UNA CITTÀ n. 205 / 2013: DENTRO LO SCHERMO, I nativi digitali a scuola, di Paolo Ferri

I “nativi digitali” incontrano sempre più presto gli schermi interattivi e questo cambia il loro modo di rappresentarsi il mondo; la sfida, per gli insegnanti, di appassionare ragazzi più vispi, informati e però con difficoltà di rielaborazione; l’incredibile quantità, su youtube, di video fatti da bambini su come si usano le carte yu-gi-ho o come si pettinano le bambole. Intervista a Paolo Ferri.

Pao­lo Fer­ri in­se­gna Teo­ria e tec­ni­che dei nuo­vi me­dia e Tec­no­lo­gie di­dat­ti­che pres­so la Fa­col­tà di Scien­ze del­la For­ma­zio­ne del­l’U­ni­ver­si­tà de­gli Stu­di Mi­la­no-Bi­coc­ca, do­ve di­ri­ge il Li­sp (La­bo­ra­to­rio in­for­ma­ti­co di Spe­ri­men­ta­zio­ne Pe­da­go­gi­ca) e l’Os­ser­va­to­rio Nuo­vi Me­dia Nu­Me­dia­Bios. Per Bru­no Mon­da­do­ri ha pub­bli­ca­to La scuo­la di­gi­ta­le. Co­me le nuo­ve tec­no­lo­gie cam­bia­no la for­ma­zio­ne (2008); Na­ti­vi di­gi­ta­li (2011).

Vor­rem­mo par­la­re con lei dei co­sid­det­ti “na­ti­vi di­gi­ta­li”, cer­can­do di ca­pi­re in­tan­to chi so­no.
La que­stio­ne na­sce nel 2001 quan­do Marc Pren­sky in­ven­ta que­sto ter­mi­ne che ha avu­to una for­tu­na for­se scon­si­de­ra­ta, ma che po­ne un pro­ble­ma rea­le. L’ar­ti­co­lo si in­ti­to­la pro­prio “Chi so­no i na­ti­vi di­gi­ta­li?” e in­ne­sca un di­bat­ti­to sul­la di­ver­si­tà o me­no dei bam­bi­ni na­ti ne­gli an­ni Due­mi­la. La do­man­da è: esi­sto­no o non esi­sto­no? Co­me al so­li­to, il di­bat­ti­to poi si po­la­riz­za in ma­nie­ra un po’ su­per­fi­cia­le, pe­rò io spo­so la te­si che esi­sta­no an­che per una ra­gio­ne, in real­tà, scien­ti­fi­ca. Gli stu­di sul­la pla­sti­ci­tà neu­ra­le con­dot­ti da­gli stu­dio­si di scien­ze co­gni­ti­ve e di neu­ro­scien­ze, tra cui lo stes­so Riz­zo­lat­ti, han­no di­mo­stra­to che non so­lo la pla­sti­ci­tà neu­ra­le è qual­co­sa di mol­to più este­so di quan­to si cre­des­se, nel sen­so che non c’è so­lo nei bam­bi­ni, ma c’è an­che ne­gli adul­ti e quin­di che il cer­vel­lo si mo­di­fi­ca per tut­ta la vi­ta, ma, in par­ti­co­la­re, che le in­te­ra­zio­ni con gli ar­te­fat­ti cul­tu­ra­li (le tec­no­lo­gie so­no ar­te­fat­ti cul­tu­ra­li) op­pu­re con la pa­ro­la, tra­sfor­ma­no -let­te­ral­men­te!- il cer­vel­lo.
Se que­sto è ve­ro, è mol­to pro­ba­bi­le che l’e­spo­si­zio­ne a un am­bien­te com­ple­ta­men­te di­ver­so dal pre­ce­den­te (ades­so sem­bra che i ta­blet sia­no esi­sti­ti da sem­pre, ma io, che so­no sta­to tra i pri­mi a or­di­nar­lo in Ita­lia, l’ho vi­sto a mag­gio del 2010) ab­bia un im­pat­to su que­sti bam­bi­ni.
In Ita­lia que­sta te­si sia­mo in po­chi a so­ste­ner­la ma per­ché sia­mo un pae­se con­ser­va­to­re. In real­tà ba­sta ve­de­re un bam­bi­no che gio­ca con l’i­Pad per ca­pi­re che non so­no stu­pi­dag­gi­ni. Che que­sto poi fun­zio­ni sul­l’e­du­ca­zio­ne, quel­lo è un al­tro di­scor­so. Co­mun­que, l’i­dea è che l’in­te­ra­zio­ne con un con­te­sto cul­tu­ra­le che si è tra­sfor­ma­to in ma­nie­ra ra­di­ca­le ne­gli ul­ti­mi, di­cia­mo, quin­di­ci an­ni (og­gi la tec­no­lo­gia è on­ni­pre­sen­te nel­le ca­se e so­no di­ven­ta­ti tut­ti scher­mi in­te­rat­ti­vi; il me­no in­te­rat­ti­vo, pa­ra­dos­sal­men­te, è quel­lo del com­pu­ter, che ri­chie­de an­co­ra la me­dia­zio­ne del mou­se) tra­sfor­mi pro­prio non so­lo le mo­da­li­tà di gio­co, ma an­che quel­le di ap­pren­di­men­to, e in ge­ne­ra­le il mo­do in cui i bam­bi­ni ve­do­no e rap­pre­sen­ta­no il mon­do. O ve­do­no e co­strui­sco­no il mon­do. Que­sto in chia­ve non de­ter­mi­ni­sti­ca, nel sen­so che ser­ve l’in­te­ra­zio­ne con la mac­chi­na, o me­glio l’in­te­ra­zio­ne “col­la­bo­ra­ti­va” con la mac­chi­na. È dif­fi­ci­le ve­de­re un bam­bi­no da so­lo da­van­ti al­la con­so­le, a me­no che non glie­lo dia il ge­ni­to­re; se li ve­di al par­co, so­no un croc­chio at­tor­no al­la con­so­le o un croc­chio at­tor­no al ta­blet per­ché co­sì si di­ver­to­no di più, per­ché non è che poi i bam­bi­ni so­no cam­bia­ti, cioè sta­re con gli al­tri gli pia­ce mol­to di più che sta­re da so­li, che ci sia o che non ci sia la tec­no­lo­gia. Al­cu­ne co­stan­ti an­tro­po­lo­gi­che per­man­go­no. In­fat­ti, al­la do­man­da: “Qual è la co­sa che ti pia­ce di più nel vi­deo­gio­co?”, la ri­spo­sta è: “Gio­ca­re con gli al­tri miei ami­ci”.
