che faceva leva sul diritto ineliminabile di ogni persona a essere tutelata nel suo bisogno di espressione e di creatività. Una libertà responsabile, che attraverso scelte e ripulse, tentativi ed errori di collaborazione, trovasse infine le proprie regole di condotta. La libertà, così intesa, era messa evidentemente alla prova dei rapporti sociali: non rappresentava più un’idea ingenua di libertà assoluta.

Il progetto di Margherita Zoebeli, come ha notato qualche anno fa Goffredo Fofi, portava con sé scelte pedagogiche radicalmente nuove per il nostro Paese. Ad esempio, il rifiuto di un insegnamento direttivo e frontale, che inquadrasse i bambini in attività uniformi e collettive, nell’ambito di uno spazio organizzato come “blocco unico”. Di fronte a Margherita si pose il problema enorme del rapporto con gli insegnanti italiani, provenienti da una scuola di stampo autoritario, che risentiva della pesante eredità del fascismo e che, quindi, era avvezza all’uniformità e all’obbedienza. Affrontò la situazione nell’unica maniera possibile, con la discussione quotidiana: «Le maestre si fermavano a ragionare con me fino a tarda sera». A distanza di molto tempo, in un colloquio con Raffaele Laporta, Margherita confessò: «Quando ripenso alle difficoltà delle giovani insegnanti che iniziarono a lavorare con me, provo un senso di grande imbarazzo e di rimorso perché non credo di aver potuto misurare in tutta la sua entità lo sconcerto che deve averle prese nei primi anni; io provenivo da un’altra realtà politica e sociale, mi ero formata all’Università sui metodi della scuola attiva…».

È la stessa Margherita Zoebeli, dunque, a richiamare l’attenzione sul suo percorso biografico. Nata nel 1912, proveniva da una famiglia operaia. Per la verità, il padre, come lei stessa teneva a precisare, era «un meccanico molto specializzato», impegnato politicamente, sindacalista e cooperatore socialista. Margherita ebbe la possibilità di frequentare il liceo e di iscriversi successivamente alla facoltà di scienze politiche, interrompendo però gli studi a causa di sopraggiunti problemi famigliari, che la costrinsero a trovarsi un lavoro. Il suo percorso formativo non si era dunque indirizzato immediatamente verso la pedagogia. Vi arrivò per strade traverse e, più precisamente, attraverso l’impegno politico. Margherita militava, infatti, nella gioventù socialista, dove si occupava dei campi di vacanza e delle gite del sabato pomeriggio: «Erano tempi [gli anni Trenta] in cui la disoccupazione cresceva ed il Soccorso Operaio Svizzero si occupava dei bambini dei disoccupati e cercava giovani disposti ad occuparsi dei ragazzi». Il Soccorso Operaio era nato proprio all’inizio di quel decennio per far fronte alla grande crisi economica e alla sua ricaduta sulle industrie della orologeria. A questo iniziale obiettivo si aggiunse presto l’assistenza ai perseguitati dal nazismo. A partire dal 1933, infatti, molti ebrei tedeschi si rifugiarono in Svizzera. Davanti a tale urgenza Margherita consolidò il proprio impegno politico, continuando a proiettarlo soprattutto nel campo educativo. Il Soccorso Operaio Svizzero organizzava seminari di psicologia e di pedagogia: «dovevamo discutere come organizzare una comunità, come creare il posto per ogni bambino e come valorizzare le risorse di ogni bambino». Del resto, il versante degli studi psico-pedagogici risultava particolarmente ricco in Svizzera: era la patria di Adler, ma anche di Jean Piaget.

La “missione” più importante di quegli anni Margherita la svolse in Spagna, alla fine del 1938. Si trattò dell’espatrio e della sistemazione in territorio sicuro di un centinaio di bambini di Barcellona, che vennero così salvati dallo scenario della guerra civile che attanagliava la città catalana. «Abbiamo lavorato più di un mese – ricordava lei stessa a distanza di tempo – per trovare i mezzi di trasporto, i documenti, che erano parziali perché molti bambini avevano perso i genitori nella fuga». Il punto di arrivo era la Francia e, precisamente, una colonia estiva sulla spiaggia di Sète, dove i bambini poterono finalmente fermarsi, con il consenso del governo francese. Negli anni successivi Margherita si abilitò all’Università di Zurigo per l’insegnamento nella scuola dell’obbligo e nella prima metà degli anni Quaranta lavorò come insegnante nelle scuole svizzere. Ma è facile osservare, a questo punto, come la sua esperienza educativa non fosse nata in ambiente scolastico, ma muovendosi, piuttosto, tra le rovine delle città in guerra, assistendo profughi, raccogliendo bambini in fuga. Ancora nel 1944, operò come staffetta in Valdossola per favorire, dopo la sfortunata avventura della locale repubblica, il passaggio dei partigiani in Ticino.

