UNA CITTÀ n. 223 / 2015 giugno-luglio
Intervista a Christophe Dhote
realizzata da Bettina Foa, Barbara Bertoncin
UN OSPEDALE, UNA SCUOLA, UNA TIPOGRAFIA
Un centro, gestito dalla mutua dei lavoratori della Pubblica istruzione francese, dove gli insegnanti costretti a lasciare il lavoro per problemi di salute mentale, fanno psicoterapia di gruppo, seguono dei corsi di riqualificazione e, per allenarsi al rientro, lavorano in una vera tipografia; un mestiere, la cui fatica sta anche nel fatto di essere costantemente “in scena” davanti a una classe; aule professori che restano ormai vuote perché tra colleghi non ci si confronta più. Intervista a Christophe Dhote.
Christophe Dhote, psichiatra, lavora presso Mgen (Mutuelle générale de l’Éducation nationale), un ente mutualististico francese che eroga prestazioni sanitarie al personale dell’istruzione, della ricerca, della cultura, della comunicazione e dello sport.
Lei lavora presso uno dei centri diurni della Mutua generale dell’educazione nazionale e si occupa nello specifico di riqualificare gli insegnanti che hanno lasciato il lavoro per problemi di salute mentale.
Forse è opportuno premettere che in Francia esiste la “Mutuelle Générale de l’Éducation Nationale”, che si occupa della Sécurité sociale degli insegnanti e di altro personale impegnato nell’istruzione e che gestisce diversi ospedali. Si tratta di un ente privato che riceve fondi pubblici perché offre un servizio che lo Stato non fornisce o lo fa in modo insufficiente. I nostri pazienti sono affetti da patologie psichiatriche più o meno gravi e circa la metà sono insegnanti.
Questo ospedale esiste dal 1962, ed è stato aperto da uno dei grandi precursori della psichiatria extra ospedaliera, il dottor Paul Sivadon, che si impegnò molto per la nascita di una rete di centri terapeutici per i pazienti dimessi dall’ospedale. Nacquero così diverse strutture extra-ospedaliere, tra cui questo ospedale diurno. La particolarità di questa struttura è che può essere considerata allo stesso tempo un ospedale, una scuola e un’impresa. Noi parliamo di “Atelier thérapautique”, cioè di laboratorio terapeutico. Non ce ne sono molti in Francia. Il nostro personale è composto da infermieri, medici, ergoterapeuti, da una parte, e insegnanti, dall’altra, che vengono qui a fare lezione ai pazienti. Poi, al piano terra, abbiamo anche una tipografia vera e propria che realizza diversi lavori, in base agli ordini; è un’attività che ha un suo mercato.
In effetti, l’aspetto più interessante del nostro centro è che i nostri pazienti sono seguiti non solo da medici, ma anche da insegnanti e da tipografi, il tutto nell’ottica di riqualificare le persone. Teniamo presente che chi si avvicina al nostro centro ha smesso di lavorare per motivi di salute psichica. Per ognuno di loro, il primo obiettivo è verificare se potranno tornare a lavorare e, in caso di risposta positiva, capire se è il caso di riprendere con il mestiere che hanno sempre svolto o invece cambiare. Noi crediamo che il lavoro possa avere una virtù terapeutica, ma è un percorso complesso perché le persone che vengono qui si sono ammalate a causa del lavoro, e noi per curarle le facciamo lavorare.
Come si manifesta il disagio degli insegnanti?
Ci tengo a dire che sono state svolte indagini importanti sui problemi psichiatrici degli insegnanti da cui è emerso che questa categoria non presenta problematiche diverse rispetto ad altri gruppi sociali.
Negli anni Duemila è stata condotta una ricerca mettendo a confronto un gruppo di insegnanti e un gruppo di non insegnanti della stessa regione; entrambi i gruppi erano composti da impiegati pubblici, erano quindi due campioni comparabili. Bene, l’incidenza di problemi psichiatrici era la medesima. Ciò che invece è emerso è che ci sono delle differenze enormi all’interno del gruppo degli insegnanti. Possiamo infatti distinguere tre categorie: gli insegnanti con una preparazione più lunga alle spalle, quelli con una preparazione più breve e, tra i due poli, quelli nella norma. Ebbene, quelli più colpiti da problemi psichiatrici sono quelli che hanno avuto una formazione più breve, cioè gli insegnanti della scuola di primo grado, quelli che si occupano dei più piccoli.