Que­sta co­sa è sta­ta col­ta an­che da al­tri stu­dio­si. Per esem­pio, an­che Jen­kins, l’au­to­re di Cul­tu­re par­te­ci­pa­ti­ve, che con­te­sta il ter­mi­ne “na­ti­vi di­gi­ta­li” per­ché è set­ta­rio, ghet­tiz­za, di­scri­mi­na, ri­co­no­sce che si è svi­lup­pa­ta una cul­tu­ra in­for­ma­le di­ver­sa, par­te­ci­pa­ti­va, co­strui­ta at­tor­no al­l’in­te­ra­zio­ne con la tec­no­lo­gia, che de­ve es­se­re com­pre­sa e stu­dia­ta per­ché in real­tà gli adul­ti ne san­no po­co. Lo stes­so quel Paul Gee, di cui ades­so è usci­to il li­bro sui vi­deo­gio­chi, che ra­gio­na, ap­pun­to, su co­me le mo­da­li­tà di gio­co in­fluen­zi an­che i com­por­ta­men­ti e le re­la­zio­ni di scam­bio tra i bam­bi­ni.
Pro­van­do a en­tra­re nel me­ri­to, in che co­sa con­si­ste que­sta ra­di­ca­le dif­fe­ren­za?
Io la col­lo­co nel­le no­zio­ni re­la­ti­ve al­l’ap­pren­di­men­to. La pri­ma e ra­di­ca­le dif­fe­ren­za è che noi sia­mo fi­gli di Gu­ten­berg e que­sti bam­bi­ni e ra­gaz­zi­ni so­no fi­gli di in­ter­net.
Noi, fi­gli del li­bro, ab­bia­mo stu­dia­to, ci sia­mo fat­ti una for­ma men­tis co­strui­ta sul­la pa­ro­la al­fa­be­ti­ca, ac­com­pa­gna­ta da im­ma­gi­ni fis­se. Ora, la pa­ro­la al­fa­be­ti­ca, co­me di­ce­va McLu­han, por­ta con sé tut­ta una ga­las­sia di rap­pre­sen­ta­zio­ni cor­re­la­te: l’au­to­ri­tà del te­sto, sa­cro o me­no, im­pli­ca an­che un mo­del­lo di co­mu­ni­ca­zio­ne che sto­ri­ca­men­te è sta­to quel­lo uno-mol­ti. Che fos­se il pre­te dal pul­pi­to, il po­li­ti­co dal pal­co, il Pa­pa dal­lo scran­no, era quel­lo il mo­del­lo do­mi­nan­te, che si è tra­sfe­ri­to an­che nel­le isti­tu­zio­ni edu­ca­ti­ve. In ge­ne­ra­le, l’in­se­gnan­te ha la sua cat­te­dra e par­la a tan­ti.
In che sen­so i na­ti­vi di­gi­ta­li han­no una te­sta com­ple­ta­men­te di­ver­sa? In­tan­to per­ché, per lo­ro, la pa­ro­la al­fa­be­ti­ca è uno dei tan­ti co­di­ci, e si­cu­ra­men­te il più dif­fi­ci­le da in­ter­pre­ta­re. Lo­ro so­no im­mer­si in un mon­do fat­to di vi­deo, gra­fi­ca, ani­ma­zio­ne, suo­no e an­che pa­ro­la. Ma la pa­ro­la, co­me di­mo­stra­no gli stu­di di psi­co­lo­gia co­gni­ti­va, è il co­di­ce più dif­fi­ci­le, il me­no im­me­dia­to, per­ché c’è la me­dia­zio­ne del si­gni­fi­can­te. Cioè, il ca­val­lo si chia­me­rà di­ver­sa­men­te in tut­te le lin­gue, ma se uno lo ve­de ri­co­no­sce co­s’è, men­tre la me­dia­zio­ne del si­gni­fi­can­te è più com­ples­sa. Noi sia­mo cre­sciu­ti nel­la cul­tu­ra di Ari­sto­te­le che di­ce­va “zoon lo­gon echon” e se l’uo­mo è un ani­ma­le che ha la pa­ro­la for­se è la pa­ro­la quel­la che ci di­stin­gue spe­ci­fi­ca­ta­men­te. Lo­ro vi­vo­no in un mon­do in cui la pa­ro­la è uno dei tan­ti mo­di di co­mu­ni­ca­re. È pa­ro­la ora­le, at­tac­ca­ta al vi­deo, è pa­ro­la can­ta­ta, è pa­ro­la rap­pre­sen­ta­ta den­tro un vi­deo­gio­co, è an­che te­sto scrit­to. Ma, ri­pe­to: “an­che”, non so­lo.
L’al­tra dif­fe­ren­za fon­da­men­ta­le è che, vi­ven­do im­mer­si in que­sto mon­do mul­ti­co­di­ca­le, fan­no dav­ve­ro fa­ti­ca a re­la­zio­nar­si con chi si sta tra­ghet­tan­do, con più o me­no fa­ti­ca, ver­so que­sto mon­do, i co­sid­det­ti mi­gran­ti di­gi­ta­li, cioè con gli adul­ti. Ov­via­men­te que­sta di­co­to­mia non è pro­prio co­sì sec­ca, per­ché poi ci so­no tan­te sfu­ma­tu­re di gri­gio, non c’è so­lo il da­to ana­gra­fi­co, ci so­no le pas­sio­ni per­so­na­li, ecc., pe­rò è un fat­to che, da un cer­to mo­men­to in poi, le co­se non so­no più co­me pri­ma.
Pos­sia­mo di­re che i na­ti­vi di­gi­ta­li na­sco­no quan­do nel­la so­cie­tà si dif­fon­do­no gli scher­mi in­te­rat­ti­vi co­me stru­men­to di co­mu­ni­ca­zio­ne. Qui c’è pro­prio un pun­to di rot­tu­ra per­ché que­sti scher­mi so­no ve­ra­men­te in­te­rat­ti­vi. Cioè, l’u­ni­co mo­do per co­mu­ni­ca­re col te­le­vi­so­re era cam­bia­re ca­na­le. Quel­lo era il tas­so di in­te­rat­ti­vi­tà con­ces­so. Qui in­ve­ce si è ve­ra­men­te den­tro lo scher­mo. Nel sen­so che, men­tre il te­le­vi­so­re lo ac­cen­di e ti com­pa­re su­bi­to il pro­gram­ma, se apri Goo­gle non suc­ce­de nien­te, de­vi co­mun­que fa­re un ge­sto at­ti­vo di ri­cer­ca. Ec­co, que­sta idea che de­vi fa­re del­le co­se tu or­mai en­tra nel­la te­sta dei bam­bi­ni in un’e­tà mol­to pre­co­ce. Con Su­san­na Man­to­va­ni stia­mo con­cen­tran­do gli stu­di nel­la fa­scia 0-6 an­ni; il con­tat­to col cel­lu­la­re o col ta­blet or­mai av­vie­ne in­tor­no al­l’an­no, an­no e mez­zo e ac­com­pa­gna, nei fat­ti, tut­ta la vi­ta dei bam­bi­ni. È ve­ro che, al mo­men­to, in Ita­lia, i ta­blet han­no una pe­ne­tra­zio­ne che si at­te­sta in­tor­no al 10%, ma già gli smart­pho­ne so­no sul 56-57%; ol­tre il 90% del­le fa­mi­glie con fi­gli han­no il com­pu­ter. Pro­ba­bil­men­te so­no i bam­bi­ni che chia­ma­no la tec­no­lo­gia.