Ecco, dunque, Margherita Zoebeli affacciarsi in Italia, seppure lontana da Rimini, dove, a partire dal 1945, passerà la seconda parte della sua vita.

Al termine della guerra le condizioni della città romagnola erano tragiche: Rimini, che era considerata pilastro della Linea gotica e porta di ingresso nella Valle padana, aveva subito 396 bombardamenti in 11 mesi: «non esisteva una sola strada che si potesse percorrere da un capo all’altro, neppure in bicicletta». Solo il dieci per cento degli edifici si era salvato dalle bombe. Il sindaco della città, il socialista Arturo Clari, si appellò alla solidarietà internazionale e la sua richiesta di aiuto venne accolta dal Soccorso Operaio Svizzero, anche grazie alla mediazione di Antonio Greppi, sindaco di Milano e compagno di partito, che nel 1943-44 aveva trovato riparo proprio in Svizzera.

Nel dicembre 1945, Margherita Zoebeli raggiunse Rimini. Così ricordava una parte di quel viaggio, compiuto attraverso le macerie della guerra: «Ho preso una corriera semidistrutta a Piazza Castello a Milano alle 6 del mattino, con una nebbia fittissima. La corriera era piena zeppa di passeggeri diretti a Bologna, ma i ponti sul Po erano ancora distrutti e bisognava fare lunghe deviazioni per arrivare. Partiti alle 6 del mattino, siamo arrivati alle 8 di sera a Bologna». A Rimini giunse il 17 dicembre.

La mattina del 16 gennaio 1946 i facchini della stazione di Rimini scaricavano il primo dei trenta carri ferroviari provenienti dalla Svizzera con il materiale destinato alla costruzione di un asilo per l’infanzia: quello che venne poi denominato Centro educativo italo-svizzero. Quintali di legno: c’erano gli elementi per i padiglioni dell’asilo e le relative attrezzature, ma anche dei grossi imballaggi destinati alla popolazione civile. Si trattava del cosiddetto “pacco mobili”: un imballo compatto che, mediante un razionale sistema di confezione, conteneva quel che poteva servire a una famiglia che nella guerra avesse perso ogni cosa: vi si trovavano infatti disposti, ben smontati e ripiegati, due letti, quattro seggiole, un tavolo, un armadio e vari utensili da cucina. Una specie di scatola di montaggio per provvedere ad alcuni dei bisogni elementari di ogni persona: potere dormire su un letto e mangiare su un tavolo.

Pochi giorni prima, il 6 gennaio, una delegazione del Soccorso Operaio si era incontrata, nella sede provvisoria dell’Amministrazione comunale, con una rappresentanza di socialisti locali, tra i quali Liliano Faenza, che a distanza di tempo ricordò in modo suggestivo quell’incontro. La delegazione zurighese era formata da due uomini e da due donne. Una di queste era, naturalmente, Margherita Zoebeli, l’altra la misteriosa Deborah Seidenfeld: «fiumana e non svizzera, introdotta come “Barbara”, […] con un suo passato cospirativo. Aveva conosciuto Gramsci a Torino, negli anni di “Ordine Nuovo”. Poi era passata a Mosca e in seguito in Francia. Nel 1929, con la Rita Montagnana, aveva compiuto una missione clandestina in Italia, con valigie a doppio fondo, per contatti con gruppi cospirativi al Nord e con giovani intellettuali napoletani (Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Eugenio Reale). Nel 1933 aveva avuto saltuari rapporti anche con Trotskij, nel corso della breve permanenza dell’esule famoso (e esecrato) a Fontainebleau. Anche Margherita aveva un passato di tutto rispetto… ». Ma questo già lo sappiamo. I due uomini erano l’architetto Felice Schwarz e Alberto Panizzi, zurighese di origine italiana.

