I “nativi digitali” incontrano sempre più presto gli schermi interattivi e questo cambia il loro modo di rappresentarsi il mondo; la sfida, per gli insegnanti, di appassionare ragazzi più vispi, informati e però con difficoltà di rielaborazione; l’incredibile quantità, su youtube, di video fatti da bambini su come si usano le carte yu-gi-ho o come si pettinano le bambole. Intervista a Paolo Ferri.
Paolo Ferri insegna Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie didattiche presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, dove dirige il Lisp (Laboratorio informatico di Sperimentazione Pedagogica) e l’Osservatorio Nuovi Media NuMediaBios. Per Bruno Mondadori ha pubblicato La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione (2008); Nativi digitali (2011).
Vorremmo parlare con lei dei cosiddetti “nativi digitali”, cercando di capire intanto chi sono.
La questione nasce nel 2001 quando Marc Prensky inventa questo termine che ha avuto una fortuna forse sconsiderata, ma che pone un problema reale. L’articolo si intitola proprio “Chi sono i nativi digitali?” e innesca un dibattito sulla diversità o meno dei bambini nati negli anni Duemila. La domanda è: esistono o non esistono? Come al solito, il dibattito poi si polarizza in maniera un po’ superficiale, però io sposo la tesi che esistano anche per una ragione, in realtà, scientifica. Gli studi sulla plasticità neurale condotti dagli studiosi di scienze cognitive e di neuroscienze, tra cui lo stesso Rizzolatti, hanno dimostrato che non solo la plasticità neurale è qualcosa di molto più esteso di quanto si credesse, nel senso che non c’è solo nei bambini, ma c’è anche negli adulti e quindi che il cervello si modifica per tutta la vita, ma, in particolare, che le interazioni con gli artefatti culturali (le tecnologie sono artefatti culturali) oppure con la parola, trasformano -letteralmente!- il cervello.
Se questo è vero, è molto probabile che l’esposizione a un ambiente completamente diverso dal precedente (adesso sembra che i tablet siano esistiti da sempre, ma io, che sono stato tra i primi a ordinarlo in Italia, l’ho visto a maggio del 2010) abbia un impatto su questi bambini.
In Italia questa tesi siamo in pochi a sostenerla ma perché siamo un paese conservatore. In realtà basta vedere un bambino che gioca con l’iPad per capire che non sono stupidaggini. Che questo poi funzioni sull’educazione, quello è un altro discorso. Comunque, l’idea è che l’interazione con un contesto culturale che si è trasformato in maniera radicale negli ultimi, diciamo, quindici anni (oggi la tecnologia è onnipresente nelle case e sono diventati tutti schermi interattivi; il meno interattivo, paradossalmente, è quello del computer, che richiede ancora la mediazione del mouse) trasformi proprio non solo le modalità di gioco, ma anche quelle di apprendimento, e in generale il modo in cui i bambini vedono e rappresentano il mondo. O vedono e costruiscono il mondo. Questo in chiave non deterministica, nel senso che serve l’interazione con la macchina, o meglio l’interazione “collaborativa” con la macchina. È difficile vedere un bambino da solo davanti alla console, a meno che non glielo dia il genitore; se li vedi al parco, sono un crocchio attorno alla console o un crocchio attorno al tablet perché così si divertono di più, perché non è che poi i bambini sono cambiati, cioè stare con gli altri gli piace molto di più che stare da soli, che ci sia o che non ci sia la tecnologia. Alcune costanti antropologiche permangono. Infatti, alla domanda: “Qual è la cosa che ti piace di più nel videogioco?”, la risposta è: “Giocare con gli altri miei amici”.