Quel­lo che è cer­to è che lo­ro si so­no abi­tua­ti a un mo­do del tut­to nuo­vo di in­te­ra­gi­re con gli ar­te­fat­ti cul­tu­ra­li, nel sen­so che noi, che fos­si­mo in chie­sa, al­la se­zio­ne o da­van­ti al li­bro, ascol­ta­va­mo e leg­ge­va­mo. Lo­ro si abi­tua­no a fa­re del­le co­se den­tro gli scher­mi e que­sto fa­re del­le co­se den­tro gli scher­mi, ine­vi­ta­bil­men­te, sta di­ven­tan­do un ha­bi­tus, cioè un mo­do di ope­ra­re che in­te­res­sa tut­ti i con­te­sti in cui si tro­va­no. Sic­co­me i con­te­sti dei bam­bi­ni so­no la fa­mi­glia, la scuo­la e il gio­co, ec­co che que­sta mo­da­li­tà è ar­ri­va­ta an­che den­tro la scuo­la.
Io fac­cio sem­pre que­sto esem­pio: io ho in­con­tra­to i “pro­ble­mi”, in­te­si co­me pro­ble­mi di ma­te­ma­ti­ca, in se­con­da ele­men­ta­re.
Que­sti in­con­tra­no pro­ble­mi, che so­no di al­tra na­tu­ra, ca­so­mai il vi­deo­gio­co di Su­per Ma­rio, ben pri­ma. Di nuo­vo, in Su­per Ma­rio, se non fai del­le co­se den­tro lo scher­mo non suc­ce­de nien­te, non pas­si al li­vel­lo suc­ces­si­vo. E, at­ten­zio­ne, la so­lu­zio­ne dei pro­ble­mi, per lo­ro, non av­vie­ne per via lo­gi­co-de­dut­ti­va”, ma è qual­co­sa di mol­to si­mi­le a quel­lo che, cen­to an­ni fa, si so­no in­ven­ta­ti la Mon­tes­so­ri e Dewey, cioè un fa­re at­ti­vo che ti por­ta a spe­ri­men­ta­re va­rie so­lu­zio­ni fi­no a in­di­vi­dua­re quel­la più ef­fi­ca­ce.
Co­me si in­se­gna a que­sti bam­bi­ni? Co­sa sta suc­ce­den­do nel­le scuo­le?
Noi ab­bia­mo una con­ce­zio­ne del­l’ap­pren­di­men­to di ti­po ri­fles­si­vo in­di­vi­dua­le, cioè tu con l’in­se­gnan­te, tu con il qua­der­no, tu con il li­bro; lo­ro, in­ve­ce, co­me di­ce­vo, so­no abi­tua­ti a fa­re, quin­di avreb­be­ro bi­so­gno di una scuo­la che li fac­cia fa­re e poi sia in gra­do di ri­ca­va­re da que­sto del­le sin­te­si.
Stia­mo an­dan­do ver­so una tra­sfor­ma­zio­ne del pa­ra­dig­ma del­l’ap­pren­di­men­to-in­se­gna­men­to. Non a ca­so il più gran­de edi­to­re del mon­do, Pear­son, ha co­min­cia­to a dif­fon­de­re i suoi con­te­nu­ti edi­to­ria­li at­tra­ver­so lo sche­ma del­la Flip­ped Clas­srom, cioè, in­ve­ce di ascol­ta­re a le­zio­ne quel­lo che di­ce l’in­se­gnan­te e poi stu­dia­re e fa­re i com­pi­ti a ca­sa, si fa at­ti­vi­tà in clas­se e si stu­dia­no i con­te­nu­ti in ma­nie­ra mul­ti­me­dia­le sul­la piat­ta­for­ma. C’è pro­prio un’in­ver­sio­ne del set­ting di­dat­ti­co. In Ita­lia non c’è nien­te del ge­ne­re. Sof­fria­mo pro­prio di un ri­tar­do. Ber­lin­guer, quan­do era mi­ni­stro del­l’i­stru­zio­ne, ave­va stan­zia­to mol­ti fon­di sul­l’in­fra­strut­tu­ra­zio­ne di­gi­ta­le del­le scuo­le, fa­cen­do­le di­ven­ta­re an­che un po’ il per­no del­l’au­to­no­mia sco­la­sti­ca; se aves­si­mo fat­to quel­la ro­ba lì, ades­so sa­rem­mo co­me l’In­ghil­ter­ra, che è il pae­se più avan­za­to del nord Eu­ro­pa nel­l’in­fra­strut­tu­ra­zio­ne di­gi­ta­le. In­ve­ce og­gi le scuo­le ita­lia­ne non han­no la ban­da, non han­no il ca­blag­gio, non han­no in­ter­net.
Que­sto ri­tar­do del si­ste­ma pae­se ha fat­to sì che co­min­cias­se ad aprir­si un gap mol­to ri­le­van­te tra gli sti­li di in­se­gna­men­to e gli sti­li di ap­pren­di­men­to. Gli sti­li di ap­pren­di­men­to, lo­ro, nel­l’in­for­ma­le, se li co­strui­sco­no e li por­ta­no a scuo­la. Si crea co­sì una si­tua­zio­ne di in­co­mu­ni­ca­bi­li­tà. I na­ti­vi di­gi­ta­li pro­pria­men­te det­ti, in Ita­lia, han­no die­ci, un­di­ci an­ni, i pri­mi; quel­li com­piu­ta­men­te na­ti­vi ne han­no cin­que o sei. Que­sto pro­ble­ma, se non ver­rà af­fron­ta­to, una vol­ta usci­ti dal­la scuo­la ten­de­rà a ri­ca­de­re, a ca­sca­ta, sul­la so­cie­tà.
Al­lo­ra, al di là del­le for­za­tu­re che si pos­so­no fa­re di que­sto ter­mi­ne, è im­por­tan­te ca­pi­re che que­sti ra­gaz­zi­ni ve­do­no e co­strui­sco­no il mon­do, cioè han­no un’i­dea del­la geo­gra­fia, del­lo spa­zio, del tem­po, del­le di­stan­ze, del­l’e­spe­rien­za, mol­to di­ver­sa dal­la no­stra. Vo­glio an­che sfa­ta­re un mi­to. Tut­te le ri­cer­che di­co­no che lo­ro non ru­ba­no tem­po al gio­co o al­lo sport o al­lo sta­re coi com­pa­gni per usa­re i me­dia di­gi­ta­li; ru­ba­no tem­po al­la te­le­vi­sio­ne. I con­su­mi di te­le­vi­sio­ne si stan­no pro­gres­si­va­men­te ab­bat­ten­do nei bam­bi­ni. Nei tem­pi d’o­ro (del­la te­le­vi­sio­ne, non dei bam­bi­ni) era­va­mo sul­le quat­tro ore al gior­no, og­gi sia­mo dal­la par­te del­le due. In­som­ma, al me­dia ip­no­ti­co pre­fe­ri­sco­no quel­lo in­te­rat­ti­vo.