Grazie alla figura di Felice Schwarz possiamo affrontare, nel migliore dei modi, un tema fondamentale per comprendere la peculiarità del Centro educativo italo-svizzero: il rapporto tra organizzazione dello spazio e pedagogia. In un articolo della primavera 1946, pubblicato sul periodico locale “Città nuova”, Schwarz scriveva a premessa: «L’architettura è l’espressione più chiara della volontà, delle intenzioni politiche dell’umanità. L’uomo servendosi direttamente dell’architettura, ne è direttamente influenzato. Fedeli alle nostre concezioni socialiste, tentiamo di organizzare il materiale da costruzione di cui noi disponiamo in modo da favorire attraverso le forme ambientali la libera educazione dei nostri bambini». Ad esempio, i padiglioni di legno del CEIS erano stati disposti in modo da lasciare spazio a cortili per i giochi dei bambini e per nascondere ai loro sguardi la vista del paesaggio spettrale di rovine che, allora, li circondava. All’interno dei locali, alcune lavagne mobili davano la possibilità di dividere, rapidamente, le aule in ambienti più intimi. Era ritenuto, infatti, molto importante che il bambino avesse la possibilità di isolarsi, o di crearsi un piccolo gruppo di gioco. Gli sgabelli erano stati studiati in modo da poter essere utilizzati come dei giganteschi cubi da costruzione. «Forse ci sarà dato», concludeva Schwarz, «di raggiungere una modestissima tappa dei nostri scopi politici: educare uomini indipendenti e sicuri di se stessi, capaci di rifiutare ogni forma di concessione del mondo esteriore che tenda a intervenire in modo autoritario». Era propria di Schwarz, come di Margherita Zoebeli, la convinzione che i problemi della pedagogia non potessero considerarsi in modo avulso rispetto alla più larga tematica sociologica, politica e, anche, filosofica. Altrimenti, non sarebbe stato possibile raggiungere un’adeguata intelligenza dei processi dello sviluppo personale. Allargare l’orizzonte pedagogico: era questa la parola d’ordine che loro portavano in Italia.

L’inaugurazione del CEIS avvenne simbolicamente il primo maggio 1946, ma l’asilo era in attività dal mese di aprile. La struttura venne intitolata a Remo Bordoni, figlio dell’assessore Gomberto Bordoni, allora segretario della sezione riminese del PSIUP. Remo, soldato in Grecia, era stato catturato subito dopo l’armistizio da reparti tedeschi, mentre tentava di raggiungere formazioni partigiane, e fucilato. La delegazione svizzera – cioè, i quattro di prima, discesi a tre dopo il rientro a Zurigo dell’architetto Schwarz – si accrebbe con l’arrivo di giovani educatrici da Zurigo e Berna: si trattava di ragazze svizzere che avevano deciso di fare il loro tirocinio a Rimini, raggiungendo così Margherita e Barbara. Nel reclutamento del personale insegnante il CEIS aveva un certo vantaggio: come scuola privata, infatti, non assumeva per prove formali di concorso, ma in base a una conoscenza diretta delle capacità personali, messe a punto in corsi progettati accuratamente e verificate nel tirocinio presso il Centro.

Il primo nucleo di ospiti del villaggio fu composto da 20 orfani di guerra, dai tre ai sei anni; 150 bambini frequentavano la scuola materna all’inizio dell’anno scolastico 1946-47. Verso la fine del 1947 venne organizzata una prima classe elementare, che poteva accogliere una ventina di alunni. Negli anni successivi si completò il corso elementare: 5 classi, che vennero parificate nel 1953.

Il Centro fu motivo di contrasto tra le forze politiche locali. Gli ideali socialisti di Margherita Zoebeli, dell’architetto Schwarz e di tutti i dirigenti del Soccorso Operaio avevano creato sospetti fin dall’inizio, tra i moderati. L’inaugurazione del primo maggio, con tutti quei fazzoletti rossi al collo e le note dell’Internazionale diffuse dall’altoparlante, proprio mentre il vescovo faceva il suo ingresso nel recinto del Centro, era sembrata una provocazione bella e buona. Inoltre, il nuovo asilo sembrava porsi come contraltare alle varie scuole materne tradizionalmente gestite dalle istituzioni religiose. Infine, non bisogna dimenticare che la direttrice del CEIS, oltre a essere socialista, era anche protestante. Ragione di più per evitare quelle “baracche” di legno. Da parte sua, Margherita Zoebeli confermava, a distanza di anni, questa difficoltà di dialogo: «Con le scuole cittadine non ebbi inizialmente molti rapporti; del resto si sentiva molto la diffidenza di insegnanti e operatori scolastici nei nostri confronti ed io non mi sentivo in diritto, proprio in quanto straniera, di entrare in discussioni di carattere ideologico o culturale».