Questa cosa è stata colta anche da altri studiosi. Per esempio, anche Jenkins, l’autore di Culture partecipative, che contesta il termine “nativi digitali” perché è settario, ghettizza, discrimina, riconosce che si è sviluppata una cultura informale diversa, partecipativa, costruita attorno all’interazione con la tecnologia, che deve essere compresa e studiata perché in realtà gli adulti ne sanno poco. Lo stesso quel Paul Gee, di cui adesso è uscito il libro sui videogiochi, che ragiona, appunto, su come le modalità di gioco influenzi anche i comportamenti e le relazioni di scambio tra i bambini.
Provando a entrare nel merito, in che cosa consiste questa radicale differenza?
Io la colloco nelle nozioni relative all’apprendimento. La prima e radicale differenza è che noi siamo figli di Gutenberg e questi bambini e ragazzini sono figli di internet.
Noi, figli del libro, abbiamo studiato, ci siamo fatti una forma mentis costruita sulla parola alfabetica, accompagnata da immagini fisse. Ora, la parola alfabetica, come diceva McLuhan, porta con sé tutta una galassia di rappresentazioni correlate: l’autorità del testo, sacro o meno, implica anche un modello di comunicazione che storicamente è stato quello uno-molti. Che fosse il prete dal pulpito, il politico dal palco, il Papa dallo scranno, era quello il modello dominante, che si è trasferito anche nelle istituzioni educative. In generale, l’insegnante ha la sua cattedra e parla a tanti.
In che senso i nativi digitali hanno una testa completamente diversa? Intanto perché, per loro, la parola alfabetica è uno dei tanti codici, e sicuramente il più difficile da interpretare. Loro sono immersi in un mondo fatto di video, grafica, animazione, suono e anche parola. Ma la parola, come dimostrano gli studi di psicologia cognitiva, è il codice più difficile, il meno immediato, perché c’è la mediazione del significante. Cioè, il cavallo si chiamerà diversamente in tutte le lingue, ma se uno lo vede riconosce cos’è, mentre la mediazione del significante è più complessa. Noi siamo cresciuti nella cultura di Aristotele che diceva “zoon logon echon” e se l’uomo è un animale che ha la parola forse è la parola quella che ci distingue specificatamente. Loro vivono in un mondo in cui la parola è uno dei tanti modi di comunicare. È parola orale, attaccata al video, è parola cantata, è parola rappresentata dentro un videogioco, è anche testo scritto. Ma, ripeto: “anche”, non solo.
L’altra differenza fondamentale è che, vivendo immersi in questo mondo multicodicale, fanno davvero fatica a relazionarsi con chi si sta traghettando, con più o meno fatica, verso questo mondo, i cosiddetti migranti digitali, cioè con gli adulti. Ovviamente questa dicotomia non è proprio così secca, perché poi ci sono tante sfumature di grigio, non c’è solo il dato anagrafico, ci sono le passioni personali, ecc., però è un fatto che, da un certo momento in poi, le cose non sono più come prima.
Possiamo dire che i nativi digitali nascono quando nella società si diffondono gli schermi interattivi come strumento di comunicazione. Qui c’è proprio un punto di rottura perché questi schermi sono veramente interattivi. Cioè, l’unico modo per comunicare col televisore era cambiare canale. Quello era il tasso di interattività concesso. Qui invece si è veramente dentro lo schermo. Nel senso che, mentre il televisore lo accendi e ti compare subito il programma, se apri Google non succede niente, devi comunque fare un gesto attivo di ricerca. Ecco, questa idea che devi fare delle cose tu ormai entra nella testa dei bambini in un’età molto precoce. Con Susanna Mantovani stiamo concentrando gli studi nella fascia 0-6 anni; il contatto col cellulare o col tablet ormai avviene intorno all’anno, anno e mezzo e accompagna, nei fatti, tutta la vita dei bambini. È vero che, al momento, in Italia, i tablet hanno una penetrazione che si attesta intorno al 10%, ma già gli smartphone sono sul 56-57%; oltre il 90% delle famiglie con figli hanno il computer. Probabilmente sono i bambini che chiamano la tecnologia.