Be­ne, io so­sten­go che que­sta cul­tu­ra col­la­bo­ra­ti­va che lo­ro han­no svi­lup­pa­to au­to­no­ma­men­te nel­la re­la­zio­ne col me­dia, e che è an­co­ra po­co com­pre­sa da­gli adul­ti, an­dreb­be va­lo­riz­za­ta a scuo­la e non, co­me è sta­to fat­to a un cer­to pun­to, ne­ga­ta proi­ben­do il cel­lu­la­re, per­ché que­sto è fa­re lo struz­zo che in­fi­la la te­sta nel­la sab­bia. Nel sen­so che il cel­lu­la­re ce l’han­no, al­lo­ra fa­glie­lo usa­re per ri­spon­der­ti, per esem­pio, o pen­sia­mo a qual­co­s’al­tro, pe­rò to­glier­lo vuol di­re let­te­ral­men­te ta­gliar­gli una ma­no. L’e­tà me­dia di ac­ces­so al cel­lu­la­re or­mai è at­tor­no agli ot­to an­ni. E non tan­to per­ché i bam­bi­ni lo vo­glia­no (tan­t’è che lo per­do­no e co­mun­que non lo usa­no per te­le­fo­na­re) ma per­ché i ge­ni­to­ri han­no ma­nie di con­trol­lo.
Qui sia­mo di fron­te a una frat­tu­ra che va ri­com­po­sta. Ov­via­men­te non è fa­ci­le. La ce­su­ra gu­ten­ber­ghia­na, per da­re il sen­so del­la ri­le­van­za del cam­bia­men­to, è quel­la che poi ha ge­ne­ra­to tut­to lo spi­ri­to del ca­pi­ta­li­smo, se stia­mo a We­ber, quin­di ha tra­sfor­ma­to ra­di­cal­men­te la so­cie­tà. Il fat­to è che Lu­te­ro ci ha mes­so qua­ran­t’an­ni per ca­pi­re le po­ten­zia­li­tà del­lo stru­men­to li­bro e, co­mun­que, è sta­ta una ri­vo­lu­zio­ne inav­ver­ti­ta per un sac­co di tem­po. Qui il fe­no­me­no è enor­me­men­te più ve­lo­ce, nel sen­so che il world wi­de web è sta­to con­ce­pi­to nel­la for­ma in cui la co­no­scia­mo og­gi da Tim Ber­ners Lee nel ’92-’93. So­no pas­sa­ti ven­t’an­ni e ci so­no tre mi­liar­di di con­nes­si. An­che que­sta è una frat­tu­ra strut­tu­ra­le che poi ha de­ter­mi­na­to tut­ta una se­rie di fe­no­me­ni cor­re­la­ti. Non si dà in­fat­ti glo­ba­liz­za­zio­ne sen­za in­ter­net per­ché vo­glio ve­der­ti a con­trol­la­re una fab­bri­ca a Hong Kong se non ti puoi in qual­che mo­do col­le­ga­re.
Pe­rò ha pro­dot­to an­che una sor­ta di tra­sfor­ma­zio­ne an­tro­po­lo­gi­ca den­tro la spe­cie uma­na, nel sen­so che si dà un pri­ma e un poi. Si trat­ta al­lo­ra di riu­sci­re a sta­bi­li­re dei pun­ti di co­mu­ni­ca­zio­ne con una cul­tu­ra di ba­se che, nel­l’in­te­ra­zio­ne con lo stru­men­to, tra­sfor­ma an­che le pra­ti­che e i mo­di di co­mu­ni­ca­re.
Io, pri­ma, per fa­re un pro­get­to, fa­ce­vo una riu­nio­ne con i miei dot­to­ran­di, da­vo dei com­pi­ti, que­sti fa­ce­va­no del­le ro­be da so­li, poi si fa­ce­va un’al­tra riu­nio­ne tut­ti as­sie­me e si ve­ni­va a ca­po del pro­get­to. Ora i miei dot­to­ran­di s’at­tac­ca­no a Goo­gle Dri­ve, scri­vo­no il pro­get­to per con­to lo­ro, sen­za nean­che par­lar­si, con la scrit­tu­ra di col­la­bo­ra­zio­ne e chie­do­no di par­te­ci­pa­re an­che a me, che fac­cio una fa­ti­ca be­stia. Or­mai ho im­pa­ra­to, ma in­som­ma… Lo stes­so va­le per al­tre pra­ti­che co­mu­ni­ca­ti­ve. Per me l’sms è qual­co­sa che ogni tan­to mi di­men­ti­co di guar­da­re. Per i ra­gaz­zi­ni un ap­pun­ta­men­to da­to per sms è mol­to più im­por­tan­te che non un ap­pun­ta­men­to da­to a vo­ce. È un cam­po che io non stu­dio, ma que­sto va­le an­che, per di­re, nel­le re­la­zio­ni sen­ti­men­ta­li. Cioè, il ruo­lo del­l’sms nel­le re­la­zio­ni sen­ti­men­ta­li è di­ven­ta­to fon­da­men­ta­le.
Que­sto gap, in­som­ma, si ma­ni­fe­sta in tan­ti cam­pi. Nel cam­po del­la scuo­la si ma­ni­fe­sta nei ter­mi­ni di una ne­ces­si­tà, in Ita­lia, di col­ma­re que­sto di­va­rio, che è a li­vel­lo di in­fra­strut­tu­re, più che al­tro, per­ché le me­to­do­lo­gie del­la scuo­la ita­lia­na so­no ten­den­zial­men­te già vi­ra­te ver­so il learn-by-doing, so­prat­tut­to nel­la pri­ma­ria, nel­la scuo­la del­l’in­fan­zia. Es­sen­do­ci sta­ta la Mon­tes­so­ri e Ma­la­guz­zi, gros­so­mo­do sia­mo lì. È al­le me­die e al­le su­pe­rio­ri che non ci sia­mo.
Ma il pro­ble­ma non è quel­lo di so­sti­tui­re la scuo­la, ben­sì di au­men­tar­la.
Non ha sen­so ri­fiu­ta­re la tec­no­lo­gia, la ve­ra sfi­da è in­te­grar­la den­tro i va­ri con­te­sti, tra cui la scuo­la.
Lei gi­ra per le scuo­le. Qual è l’at­teg­gia­men­to pre­va­len­te tra gli in­se­gnan­ti?