Poi ci sono gli insegnanti di “second degré”, ovvero della scuola media, del liceo. Tra gli insegnanti universitari si registra l’incidenza più bassa. Probabilmente, queste persone hanno le risorse e gli strumenti per affidarsi a uno specialista tempestivamente così da prevenire l’aggravarsi del problema. Gli altri, invece, se ne accorgono dopo, quando la malattia è già a uno stadio avanzato.
Riguardo le patologie, abbiamo da un lato le manifestazioni più gravi, le psicosi che riscontriamo negli insegnanti giovani per i quali, in media, il futuro professionale è molto negativo: la maggior parte dovrà smettere di insegnare; dall’altro lato, ci sono i pazienti con oltre vent’anni di esperienza alle spalle, persone di 45-50 anni, che soffrono più che altro di depressione e, nella maggior parte dei casi, tornano a lavorare. Si tratta di problematiche completamente diverse: nei pazienti affetti da patologie più gravi, la malattia ha poco a che fare con l’ambiente lavorativo; avrebbero potuto fare il medico, l’architetto, ecc., e si sarebbero ammalati comunque.
I programmi di cura che proponiamo corrispondono ai diversi problemi dei nostri pazienti. Qui ci occupiamo di problemi psichiatrici, ma anche di problemi di salute mentale. Chi, nonostante le difficoltà, continua a lavorare, viene accompagnato con dei programmi di cura “leggeri”, che si svolgono di sera o nei giorni non lavorativi. I pazienti gravemente malati, che hanno lasciato il lavoro, vengono accolti nel nostro centro tutti i giorni per tutto il giorno. Tra questi due casi estremi c’è un ventaglio di opzioni.
Quali sono le cause scatenanti del disagio e della depressione degli insegnanti?
L’insegnante, per il mestiere che fa, è tenuto a stare costantemente “in scena”, per così dire. In molti altri lavori è possibile dissimulare, nascondersi nel proprio ufficio, sottrarsi allo sguardo e allo scambio con gli altri; gli insegnanti non possono permetterselo. Non a caso, all’inizio, quando si manifesta il disagio, notiamo che gli insegnanti utilizzano delle strategie per evitare la classe: si assentano per corsi di formazione, prendono il congedo per malattia. Insomma, fanno il possibile per evitare di tornare davanti alla classe, evitando così le situazioni di stress e di ansia, ma il problema resta irrisolto.
Perché si ammalano? Magari conoscessi la risposta! Chiaramente, si tratta di un concatenarsi di molteplici fattori. Intanto c’è da dire che gli insegnanti sono in prima linea in un contesto sociale tutt’altro che facile. Inoltre, tra il corpo insegnanti è cresciuto l’individualismo, quindi c’è molto meno spirito di gruppo: gli insegnanti non si difendono più assieme, non c’è solidarietà. Non so cosa succede in Italia, ma in Francia oggi le sale professori sono vuote. Questo vuol dire che gli insegnanti vanno a scuola per svolgere le loro lezioni in classe, dopodiché se ne tornano a casa: non si fermano con gli altri, non vanno a prendere un caffè con i colleghi, non correggono insieme le prove.
Un altro fattore è rappresentato dalle innumerevoli difficoltà che un insegnante si trova ad affrontare con gli studenti, con l’aggravante che i genitori oggi prendono le parti dei figli. Come non bastasse, gli insegnanti sono sempre meno sostenuti dai dirigenti. I dirigenti degli istituti francesi cercano, se possono, di evitare problemi e conflitti.