Quello che è certo è che loro si sono abituati a un modo del tutto nuovo di interagire con gli artefatti culturali, nel senso che noi, che fossimo in chiesa, alla sezione o davanti al libro, ascoltavamo e leggevamo. Loro si abituano a fare delle cose dentro gli schermi e questo fare delle cose dentro gli schermi, inevitabilmente, sta diventando un habitus, cioè un modo di operare che interessa tutti i contesti in cui si trovano. Siccome i contesti dei bambini sono la famiglia, la scuola e il gioco, ecco che questa modalità è arrivata anche dentro la scuola.
Io faccio sempre questo esempio: io ho incontrato i “problemi”, intesi come problemi di matematica, in seconda elementare.
Questi incontrano problemi, che sono di altra natura, casomai il videogioco di Super Mario, ben prima. Di nuovo, in Super Mario, se non fai delle cose dentro lo schermo non succede niente, non passi al livello successivo. E, attenzione, la soluzione dei problemi, per loro, non avviene per via logico-deduttiva”, ma è qualcosa di molto simile a quello che, cento anni fa, si sono inventati la Montessori e Dewey, cioè un fare attivo che ti porta a sperimentare varie soluzioni fino a individuare quella più efficace.
Come si insegna a questi bambini? Cosa sta succedendo nelle scuole?
Noi abbiamo una concezione dell’apprendimento di tipo riflessivo individuale, cioè tu con l’insegnante, tu con il quaderno, tu con il libro; loro, invece, come dicevo, sono abituati a fare, quindi avrebbero bisogno di una scuola che li faccia fare e poi sia in grado di ricavare da questo delle sintesi.
Stiamo andando verso una trasformazione del paradigma dell’apprendimento-insegnamento. Non a caso il più grande editore del mondo, Pearson, ha cominciato a diffondere i suoi contenuti editoriali attraverso lo schema della Flipped Classrom, cioè, invece di ascoltare a lezione quello che dice l’insegnante e poi studiare e fare i compiti a casa, si fa attività in classe e si studiano i contenuti in maniera multimediale sulla piattaforma. C’è proprio un’inversione del setting didattico. In Italia non c’è niente del genere. Soffriamo proprio di un ritardo. Berlinguer, quando era ministro dell’istruzione, aveva stanziato molti fondi sull’infrastrutturazione digitale delle scuole, facendole diventare anche un po’ il perno dell’autonomia scolastica; se avessimo fatto quella roba lì, adesso saremmo come l’Inghilterra, che è il paese più avanzato del nord Europa nell’infrastrutturazione digitale. Invece oggi le scuole italiane non hanno la banda, non hanno il cablaggio, non hanno internet.
Questo ritardo del sistema paese ha fatto sì che cominciasse ad aprirsi un gap molto rilevante tra gli stili di insegnamento e gli stili di apprendimento. Gli stili di apprendimento, loro, nell’informale, se li costruiscono e li portano a scuola. Si crea così una situazione di incomunicabilità. I nativi digitali propriamente detti, in Italia, hanno dieci, undici anni, i primi; quelli compiutamente nativi ne hanno cinque o sei. Questo problema, se non verrà affrontato, una volta usciti dalla scuola tenderà a ricadere, a cascata, sulla società.
Allora, al di là delle forzature che si possono fare di questo termine, è importante capire che questi ragazzini vedono e costruiscono il mondo, cioè hanno un’idea della geografia, dello spazio, del tempo, delle distanze, dell’esperienza, molto diversa dalla nostra. Voglio anche sfatare un mito. Tutte le ricerche dicono che loro non rubano tempo al gioco o allo sport o allo stare coi compagni per usare i media digitali; rubano tempo alla televisione. I consumi di televisione si stanno progressivamente abbattendo nei bambini. Nei tempi d’oro (della televisione, non dei bambini) eravamo sulle quattro ore al giorno, oggi siamo dalla parte delle due. Insomma, al media ipnotico preferiscono quello interattivo.