La si­tua­zio­ne è va­rie­ga­ta. Al­l’i­ni­zio, al­l’e­po­ca di Ber­lin­guer, c’e­ra sta­to un gran­de en­tu­sia­smo a cui poi è se­gui­ta una gros­sa de­lu­sio­ne e og­gi so­no di­ven­ta­ti tut­ti scet­ti­ci. An­che gli en­tu­sia­sti. C’è an­che da di­re che il gros­so del cor­po in­se­gnan­ti ha 54-56 an­ni e non ha avu­to una for­ma­zio­ne spe­ci­fi­ca, quin­di fa una fa­ti­ca ter­ri­bi­le, per­tan­to non è nean­che col­pa lo­ro. Ci so­no an­che quel­li ideo­lo­gi­ca­men­te con­tra­ri, ma per la mag­gior par­te il pro­ble­ma è che non san­no da che par­te gi­rar­si. Poi pe­rò ci so­no an­che aree, iso­le, ab­ba­stan­za avan­za­te o an­che mol­to avan­za­te co­me Pia­cen­za, Man­to­va, Brin­di­si. A Ca­deo, Pia­cen­za, c’è una scuo­la su­per­lus­so con un di­ri­gen­te il­lu­mi­na­to; a Bo­ret­to, il sin­da­co di que­sto pae­se di cin­que­mi­la ani­me ha mes­so su un con­sor­zio e ades­so pro­pon­go­no l’i­Pad an­che ai bam­bi­ni del­le scuo­le del­l’in­fan­zia. Suc­ce­de nei po­sti più im­pen­sa­ti, più fa­cil­men­te nei pic­co­li cen­tri che nel­le gran­di cit­tà.
C’è una si­tua­zio­ne a mac­chia di leo­par­do, per cui ci so­no iso­le di in­no­va­zio­ne con, a fian­co, scuo­le mol­to tra­di­zio­na­li. Per di­re, la scuo­la di mio fi­glio, che è una pri­ma­ria nel cen­tro di Mi­la­no, in Por­ta Ve­ne­zia, il com­pu­ter è an­co­ra nel­la for­ma del mon­ti­ci­no, pri­ma c’a­ve­va so­pra an­che un te­lo, ades­so l’han­no tol­to e ogni tan­to lo usa­no, ma que­ste po­ve­re in­se­gnan­ti, ca­so­mai vi­ci­ne ai ses­san­ta, mi di­co­no: “Io non so nean­che da che par­te co­min­cia­re”. E co­me fai a dar­gli tor­to? Cioè, piut­to­sto che la­vo­ra­re ma­le con una mac­chi­na, è me­glio la­vo­ra­re be­ne con un me­to­do di­dat­ti­co tra­di­zio­na­le. Il pro­ble­ma è che, se vo­glia­mo al­za­re lo sguar­do, que­sta co­sa ge­ne­ra un gap com­pe­ti­ti­vo con i pae­si più avan­za­ti.
L’an­zia­ni­tà del cor­po in­se­gnan­te, che si por­ta die­tro una strut­tu­ra­le dif­fi­col­tà ad ac­cet­ta­re il cam­bia­men­to (stan­te an­che il fat­to che non è mai sta­to in­cen­ti­va­to) è un pro­ble­ma. Blair ha in­ve­sti­to tren­ta­sei mi­liar­di di ster­li­ne -set­tan­ta mi­liar­di di eu­ro- per tra­sfor­ma­re la scuo­la. Og­gi, col co­sto del­la tec­no­lo­gia che si ab­bat­te non ser­vi­reb­be­ro ci­fre astro­no­mi­che. Sia la Boc­co­ni che il Po­li­tec­ni­co han­no fat­to del­le sti­me in ba­se al­le qua­li la tra­sfor­ma­zio­ne di­gi­ta­le nel­la scuo­la ita­lia­na, al­me­no dal pun­to di vi­sta in­fra­strut­tu­ra­le, co­ste­reb­be tra i set­te e i no­ve mi­liar­di. Non è una ci­fra lu­na­re. In as­sen­za di in­ve­sti­men­ti im­por­tan­ti, la si­tua­zio­ne del­la scuo­la è la­scia­ta, co­me sem­pre, al sin­go­lo. Ge­ne­ral­men­te co­sa suc­ce­de? Che se c’è un di­ri­gen­te vi­spo con un grup­po in­se­gnan­te ab­ba­stan­za reat­ti­vo, si va al­la cas­sa ru­ra­le del luo­go e si chie­do­no dei sol­di.
Dal pun­to di vi­sta del qua­dro nor­ma­ti­vo, c’è sta­ta una la­ten­za di al­me­no quin­di­ci an­ni. Mon­ti ha isti­tui­to l’a­gen­da di­gi­ta­le, che non è al­tro che l’a­de­gua­men­to a una co­sa che in Eu­ro­pa è co­min­cia­ta nel 2006. Con­ti­nua­no a non es­ser­ci i sol­di, ma al­me­no c’è una nor­ma­ti­va che di­ce che le scuo­le do­vreb­be­ro es­se­re ca­bla­te, che gli edi­to­ri do­vreb­be­ro pro­dur­re li­bri on li­ne. Pri­ma non c’e­ra nean­che quel­la. È co­mun­que un pas­so per­ché, fat­ta la nor­ma­ti­va, a un cer­to pun­to do­vrai ap­pli­car­la. E quin­di do­vrai an­che tro­va­re le ri­sor­se. Il fat­to è che que­sto è suc­ces­so in Ita­lia nel 2012 quan­do in Eu­ro­pa era suc­ces­so nel 2006. Co­mun­que non sia­mo i più in­die­tro.
C’è an­che da ri­co­no­sce­re che, at­tra­ver­so l’a­gen­zia In­di­re, nel no­stro pae­se è sta­ta fat­ta un’a­zio­ne di for­ma­zio­ne de­gli in­se­gnan­ti a li­vel­lo di in­for­ma­tiz­za­zio­ne tec­no­lo­gi­ca. Quan­do vai nel­le scuo­le pa­ri­ta­rie do­ve que­sta ro­ba non è sta­ta fat­ta te ne ac­cor­gi: le scuo­le pa­ri­ta­rie su que­sto so­no a ze­ro. Ma­ga­ri han­no tut­ti il com­pu­ter e in­ter­net, ma nes­su­no che li sa usa­re. In­ve­ce, nel­la scuo­la pub­bli­ca, que­sti cor­si so­no sta­ti fat­ti e co­sì hai del­la gen­te in­caz­za­ta per­ché non può fa­re quel­lo che po­treb­be per­ché non ha gli stru­men­ti per far­lo. Que­sto è un po’ il qua­dro.
Ma co­me do­vreb­be­ro cam­bia­re le me­to­do­lo­gie di­dat­ti­che?