Nell’immediato dopoguerra, il Dono Svizzero – struttura di coordinamento delle organizzazioni assistenziali presenti nella confederazione elvetica – si fece promotore di seminari internazionali dedicati all’infanzia vittima della guerra. Nacquero così le SEPEG (Semaines internationales d’études pour l’enfance victime de la guerre), che offrivano a specialisti di discipline mediche, sociali, pedagogiche, e alle organizzazioni educative e assistenziali dei Paesi devastati dalla guerra, incontri per discutere come affrontare i gravi problemi dell’infanzia e della gioventù colpite dagli eventi bellici. Due convegni SEPEG si tennero al CEIS di Rimini nel periodo 1947-48, con la partecipazione, tra gli altri, di Ernesto Codignola e Lamberto Borghi, i caposcuola della pedagogia laica italiana di quegli anni.

All’inizio del 1945, con l’appoggio della sezione locale del Partito d’Azione, Codignola aveva fondato a Firenze la “Scuola-città Pestalozzi”, che venne affiancata nel 1950 dalla rivista “Scuola e Città”. La “Pestalozzi” sorgeva nel quartiere Santa Croce, in un ambiente sociale povero e degradato, «in cui i ragazzi scorazzavano a frotte abbandonati a se stessi, macilenti e sbrindellati, spesso già pervertiti, a sei o sette anni, dall’esempio della famiglia e della strada». La scuola fiorentina di Codignola e quella riminese della Zoebeli furono esperienze parallele e si trovano di fronte gli stessi ostacoli. Già nell’autunno 1944, ad esempio, Codignola aveva individuato la necessità di «un faticoso e amorevole tirocinio rieducativo» degli insegnanti, per rivitalizzare la scuola italiana, annichilita da vent’anni di fascismo, a forza di trovate reclamistiche e propagandistiche, audizioni radiofoniche, adunate, conferenze di regime e lavori campestri. Da ricondurre alla figura di Codignola sono anche le iniziative della casa editrice La Nuova Italia (diretta dal figlio Tristano), che in quegli anni cominciò a tradurre le opere più interessanti di psicopedagogia, pubblicandole nella collana “Educatori antichi e moderni”, destinata ai maestri. Ad esempio, nel 1949, uscirono le due principali opere pedagogiche di John Dewey, leader indiscusso della cultura progressista americana tra il 1910 e il 1940, Scuola e società e Democrazia e educazione. Sull’importanza di questa operazione culturale ha insistito, in tempi abbastanza recenti, Lamberto Borghi, pedagogista deweyano e libertario, nonché appassionato lettore di Andrea Caffi, che conobbe Codignola nel 1947 a Rimini, proprio in occassione di uno degli incontri SEPEG.

Borghi era appena tornato dagli Stati Uniti – dove si era rifugiato nel 1940, perché colpito dalle leggi razziali fasciste –, e pochi anni dopo entrò nella prima redazione di “Scuola e Città”, insieme a Francesco De Bartolomeis, Raffaele Laporta, Margherita Fasolo e Renato Coèn. Forte di questi redattori, la rivista fondata da Codignola diede battaglia a ortodossie e dogmatismi d’ogni tipo, in nome di una scuola laica e democratica. Non a caso Borghi ricollegava l’impegno espresso da “Scuola e Città” con quello che animava, negli stessi anni, “Il Ponte” di Calamandrei. Attraverso le pagine della rivista di Codignola, ma anche tramite una serie di libri pubblicati dalla Nuova Italia, Borghi diede un apporto fondamentale alla preparazione dei giovani insegnanti italiani.