Bene, io sostengo che questa cultura collaborativa che loro hanno sviluppato autonomamente nella relazione col media, e che è ancora poco compresa dagli adulti, andrebbe valorizzata a scuola e non, come è stato fatto a un certo punto, negata proibendo il cellulare, perché questo è fare lo struzzo che infila la testa nella sabbia. Nel senso che il cellulare ce l’hanno, allora faglielo usare per risponderti, per esempio, o pensiamo a qualcos’altro, però toglierlo vuol dire letteralmente tagliargli una mano. L’età media di accesso al cellulare ormai è attorno agli otto anni. E non tanto perché i bambini lo vogliano (tant’è che lo perdono e comunque non lo usano per telefonare) ma perché i genitori hanno manie di controllo.
Qui siamo di fronte a una frattura che va ricomposta. Ovviamente non è facile. La cesura gutenberghiana, per dare il senso della rilevanza del cambiamento, è quella che poi ha generato tutto lo spirito del capitalismo, se stiamo a Weber, quindi ha trasformato radicalmente la società. Il fatto è che Lutero ci ha messo quarant’anni per capire le potenzialità dello strumento libro e, comunque, è stata una rivoluzione inavvertita per un sacco di tempo. Qui il fenomeno è enormemente più veloce, nel senso che il world wide web è stato concepito nella forma in cui la conosciamo oggi da Tim Berners Lee nel ’92-’93. Sono passati vent’anni e ci sono tre miliardi di connessi. Anche questa è una frattura strutturale che poi ha determinato tutta una serie di fenomeni correlati. Non si dà infatti globalizzazione senza internet perché voglio vederti a controllare una fabbrica a Hong Kong se non ti puoi in qualche modo collegare.
Però ha prodotto anche una sorta di trasformazione antropologica dentro la specie umana, nel senso che si dà un prima e un poi. Si tratta allora di riuscire a stabilire dei punti di comunicazione con una cultura di base che, nell’interazione con lo strumento, trasforma anche le pratiche e i modi di comunicare.
Io, prima, per fare un progetto, facevo una riunione con i miei dottorandi, davo dei compiti, questi facevano delle robe da soli, poi si faceva un’altra riunione tutti assieme e si veniva a capo del progetto. Ora i miei dottorandi s’attaccano a Google Drive, scrivono il progetto per conto loro, senza neanche parlarsi, con la scrittura di collaborazione e chiedono di partecipare anche a me, che faccio una fatica bestia. Ormai ho imparato, ma insomma… Lo stesso vale per altre pratiche comunicative. Per me l’sms è qualcosa che ogni tanto mi dimentico di guardare. Per i ragazzini un appuntamento dato per sms è molto più importante che non un appuntamento dato a voce. È un campo che io non studio, ma questo vale anche, per dire, nelle relazioni sentimentali. Cioè, il ruolo dell’sms nelle relazioni sentimentali è diventato fondamentale.
Questo gap, insomma, si manifesta in tanti campi. Nel campo della scuola si manifesta nei termini di una necessità, in Italia, di colmare questo divario, che è a livello di infrastrutture, più che altro, perché le metodologie della scuola italiana sono tendenzialmente già virate verso il learn-by-doing, soprattutto nella primaria, nella scuola dell’infanzia. Essendoci stata la Montessori e Malaguzzi, grossomodo siamo lì. È alle medie e alle superiori che non ci siamo.
Ma il problema non è quello di sostituire la scuola, bensì di aumentarla.
Non ha senso rifiutare la tecnologia, la vera sfida è integrarla dentro i vari contesti, tra cui la scuola.
Lei gira per le scuole. Qual è l’atteggiamento prevalente tra gli insegnanti?