Se una vol­ta il pro­ble­ma era quel­lo del re­pe­ri­men­to dei con­te­nu­ti, ades­so è quel­lo del di­stri­car­si. In que­sto sen­so la scuo­la, co­me agen­zia edu­ca­ti­va, do­vreb­be, ad esem­pio, for­ni­re gli stru­men­ti di uso cri­ti­co del­le tec­no­lo­gie.
Que­sta tran­si­zio­ne me­to­do­lo­gi­ca pe­rò è com­ples­sa e ri­chie­de for­ma­zio­ne. Ma an­che sul­la for­ma­zio­ne dob­bia­mo in­ten­der­ci. Io ho vi­sto che al­le scuo­le ele­men­ta­ri, per di­re, si trat­ta so­prat­tut­to di ab­bat­te­re le pau­re, do­po­di­ché le mae­stre ca­pi­sco­no su­bi­to co­me fun­zio­na la co­sa, cioè co­me pos­so­no adat­tar­si al nuo­vo me­dium. Vo­glio di­re che non de­ve es­se­re una for­ma­zio­ne al­l’u­so del­la tec­no­lo­gia, co­me è sta­to per tan­to tem­po: ti spie­go co­me fun­zio­na­la Lim. Per quel­lo ba­sta­no due ore.
Ci do­vreb­be es­se­re una for­ma­zio­ne che ti in­se­gni a fa­re un uso sen­sa­to, si­gni­fi­ca­ti­vo da un pun­to di vi­sta di­dat­ti­co-for­ma­ti­vo del­le tec­no­lo­gie, con re­la­ti­va con­ver­sio­ne dei pro­gram­mi. La ten­den­za eu­ro­pea e mon­dia­le in ge­ne­ra­le è quel­la al­la ri­du­zio­ne del­le ma­te­rie nei pri­mi an­ni, al­la op­zio­na­liz­za­zio­ne del­le ma­te­rie nel­le scuo­le su­pe­rio­ri e a un ap­pro­fon­di­men­to mol­to più ver­ti­ca­le sul­le sin­go­le di­sci­pli­ne. Be­ne: la ri­for­ma Gel­mi­ni è an­da­ta esat­ta­men­te nel­la di­re­zio­ne op­po­sta, cioè ha tol­to ore e ha au­men­ta­to ma­te­rie!
Que­sto cam­bia­men­to an­dreb­be poi ac­com­pa­gna­to an­che da un pun­to di vi­sta isti­tu­zio­na­le, con un ade­gua­men­to dei con­te­sti. Con­te­sti di pro­gram­mi, ma con­te­sti an­che fi­si­ci, nel sen­so che, se si guar­da al­le nuo­ve scuo­le che ven­go­no co­strui­te al­l’e­ste­ro, non ci so­no più le clas­si co­me le ab­bia­mo co­no­sciu­te. Ci so­no tan­ti la­bo­ra­to­ri, tan­ti spa­zi aper­ti per fa­re le­zio­ne, per fa­re la­vo­ri di grup­po e poi aree di ap­pren­di­men­to in­for­ma­le. È chia­ro che la strut­tu­ra del­la re­te tra­sfor­ma an­che gli spa­zi. In Fin­lan­dia, più di di­cias­set­te per clas­se non ne met­to­no, per­ché il la­vo­ro la­bo­ra­to­ria­le, se sei in tren­ta, non lo fai. E pe­rò au­men­ta­no gli in­se­gnan­ti an­zi­ché ri­dur­li. L’i­dea è che, po­sto che og­gi l’en­ci­clo­pe­di­smo è im­pos­si­bi­le, è me­glio fa­re me­no co­se ma me­glio che far­ne tre­cen­to­mi­la su­per­fi­cial­men­te, co­me in­ve­ce suc­ce­de nel­le scuo­le su­pe­rio­ri ita­li­che.
Di­ce­va che cam­bia an­che la scrit­tu­ra…
La mo­da­li­tà pre­ce­den­te con la qua­le si scri­ve­va un te­sto era di que­sto ti­po: io co­pia­vo e in­col­la­vo nel mio cer­vel­lo, ma­ga­ri pren­den­do de­gli ap­pun­ti, do­po­di­ché, quan­do do­ve­vo fa­re il te­ma, spu­ta­vo fuo­ri quel­lo che ave­vo in­col­la­to e lo met­te­vo in or­di­ne. Ades­so, il co­pia e in­col­la lo fan­no sul­la pa­gi­na. E non si ve­de per­ché non do­vreb­be­ro. Il fat­to è che de­ve es­se­re chia­ro che quel­la ro­ba lì l’ha scrit­ta un al­tro e che a lo­ro è ri­chie­sto un pro­ces­so di in­te­rio­riz­za­zio­ne e rie­la­bo­ra­zio­ne, quin­di di ri­fles­sio­ne. Que­sta co­sa glie­la de­vi spie­ga­re, al­tri­men­ti quel­li co­pia­no, in­col­la­no e fi­ne.
Ma la co­sa è an­co­ra più com­ples­sa. Per lo­ro la scrit­tu­ra è un pro­ces­so più si­mi­le al­la scul­tu­ra: uno but­ta lì e poi, pian pia­no mo­del­la e su que­sto non è che gli puoi cam­bia­re la te­sta. Te­nia­mo poi con­to del fat­to che la scuo­la è or­mai l’ul­ti­mo po­sto do­ve si scri­ve con la pen­na.
Al­lo­ra, non po­ten­do tra­sfor­ma­re la tec­no­lo­gia ca­rat­te­riz­zan­te, in qual­che mo­do l’in­se­gnan­te de­ve adat­ta­re e an­che com­pen­sa­re, per­ché que­sta ca­ren­za di ri­fles­sio­ne esi­ste. E pe­rò l’ap­proc­cio non può es­se­re “è col­pa del­la tec­no­lo­gia” per­ché og­gi i ra­gaz­zi­ni non so­no più sce­mi di pri­ma, al con­tra­rio so­no più vi­spi, più in­for­ma­ti, pe­rò han­no dif­fi­col­tà a ela­bo­ra­re.
Per ve­ni­re in­con­tro a que­ste nuo­ve esi­gen­ze ser­ve una ri­strut­tu­ra­zio­ne del si­ste­ma scuo­la.
Co­mun­que que­sto pro­ble­ma ce l’ha tut­to il mon­do. Bi­so­gne­rà in­ven­tar­si qual­co­sa. Per di­re, i bam­bi­ni han­no una gran­de fa­ci­li­tà a usa­re il vi­deo. Per­ché al­lo­ra non sfrut­ta­re que­sta ca­pa­ci­tà per far­li ri­flet­te­re sui con­te­nu­ti? Su you­tu­be ci so­no mi­lio­ni di vi­deo sul­l’a­per­tu­ra del­le car­te Yu-Gi-Oh, o mi­lio­ni di vi­deo sul­le co­stru­zio­ni Le­go o, an­co­ra, su co­me si pet­ti­na­no o su co­me si ve­sto­no le Bar­bie… e nes­su­no lo sa! Fa no­ti­zia so­lo il vi­deo di quel­lo che ha pic­chia­to quel­l’al­tro. È ov­vio: nei mi­lio­ni di vi­deo che que­sti ca­ri­ca­no sul­le lo­ro at­ti­vi­tà quo­ti­dia­ne, c’è an­che quel­lo del bul­lo. Ma se tu ve­di so­lo quel­lo e non ve­di i vi­deo che i bam­bi­ni met­to­no su sui Le­go, o il Mec­ca­no, si fan­no per­fi­no il lo­ro te­le­gior­na­le… In una pro­spet­ti­va at­ti­va que­sto apre al­l’in­se­gnan­te un’in­fi­ni­tà di nuo­ve pos­si­bi­li­tà, cioè puoi far­gli vi­deo-in­ter­vi­sta­re le non­ne!