È precisamente a questo punto, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, che – in una situazione scolastica difficile ma, come si è visto, non priva di aperture – fiorisce in Italia il movimento dell’educazione attiva, attraverso «iniziative di nuovo tipo» da parte di gruppi e associazioni di pedagogisti e di insegnanti d’avanguardia, collegati a movimenti già fiorenti all’estero. Si trattò di un movimento spontaneo, emergente dal basso, con ispirazione laica e intendimenti sociali. In sede di analisi, Lamberto Borghi ne sottolineò la valenza etica e, più precisamente, l’opposizione al principio d’autorità e al confessionalismo.

Nel 1948 si tenne al CEIS il primo corso di perfezionamento per insegnanti della scuola materna, al quale parteciparono operatori scolastici provenienti da tutte le regioni d’Italia. Questo corso venne ripetuto annualmente fino al 1951. Tre anni più tardi, iniziarono a Rimini i corsi CEMEA (Centres d’entraînement aux méthodes d’éducation active), che ebbero maggiore continuità dei precedenti, ripetendosi quasi ogni anno, anche per tutto il decennio successivo. Il primo nucleo italiano dei CEMEA era stato fondato a Firenze nel 1950 da Margherita Fasolo, di ritorno dalla Francia (dove l’associazione era ben forte e diffusa), con l’appoggio di Ernesto Codignola. I corsi del 1958 e del 1959 furono dedicati alla “Formazione dei monitori di colonie”. In particolare, quello del 1959 si tenne a Igea Marina, dal 2 al 12 settembre, e vide la partecipazione, tra gli altri, di Goffredo Fofi, che ha ricordato recentemente quell’esperienza in alcune pagine autobiografiche. Negli stessi anni, presso il CEIS, si tenevano riunioni e convegni del Movimento di cooperazione educativa (MCE), altra organizzazzione “attiva” sorta nell’ambiente di “Scuola e Città” all’inizio degli anni Cinquanta, ad opera di Giuseppe Tamagnini, Aldo Pettini e altri maestri sperimentatori.

Un aspetto dell’attivismo pedagogico che il CEIS portò avanti con particolare convinzione fu la cura dell’educazione estetica dei bambini, associata alla dimensione del gioco. Le attività di pittura, disegno e poesia ebbero, spesso, un felice sbocco nei cataloghi annuali e nelle mostre documentarie. Margherita Zoebeli cercava di far capire che se il bambino sa esprimere la propria creatività e sa muoversi liberamente con il proprio corpo, riuscirà più facilmente a manifestare il suo pensiero e le sue sensazioni a voce o per iscritto. Da qui, l’importanza dei gruppi di lavoro, delle attività manuali e creative. La denominazione “scuola attiva” richiama proprio il carattere educativo dell’attività.

La cura dei bambini traumatizzati dagli eventi bellici – rifiutati nella maggioranza dei casi dalla scuola del tempo – richiedeva evidentemente una particolare preparazione professionale delle insegnanti della scuola materna ed elementare. Pertanto esse furono inviate dal 1950, a più riprese, durante l’estate, a frequentare corsi specializzati in Svizzera e Francia, per ampliare le loro conoscenze pedagogiche e psicologiche e per acquisire le diverse tecniche del lavoro educativo. Si ottennero ottimi risultati di recupero. La presenza di un medico e di uno psicologo, a cui furono concesse borse di studio in pedagogia differenziale curativa con fondi provenienti dalla Svizzera, permise di istituire, fin dall’anno scolastico 1953-54, un Centro medico psico-pedagogico articolato in due branche: 1) il servizio di consultazione a disposizione del pubblico (l’area di riferimento era la provincia di Forlì) e degli enti assistenziali, per la diagnosi delle anomalie dell’intelligenza, disordini neuro-psichici dei bambini, turbe del carattere e trattamento psico-terapeutico dello stesso; 2) le classi differenziali riconosciute dal Ministero della pubblica istruzione, per bambini con turbe del comportamento, e create allo scopo di recuperare tali bambini alle classi normali e di permetterne l’integrazione in una vita sociale costruttiva. Tanto per fare un esempio, all’inizio degli anni Settanta presso il CEIS funzionavano tre sezioni di scuola materna, un ciclo elementare completo e tre classi elementari differenziali. Da notare che nel 1959, il Centro medico psico-pedagogico venne municipalizzato, continuando comunque a funzionare come organo del CEIS.