Poi c’è la questione del prestigio: la figura dell’insegnante esercita un fascino ambivalente: da un lato è un ruolo che attira in senso positivo perché ci si immedesima nella sua figura, nella sua cultura, nella sua conoscenza; dall’altro calamita su di sé un rifiuto culturale e identitario. E poi, chiaramente, l’insegnante rappresenta lo Stato, come i pompieri o i poliziotti, e pertanto, nei momenti di crisi, è una delle professioni più esposte.
Il ’68 italiano è stato caratterizzato da una battaglia contro l’autoritarismo molto forte che si dice abbia intaccato anche un concetto di “autorità” che andava invece salvaguardato.
Da questo punto di vista, le conseguenze del ’68 sono state catastrofiche. Intendiamoci, quella del ’68 è stata una giusta battaglia, però i sessantottini in qualche modo erano cresciuti all’interno del sistema di autorità e gerarchia che contestavano; questa loro struttura si era già consolidata. I problemi sono cominciati quando, divenuti genitori, hanno applicato le loro personali teorie di non-autoritarismo sui propri figli. Con risultati spaventosi: a molti di questi ragazzi manca del tutto una struttura interna. E col tempo la situazione è peggiorata, anche perché non si sa come porvi rimedio. E non si può tornare indietro.
A questo si aggiunge il disagio della cosiddetta seconda o terza generazione. La prima generazione di immigrati rispettava molto l’autorità, ha cercato di integrarsi, di imparare il francese. Gli immigrati anziani ancora oggi nutrono rispetto per l’autorità e sono ben integrati: anche se hanno conservato la loro cultura, sanno bene che il loro arrivo in Francia è coinciso con un miglioramento delle loro condizioni di vita. Per i loro figli non è purtroppo lo stesso: difficilmente hanno le stesse opportunità dei loro genitori. Magari si sentono più francesi dei genitori, ma oggi è innegabile che un giovane arabo figlio di immigrati in Francia è soggetto a delle discriminazioni. Per un francese un arabo resta un arabo, così come un nero resta un nero. La Francia è un paese segnato dalle contraddizioni, siamo capaci del meglio, ma anche del peggio. Abbiamo fatto la Rivoluzione francese, e a gennaio abbiamo gridato: “Siamo tutti Charlie”. Quello è il nostro meglio, mentre il peggio corrisponde alla tendenza a discriminare che continua a perpetrarsi. Ci fa molto piacere sapere che un arabo francese riesce a realizzarsi, ma uno ci basta… due è già troppo. Ma questo è un altro discorso…
Gli insegnanti si rendono conto da soli di avere un problema o è il preside a intervenire?
Si verificano entrambi i casi: gli insegnanti che hanno già iniziato dei percorsi di introspezione, che magari fanno della psicoterapia, se ne accorgono da soli e abbastanza presto; gli altri non se ne accorgono, o meglio: sentono di soffrire, ma pensano sia un disagio momentaneo, che passerà; è una reazione che fa parte della malattia psichiatrica.
Un insegnante che sta male può essere obbligato a farsi curare?
Sì. Gli insegnanti molto raramente vengono licenziati, però possono essere messi in congedo d’ufficio. Si tratta di misure cautelari, che vanno giustificate. Due settimane fa mi è capitata un’ insegnante, una maestra delle elementari, che era stata messa in congedo d’ufficio perché aveva portato i bambini a fare educazione fisica e al ritorno ne mancava uno. Fortunatamente l’alunno era semplicemente tornato a casa. L’insegnante, però, è stata subito sospesa dall’insegnamento perché aveva messo in pericolo l’incolumità degli studenti. Il problema è che non se ne rendeva conto. Non riusciva a vedere la gravità della situazione. Diceva: “Il ragazzo è tornato a casa sua, dov’è il problema?”. Si trattava di una paziente affetta da psicosi. Il problema principale in psichiatria è che non si può dire ai pazienti in maniera esplicita che sono malati, non lo accetterebbero. La negazione fa parte della malattia psichiatrica. Capiscono che c’è un problema, ma non gli danno il giusto peso. Superare questo ostacolo fa parte del percorso. Assumere la consapevolezza di doversi monitorare è una tappa importante del processo di “guarigione”. Sono passaggi faticosi e anche indecifrabili. Per noi è sempre una grande soddisfazione quando degli insegnanti che hanno affrontato delle psicosi anche molto gravi riescono a tornare a lavorare.