Sa­reb­be an­che ap­pas­sio­nan­te la co­sa…
Da que­sto pun­to di vi­sta, il pro­ble­ma prin­ci­pa­le che si dà in que­sti con­te­sti è la mo­ti­va­zio­ne. Gli in­se­gnan­ti so­no de­mo­ti­va­ti per­ché so­no pa­ga­ti po­co e il lo­ro ruo­lo so­cia­le è sva­lu­ta­to. Dal­l’al­tra par­te, i bam­bi­ni so­no de­mo­ti­va­ti per­ché fi­no al­le ele­men­ta­ri, l’in­se­gnan­te ha an­che un ruo­lo ma­ter­no, ma ap­pe­na cre­sco­no non tro­va­no più al­cun ag­gan­cio. C’è pro­prio una no­ia be­stia­le che li pren­de e, al­la fi­ne, quan­do va be­ne, dan­no agli in­se­gnan­ti quel­lo che que­sti vo­glio­no, ma la lo­ro vi­ta è al­tro­ve. Per ri­com­por­re que­sto gap la tec­no­lo­gia è con­di­zio­ne ne­ces­sa­ria, ma non suf­fi­cien­te. L’e­sem­pio clas­si­co è la Lim, che è fat­ta co­me una vec­chia la­va­gna. Ci so­no dei ca­si pa­ra­dos­sa­li e di­ver­ten­ti di in­se­gnan­ti che ci han­no scrit­to col pen­na­rel­lo in­de­le­bi­le. An­che qui, pe­rò, non è col­pa de­gli in­se­gnan­ti. Se tu non li in­for­mi, non gli spie­ghi il sen­so del pro­ces­so e non gli dai al­cun in­cen­ti­vo, an­zi, que­sti ti ri­spon­do­no: “Ma ca­vo­lo! Non mi au­men­ti lo sti­pen­dio da quat­tro an­ni, ades­so mi ri­fi­li an­che que­sta co­sa che non so co­s’è, per cui mi de­vo fa­re il cor­so di for­ma­zio­ne, sem­pre a gra­tis e non me lo met­ti nean­che nel­le ore di le­zio­ne, ma me lo fai fa­re al sa­ba­to…”. Beh, in­som­ma…
Ep­pu­re ba­ste­reb­be po­co. Con un mi­ni­stro che de­ci­de che c’è que­sta prio­ri­tà, la tra­sfor­ma­zio­ne si fa in due an­ni. E se poi lo fai nel mo­do giu­sto, se­con­do me gli in­se­gnan­ti si di­ver­to­no an­che e si­cu­ra­men­te si ri­mo­ti­va­no.
In ef­fet­ti de­ve es­se­re an­che mol­to fru­stran­te non riu­sci­re a far ap­pas­sio­na­re i ra­gaz­zi.
Non si ca­pi­sco­no più. Lo­ro so­no fru­stra­ti, i ra­gaz­zi so­no an­no­ia­ti. Ma non c’è da es­se­re pes­si­mi­sti. C’è da es­se­re con­sa­pe­vo­li del pro­ble­ma e ri­sol­ver­lo. An­che per­ché, lo ri­pe­to, i co­sti del­la ri­so­lu­zio­ne ten­do­no a de­cre­sce­re; le po­che co­se che co­sta­no di me­no so­no que­ste e poi c’è il soft­ware li­be­ro. Il pro­ble­ma è la con­sa­pe­vo­lez­za. Mol­ti in­se­gnan­ti ce l’han­no, le co­se stan­no cam­bian­do; al­cu­ni so­no ostag­gio di un’o­sti­li­tà pre­con­cet­ta e non la mol­le­ran­no mai, ma mol­ti al­tri no. Cer­to, da que­sto pun­to di vi­sta, la For­ne­ro non ha aiu­ta­to, per­ché se pri­ma po­te­va­no an­da­re in pen­sio­ne a ses­san­ta, ades­so do­vran­no an­dar­ci a ses­san­ta­cin­que e di­ven­ta dif­fi­ci­le chie­de­re a una mae­stra che ha su­pe­ra­to i ses­san­ta, che ma­ga­ri ha an­che la­vo­ra­to be­ne e a cui man­ca­no un pa­io d’an­ni per la pen­sio­ne, di cam­bia­re tut­to…
La scuo­la po­treb­be ave­re un ruo­lo an­che nel­l’a­iu­ta­re i più gio­va­ni a sta­re den­tro i so­cial net­work in mo­do re­spon­sa­bi­le.
Co­me al so­li­to, la tec­no­lo­gia ma­ni­fe­sta i pro­ble­mi, non li crea. Lo di­ce be­nis­si­mo Char­met: che dal­la cul­tu­ra del sen­so di col­pa si sia pas­sa­ti al­la cul­tu­ra nar­ci­si­sti­ca, è un da­to di fat­to. Fa­ce­book, ten­den­zial­men­te vie­ne usa­to da­gli ado­le­scen­ti co­me si usa­va il dia­rio… Pec­ca­to che tu il dia­rio lo fa­ce­vi ve­de­re a due, tre ami­ci al mas­si­mo, in­ve­ce que­sta è una ve­tri­na glo­ba­le, per non par­la­re di Twit­ter, che non ha nean­che adot­ta­to la re­stri­zio­ne de­gli ami­ci, va a tut­ti di­ret­ta­men­te. Ora, il di­sclai­mer di Fa­ce­book di­ce che non ci pos­so­no en­tra­re fi­no a quat­tor­di­ci an­ni, in real­tà ci so­no un sac­co di bam­bi­ni con­nes­si con l’ac­count del pa­dre. An­che lì: puoi fer­ma­re que­sta ro­ba? No. De­vi spie­ga­re co­me usar­la. De­vi spie­ga­re che non de­vo­no met­te­re le fo­to lo­ro e dei lo­ro ami­ci; de­vi spie­gar­gli che, se usa­no Fa­ce­book o Goo­gle Plus quel­lo che ca­ri­ca­no di­ven­ta di pro­prie­tà lo­ro. In­som­ma, de­vi dir­gli co­me fun­zio­na. Bi­so­gne­reb­be pro­prio fa­re del­la “me­dia edu­ca­tion”. Poi pos­sia­mo di­scu­te­re se far­la co­me ma­te­ria cur­ri­co­la­re, o spal­mar­la sul­le va­rie di­sci­pli­ne, pos­sia­mo fa­re tut­ti i di­bat­ti­ti del mon­do, l’im­por­tan­te è che si fac­cia per­ché in un mon­do nel qua­le tut­to è vi­deo, im­ma­gi­ne, che que­sti non sap­pia­no di­stin­gue­re un pia­no se­quen­za è più gra­ve che se fan­no la “a” sen­za ac­ca per­ché ne va del­la lo­ro ca­pa­ci­tà di de­co­di­fi­ca­re ciò che ve­do­no. Non a ca­so l’A­gen­da di­gi­ta­le eu­ro­pea in­clu­de le com­pe­ten­ze di­gi­ta­li tra quel­le di ba­se del­la cit­ta­di­nan­za.