È proprio tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta che lo slancio rinnovatore espresso dal CEIS cominciò a incontrarsi, sistematicamente, con le istituzioni, anche fuori da Rimini. Ad esempio nel 1961, all’Università di Firenze, si tenne un seminario fra pedagogisti e urbanisti, che ebbe come punto di riferimento il CEIS e come obiettivo lo studio dei problemi dell’edilizia nella scuola materna. Si sedettero intorno allo stesso tavolo pedagogisti come Lamberto Borghi e Francesco De Bartolomeis e urbanisti come Ludovico Quaroni, insieme a insegnanti come Margherita Zoebeli. Sempre all’inizio di quel decennio, il CEIS diede consulenze ad alcuni comuni italiani, relativamente alla costruzione di scuole materne.

Guardando a ritroso la propria vita, Margherita Zoebeli ricordò di avere vissuto il periodo più difficile alla guida del Centro educativo italo-svizzero quando le piovvero addosso le critiche incessanti della generazione del ’68. In quel frangente, Margherita pensò addirittura di lasciare Rimini: «le cicatrici di quelle ferite sono ancora vive». Il riferimento è ai primi anni Settanta: «Per me, in quel periodo, la sofferenza non derivava tanto dalla contestazione in sé ma dalla rinuncia a quelle regole di convivenza e a quei principi d’ordine che comportano necessariamente degli obblighi nei confronti del gruppo». Margherita denunciava il libertarismo malinteso, quello per intenderci della massima “il fanciullo appartiene a se stesso e ogni forma di divieto imposta dagli adulti è soffocazione o castrazione”.

La contestazione passò. Margherita rimase a Rimini, non senza ricevere, nell’ultima parte della sua vita, meritati riconoscimenti pubblici, che non stiamo qui a elencare. A Rimini, Margherita è morta solo dieci anni fa, il 25 febbraio 1996. Il CEIS è ancora attivo in via Vezia, numero 2.

Cfr., ad esempio, Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, in M. Castiglioni et al. (a cura di), Una scuola una città. Il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, con foto inedite di W. Bischof, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 15-45, p. 28; T. De Luigi, S. Pivato (a cura di), Memoria come futuro. Cinquant’anni di vita del CEIS [1946-1996], presentazione di R. Levi Montalcini, Rimini, Maggioli, 1996, p. 25 (dove è citata una frase di M. Zoebeli).

Cfr. R. Laporta, L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 303-304; Id., Presente finché duri amore, in Fondazione Margherita Zoebeli (a cura di), Paesaggio con figura. Margherita Zoebeli e il Ceis. Documenti di una utopia, Rimini, Edizioni Chiamami Città, 1998, pp. 10-12.

Cfr. G. Fofi, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 1999, p. 155.

Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 34, dove aggiungeva, qualche pagina più avanti: «Il modo di lavorare come educatore-insegnante al CEIS richiedeva un impegno particolarmente forte rispetto a quello dei colleghi della scuola statale» (p. 38).

Cfr. Dialogo radiofonico di Michele Gulinucci. Radio Tre, 21 marzo 1993, in Fondazione Margherita Zoebeli (a cura di), Paesaggio con figura, cit., pp. 15-51, p. 17.

Ivi, pp. 18-19.

Ivi, pp. 20-21.

O. Delucca, Nasce il centro italo-svizzero, in De Luigi, Pivato (a cura di), Memoria come futuro, cit., pp. 11-25, p. 11.

Dialogo radiofonico di Michele Gulinucci. Radio Tre, 21 marzo 1993, cit., p. 23.

Cfr. A. Castronuovo, Margherita Zöbeli a Rimini. Storia di una donna e di una scuola, in “La piê”, 2004, n. 5, pp. 213-217.

L. Faenza, La “piccola svizzera”, in De Luigi, Pivato (a cura di), Memoria come futuro, cit., pp. 28-39, p. 29.

F. Schwarz, Il Soccorso Operaio Svizzero per i bimbi riminesi, in “Città nuova”, n. 7, 27.4.1946.

Sui criteri psico-pedagogici del CEIS, e sul loro rapporto con le strutture architettoniche, si veda anche M. Zoebeli, Appunti e proposte di discussione sui problemi dell’educazione nel C.E.I.S., testo dattiloscritto, pp. 3, Rimini, 8.2.1973, conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 959 op. 2).