Come si manifesta la patologia? Quali sono i sintomi?
Se escludiamo le grandi malattie psichiatriche, quindi le nevrosi, le psicosi, la depressione, la salute mentale è un concetto piuttosto ampio, che comprende sintomi come l’angoscia, l’ansia, l’insonnia e tutto ciò che ne consegue: l’irritabilità, l’assenteismo, i problemi di concentrazione, di attenzione, di memoria, e poi tutti i sintomi legati all’autostima, quindi la paura degli altri, il sentirsi attaccati, ecc. Sono sintomi piuttosto comuni: può succedere a tutti di sentirsi così in una certa fase della vita.
È importante capire che in questi casi il lavoro non è mai l’unica causa: l’ambiente circostante ha un peso importante. Gli insegnanti sono persone normali: hanno una famiglia che è il primo canale che ci collega alla realtà, il primo “cerchio”, poi ci sono gli amici, le esperienze fuori. Tutto ciò può contribuire a una stabilità o a un’instabilità.
Ai nostri pazienti chiediamo di fare sport, di andare a cinema, di dedicarsi a qualche passatempo, di uscire e vedere amici. Perché è vero che la famiglia è il primo cerchio, ma la famiglia può anche essere “tossica”, può essere soffocante. Lo sappiamo bene. Del resto, molti dei casi di cui ci occupiamo, non riguardano il singolo paziente, ma l’intero nucleo familiare.
C’è una differenza tra uomini e donne?
Le donne si curano meglio; questo vale un po’ per tutte le categorie lavorative, non solo per gli insegnanti: si lasciano curare più facilmente nel senso che hanno maggiore consapevolezza dei loro problemi; sono più abituate all’introspezione, non si nascondono, chiedono aiuto più facilmente e reagiscono più facilmente.
Può spiegarci meglio qual è la cura che proponete ai pazienti? Parlava di una tipografia…
Il nostro obiettivo è di mettere i pazienti nelle situazioni tipiche della quotidianità. Come vi dicevo, qui ci sono una tipografia, dei corsi di formazione e dei terapeuti. I pazienti che vengono qui lavorano nella tipografia. Perché? Perché è un lavoro come gli altri, che significa che ci si deve presentare sul posto ogni mattina, che ci sono degli orari da rispettare, dei compiti da assolvere nei tempi previsti, e poi bisogna saper accettare i suggerimenti e le critiche dei tipografi, se per esempio i testi non sono allineati correttamente, se ci sono dei difetti di impaginazione, ecc.
Si tratta di un vero lavoro, insomma. Non solo, la tipografia costringe a far lavorare la testa, stimola la concentrazione, l’attenzione, ma è anche un lavoro manuale, preciso. Si tratta infine di un lavoro di gruppo perché bisogna scambiarsi le informazioni, spiegare agli altri quello che c’è da fare, organizzarsi, ecc. Giù al piano terra, dove ci sono le macchine, ci sono dei grandi tavoli dove si controllano le prove di stampa, si assemblano le pagine, si mette a punto il prodotto finale. Durante il lavoro i nostri pazienti sono seguiti da infermieri ed ergoterapeuti. L’ergoterapia è la terapia attraverso il lavoro.
Tutte queste attività permettono ai pazienti di rimettere in gioco quegli aspetti, quelle capacità che la malattia ha danneggiato. Alla fine si tratta di un allenamento al lavoro.
I pazienti come reagiscono? Accettano o fanno resistenza?
Fanno molta resistenza, ma si tratta di resistenza in senso psichiatrico: vogliono lavorare, ma la volontà non basta per svegliarsi al mattino e venire qui. È uno sforzo vero e proprio quello che compiono. Per questo motivo le nostre infermiere seguono costantemente i pazienti, incoraggiandoli: “Ieri non sei venuto. Non va bene…”.