Ab­bia­mo par­la­to del­la scuo­la. I ge­ni­to­ri in­ve­ce so­no pre­pa­ra­ti?
Guar­di, pro­prio da que­sto pun­to di vi­sta, la scuo­la avreb­be una gran­dis­si­ma oc­ca­sio­ne di re­cu­pe­ro di ri­le­van­za so­cia­le. Le scuo­le e le bi­blio­te­che, so­prat­tut­to nei pae­si pic­co­li, po­treb­be­ro di­ven­ta­re del­le agen­zie di for­ma­zio­ne mol­to im­por­tan­ti, an­che per gli adul­ti. I ge­ni­to­ri, in­fat­ti, da un la­to, han­no un ter­ro­re fol­le, ma dal­l’al­tro, gli pia­ce mol­to che il fi­glio sia bra­vo col com­pu­ter. Han­no in­som­ma un at­teg­gia­men­to con­trad­dit­to­rio. Per di­re, tut­te le ri­cer­che in­di­ca­no che fi­no a che i bam­bi­ni fan­no le ele­men­ta­ri, so­no ter­ro­riz­za­ti che bec­chi­no il pe­do­fi­lo on li­ne, che è un’e­ven­tua­li­tà ve­ra­men­te ra­ra. Quan­do ar­ri­va­no al­le me­die, cioè quan­do ef­fet­ti­va­men­te un qual­che ri­schio in più c’è, non tan­to del pe­do­fi­lo on li­ne, ma che si espon­ga­no o ve­da­no con­te­nu­ti ina­de­gua­ti, la guar­dia si ab­bas­sa. È em­ble­ma­ti­co che il pa­ren­tal con­trol (che eli­mi­na il 99,99% del­le pos­si­bi­li­tà che que­sti ac­ce­da­no a con­te­nu­ti scon­ve­nien­ti) sia at­ti­vo so­lo sul 30% del­le mac­chi­ne che usa­no bam­bi­ni. È an­che pos­si­bi­le che que­sti pro­ble­mi si ri­sol­va­no da so­li. Ci so­no ad esem­pio del­le ri­cer­che in­te­res­san­ti da cui ri­sul­ta che le mam­me tra i 25 e i 35 an­ni han­no ca­pi­to che in­ter­net è una ri­sor­sa pre­zio­sis­si­ma per ve­ni­re a ca­po di un sac­co di pro­ble­mi. Ec­co, es­sen­do lo­ro mol­to pre­sen­ti su in­ter­net, poi spie­ghe­ran­no ai lo­ro bam­bi­ni co­me si fa. In que­sto sen­so di­co che è pos­si­bi­le che le co­se si ri­sol­va­no da so­le. Cer­to che se gli dai una ma­no a ri­sol­ver­lo, è me­glio. Da que­sto pun­to di vi­sta, le scuo­le avreb­be­ro una gran­de oc­ca­sio­ne di re­cu­pe­ro di pre­sti­gio an­che so­cia­le.
Vo­glio di­re, se tuo fi­glio ar­ri­va a ca­sa col qua­der­no dei com­pi­ti da far­ti ve­de­re, tu ge­ni­to­re sbuf­fi, ma se ti ar­ri­va con un fil­ma­to in Flash, beh, po­tre­sti ri­ma­ne­re sba­lor­di­to.
Ma la pau­ra che si crei­no si­tua­zio­ni di di­pen­den­za dal com­pu­ter o che i bam­bi­ni si iso­li­no è fon­da­ta?
Per ca­ri­tà, può suc­ce­de­re, pe­rò, fran­ca­men­te, mi sem­bra più una co­sa dei gior­na­li. Guar­di, la mae­stra di mio fi­glio ha 60 an­ni; du­ran­te l’in­ter­val­lo, se non pos­so­no por­ta­re i bam­bi­ni in cor­ti­le, so­no ob­bli­ga­ti dal­la leg­ge 626 a te­ner­li in clas­se. A un cer­to pun­to le in­se­gnan­ti ca­pi­sco­no che, se fan­no usa­re le play­sta­tion nel­l’in­ter­val­lo si am­maz­za­no di me­no. E al­lo­ra glie­lo fan­no usa­re, ma su­bi­to spun­ta una mam­ma, che di­ce: “Aaaahhhh, la DS!?!?”. Co­sì mi in­ter­pel­la­no: “Lei co­sa di­ce? Glie­lo fac­cia­mo usa­re o no?”. Ho ri­spo­sto che a me il lo­ro ra­gio­na­men­to era sem­bra­to del tut­to sen­sa­to. Le ri­cer­che di­co­no che il tas­so di con­flit­tua­li­tà tra bam­bi­ni si ab­bat­te in pre­sen­za di scher­mi in­te­rat­ti­vi. È una lo­gi­ca di ri­du­zio­ne del dan­no. Cioè, non è che sia il mas­si­mo, pe­rò se l’al­ter­na­ti­va è che si scan­na­no… In­som­ma, al­la fi­ne, han­no pre­so que­sta sa­lo­mo­ni­ca de­ci­sio­ne di usar­lo un gior­no sì e un gior­no no. Co­mun­que a me non ri­sul­ta che que­sti gio­chi esclu­da­no gli al­tri: i bam­bi­ni gio­ca­no co­mun­que a ba­sket, ve­do­no co­mun­que gli ami­ci. Il pro­ble­ma ca­so­mai è che non han­no con­te­sti di so­cia­liz­za­zio­ne. Io non so­no cre­den­te, ma per for­tu­na che ci so­no gli ora­to­ri, per­ché sen­nò non c’è nien­te. Co­mun­que io li ve­do nei cam­pet­ti: gio­ca­no a cal­cio, a ba­sket; la con­so­le la ten­go­no nel­la car­tel­la. Al­la fi­ne ma­ga­ri la ti­ra­no an­che fuo­ri, quan­do so­no stan­chi, pe­rò.
(a cu­ra di Bar­ba­ra Ber­ton­cin)