In precedenza, era stato Gaetano Salvemini a perseguire in Italia una riflessione educativa che fosse strettamente congiunta con la considerazione dei fenomeni della vita sociale. Del resto, come scrisse Lamberto Borghi, «è ben noto che Salvemini non fu un pedagogista di professione e che la sua appassionata riflessione sulle questioni scolastiche fu in lui motivata da un prevalente interesse di carattere sociale e politico» (L. Borghi, Prefazione a G. Salvemini, Scritti sulla scuola, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. IX-XXX, p. IX).

Cfr. M. Zoebeli, C. Curradi, Il Centro Educativo Italo-Svizzero, in Storia illustrata di Rimini, a cura di P. Meldini e A. Turchini, con la collaborazione di P. Sobrero, Milano, Nuova editoriale AIEP, 1991, vol. 4, pp. 1105-1120.

Cfr. Delucca, Nasce il centro italo-svizzero, cit., pp. 24-25.

Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 20.

E. Codignola, Educazione liberatrice, seconda edizione rielaborata, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 248.

Cfr. E. Codignola, Smobilitiamo la scuola, in “Corriere di Firenze”, 19 ottobre 1944.

Cfr. L. Borghi, Educare alla libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 93-102.

Si vedano i riferimenti a Caffi in L. Borghi, Scuola e comunità, Firenze, La Nuova Italia, 1964, ma anche nel suo precedente John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, Firenze, La Nuova Italia, 1951.

Cfr. AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, introduzione di L. Borghi, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 157.

Si vedano soprattutto: Educazione e autorità nell’Italia moderna, del 1951; John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, ancora del 1951; Il fondamento dell’educazione attiva, del 1952; L’educazione e i suoi problemi, del 1953. Fino a Scuola e comunità, del 1964. E oltre.

Cfr. I. Pescioli, La formazione dell’insegnante della scuola di base: il contributo del movimento dell’educazione attiva, in AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, cit., pp. 87-101.

Cfr. L. Borghi, Introduzione ad AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, cit., pp. VII-XXVIII, pp. XXIII-XXIV.

Cfr. Centro Educativo Italo-Svizzero, Alcune date fra le più significative nella vita del C.E.I.S., testo dattiloscritto, pp. 4, [Rimini, 1970], conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 1032), si veda anche Centro Educativo Italo-Svizzero, Attività svolte dal Centro Educativo Italo-Svizzero dalla nascita ad oggi, testo dattiloscritto, pp. 4, [Rimini, 1966], conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 1109).

Cfr. Fofi, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia, cit., pp. 152-157 (il cap. “Una maestra svizzera a Rimini”).

Cfr. Pescioli, La formazione dell’insegnante della scuola di base: il contributo del movimento dell’educazione attiva, cit., pp. 92-93.

Si veda la testimonianza di Lamberto Borghi, in Castiglioni et al. (a cura di), Una scuola una città, cit., pp. 87-88.

Cfr., ad esempio, M. Castiglioni, F. Montanari, M. Zoebeli (a cura di), Il Centro Educativo Italo-Svizzero nei disegni dei bambini. 25 anni al Ceis in una Rassegna di Calendari (1969-1993), parte grafica a cura di M. Amadori, Rimini, Edizioni Chiamami Città, 1993.

Cfr. Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 30.

Cfr. F. De Bartolomeis, Introduzione alla didattica della scuola attiva, Firenze, La Nuova Italia, 1953; Id., Il bambino dai tre ai sei anni e la nuova scuola infantile, Firenze, La Nuova Italia, 1968.

Cfr. G. Jacobucci, Aspetti sociali e educativi del recupero dell’handicappato nella comunità, in AA.VV., L’educazione attiva oggi: un bilancio critico, cit., pp. 77-85, pp. 80-81.

Cfr. Centro Educativo Italo-Svizzero, Appunti sull’attività medico-psico-pedagogica svolta dal Centro Educativo I.S. dal 1946 ad oggi, testo dattiloscritto, pp. 3, [Rimini, 1971], conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (Misc. C. 1108).

Era precisamente il 1961 e il seminario era proprio intitolato “Edilizia nella Scuola Materna” (cfr. Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 38).

Colloquio tra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, cit., p. 25.

 

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Sette domande sull’educazione – prima parte

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