L’altro aspetto della presa in carico sono i corsi. Qui organizziamo dei corsi di francese, di matematica, di informatica per ufficio e di diritto amministrativo. Molti pazienti, specialmente gli insegnanti, si preparano per sostenere dei concorsi per poi cambiare mestiere, per riconvertirsi. I corsi comportano anch’essi un “lavoro”: occorre prepararsi, studiare e concentrarsi.
Poi -non dimentichiamo che siamo in un ospedale- ci sono molte attività terapeutiche, tra cui la psicoterapia di gruppo, un tipo di terapia che si serve della parola, ma anche della psicomotricità, della scrittura, della pittura e di tante altre tecniche artistiche.
Quanti pazienti seguite?
Io lavoro qui, nel XIII arrondissement, e nella sede di Ivry-sur-Seine; questi due centri coprono la regione dell’Île-de-France. Al momento ci occupiamo di 140 pazienti, che frequentano il centro per qualche mese, alcuni per qualche anno.
A volte la gravità della patologia ha bisogno di tempo per manifestarsi. Alcune patologie si “svegliano” nell’arco di 5-6 anni. In psichiatria bisogna essere pazienti: si parte con un progetto, e non funziona, se ne fa un altro e non funziona, magari di dieci progetti ne funziona uno solo. E poi, se funziona, non è detto che duri per sempre.
Per portare a termine il percorso, ci appoggiamo anche al “Centre National de Réadaptation” (Centro nazionale di riadattamento). Si tratta di una struttura che organizza degli stage per gli insegnanti. Qui noi “obblighiamo” gli insegnanti a uscire di casa, ristabiliamo le loro capacità cognitive, li curiamo. Col tempo, riescono a stare al passo, a concentrarsi, a riprendere delle abitudini. Bene. E dopo? Non possiamo immediatamente rimandarli a scuola.
Allora prima fanno degli stage durante i quali vengono simulate delle situazioni reali, con delle classi, per accertarci che quello che abbiamo notato noi, la stabilità ad esempio, sia reale. È una specie di “prova generale” prima del ritorno in campo. Ecco, è il Centro nazionale di riadattamento a organizzare questi stage per gli insegnanti.
Quanti tornano a insegnare e quanti devono cambiare lavoro?
Circa il 60% dei nostri pazienti tornano a lavoro. Di questi però alcuni si ripresentano e riprendono il percorso, è normale. In un certo senso si può dire che se succede va bene. Il problema è quando i pazienti non tornano più. Cosa vuol dire: che stanno continuando a lavorare o no? Non lo sappiamo.
La maggior parte del 40% che non torna a insegnare resta nel circuito terapeutico a lungo. A volte restano qui, a volte cambiano struttura. Magari vengono sottoposti a terapie più pesanti; in questo caso la possibilità di tornare al lavoro si fa più remota. In altri casi, vengono accolti in strutture in cui sono sottoposti a terapie più leggere e ci rimangono, ma neanche in questo caso tornano a lavorare.
Nel corso della cura gli insegnanti continuano a percepire uno stipendio, che però col tempo diminuisce. I sistemi di protezione durano cinque anni, di cui i primi tre a stipendio intero e due a stipendio dimezzato, che viene integrato con delle assicurazioni. In più, per gli insegnanti esistono delle misure specifiche dette “poste adapté” (posti idonei) che durano tre anni, durante i quali possono svolgere delle mansioni che li tengono lontani dalle classi.
Tra i vostri pazienti c’è chi alla fine si orienta verso un lavoro manuale?
Tenete presente che un insegnante è una persona che non ha mai lasciato la scuola, quindi non ha molta fantasia. È difficile per loro immaginarsi alle prese con un mestiere più manuale. Devo dire che nella mia esperienza ho verificato che i non insegnanti hanno molta più fantasia, osano molto di più. Gli insegnanti invece difficilmente cambiano veramente lavoro e men che meno optano per un lavoro manuale.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin;
traduzione di Daniela Guenda Regano.
Per la foto ringraziamo l’intervistato)