La situazione è variegata. All’inizio, all’epoca di Berlinguer, c’era stato un grande entusiasmo a cui poi è seguita una grossa delusione e oggi sono diventati tutti scettici. Anche gli entusiasti. C’è anche da dire che il grosso del corpo insegnanti ha 54-56 anni e non ha avuto una formazione specifica, quindi fa una fatica terribile, pertanto non è neanche colpa loro. Ci sono anche quelli ideologicamente contrari, ma per la maggior parte il problema è che non sanno da che parte girarsi. Poi però ci sono anche aree, isole, abbastanza avanzate o anche molto avanzate come Piacenza, Mantova, Brindisi. A Cadeo, Piacenza, c’è una scuola superlusso con un dirigente illuminato; a Boretto, il sindaco di questo paese di cinquemila anime ha messo su un consorzio e adesso propongono l’iPad anche ai bambini delle scuole dell’infanzia. Succede nei posti più impensati, più facilmente nei piccoli centri che nelle grandi città.
C’è una situazione a macchia di leopardo, per cui ci sono isole di innovazione con, a fianco, scuole molto tradizionali. Per dire, la scuola di mio figlio, che è una primaria nel centro di Milano, in Porta Venezia, il computer è ancora nella forma del monticino, prima c’aveva sopra anche un telo, adesso l’hanno tolto e ogni tanto lo usano, ma queste povere insegnanti, casomai vicine ai sessanta, mi dicono: “Io non so neanche da che parte cominciare”. E come fai a dargli torto? Cioè, piuttosto che lavorare male con una macchina, è meglio lavorare bene con un metodo didattico tradizionale. Il problema è che, se vogliamo alzare lo sguardo, questa cosa genera un gap competitivo con i paesi più avanzati.
L’anzianità del corpo insegnante, che si porta dietro una strutturale difficoltà ad accettare il cambiamento (stante anche il fatto che non è mai stato incentivato) è un problema. Blair ha investito trentasei miliardi di sterline -settanta miliardi di euro- per trasformare la scuola. Oggi, col costo della tecnologia che si abbatte non servirebbero cifre astronomiche. Sia la Bocconi che il Politecnico hanno fatto delle stime in base alle quali la trasformazione digitale nella scuola italiana, almeno dal punto di vista infrastrutturale, costerebbe tra i sette e i nove miliardi. Non è una cifra lunare. In assenza di investimenti importanti, la situazione della scuola è lasciata, come sempre, al singolo. Generalmente cosa succede? Che se c’è un dirigente vispo con un gruppo insegnante abbastanza reattivo, si va alla cassa rurale del luogo e si chiedono dei soldi.
Dal punto di vista del quadro normativo, c’è stata una latenza di almeno quindici anni. Monti ha istituito l’agenda digitale, che non è altro che l’adeguamento a una cosa che in Europa è cominciata nel 2006. Continuano a non esserci i soldi, ma almeno c’è una normativa che dice che le scuole dovrebbero essere cablate, che gli editori dovrebbero produrre libri on line. Prima non c’era neanche quella. È comunque un passo perché, fatta la normativa, a un certo punto dovrai applicarla. E quindi dovrai anche trovare le risorse. Il fatto è che questo è successo in Italia nel 2012 quando in Europa era successo nel 2006. Comunque non siamo i più indietro.
C’è anche da riconoscere che, attraverso l’agenzia Indire, nel nostro paese è stata fatta un’azione di formazione degli insegnanti a livello di informatizzazione tecnologica. Quando vai nelle scuole paritarie dove questa roba non è stata fatta te ne accorgi: le scuole paritarie su questo sono a zero. Magari hanno tutti il computer e internet, ma nessuno che li sa usare. Invece, nella scuola pubblica, questi corsi sono stati fatti e così hai della gente incazzata perché non può fare quello che potrebbe perché non ha gli strumenti per farlo. Questo è un po’ il quadro.
Ma come dovrebbero cambiare le metodologie didattiche?
Se una volta il problema era quello del reperimento dei contenuti, adesso è quello del districarsi. In questo senso la scuola, come agenzia educativa, dovrebbe, ad esempio, fornire gli strumenti di uso critico delle tecnologie.
Questa transizione metodologica però è complessa e richiede formazione. Ma anche sulla formazione dobbiamo intenderci. Io ho visto che alle scuole elementari, per dire, si tratta soprattutto di abbattere le paure, dopodiché le maestre capiscono subito come funziona la cosa, cioè come possono adattarsi al nuovo medium. Voglio dire che non deve essere una formazione all’uso della tecnologia, come è stato per tanto tempo: ti spiego come funzionala Lim. Per quello bastano due ore.
Ci dovrebbe essere una formazione che ti insegni a fare un uso sensato, significativo da un punto di vista didattico-formativo delle tecnologie, con relativa conversione dei programmi. La tendenza europea e mondiale in generale è quella alla riduzione delle materie nei primi anni, alla opzionalizzazione delle materie nelle scuole superiori e a un approfondimento molto più verticale sulle singole discipline. Bene: la riforma Gelmini è andata esattamente nella direzione opposta, cioè ha tolto ore e ha aumentato materie!
Questo cambiamento andrebbe poi accompagnato anche da un punto di vista istituzionale, con un adeguamento dei contesti. Contesti di programmi, ma contesti anche fisici, nel senso che, se si guarda alle nuove scuole che vengono costruite all’estero, non ci sono più le classi come le abbiamo conosciute. Ci sono tanti laboratori, tanti spazi aperti per fare lezione, per fare lavori di gruppo e poi aree di apprendimento informale. È chiaro che la struttura della rete trasforma anche gli spazi. In Finlandia, più di diciassette per classe non ne mettono, perché il lavoro laboratoriale, se sei in trenta, non lo fai. E però aumentano gli insegnanti anziché ridurli. L’idea è che, posto che oggi l’enciclopedismo è impossibile, è meglio fare meno cose ma meglio che farne trecentomila superficialmente, come invece succede nelle scuole superiori italiche.
Diceva che cambia anche la scrittura…
La modalità precedente con la quale si scriveva un testo era di questo tipo: io copiavo e incollavo nel mio cervello, magari prendendo degli appunti, dopodiché, quando dovevo fare il tema, sputavo fuori quello che avevo incollato e lo mettevo in ordine. Adesso, il copia e incolla lo fanno sulla pagina. E non si vede perché non dovrebbero. Il fatto è che deve essere chiaro che quella roba lì l’ha scritta un altro e che a loro è richiesto un processo di interiorizzazione e rielaborazione, quindi di riflessione. Questa cosa gliela devi spiegare, altrimenti quelli copiano, incollano e fine.
Ma la cosa è ancora più complessa. Per loro la scrittura è un processo più simile alla scultura: uno butta lì e poi, pian piano modella e su questo non è che gli puoi cambiare la testa. Teniamo poi conto del fatto che la scuola è ormai l’ultimo posto dove si scrive con la penna.
Allora, non potendo trasformare la tecnologia caratterizzante, in qualche modo l’insegnante deve adattare e anche compensare, perché questa carenza di riflessione esiste. E però l’approccio non può essere “è colpa della tecnologia” perché oggi i ragazzini non sono più scemi di prima, al contrario sono più vispi, più informati, però hanno difficoltà a elaborare.
Per venire incontro a queste nuove esigenze serve una ristrutturazione del sistema scuola.
Comunque questo problema ce l’ha tutto il mondo. Bisognerà inventarsi qualcosa. Per dire, i bambini hanno una grande facilità a usare il video. Perché allora non sfruttare questa capacità per farli riflettere sui contenuti? Su youtube ci sono milioni di video sull’apertura delle carte Yu-Gi-Oh, o milioni di video sulle costruzioni Lego o, ancora, su come si pettinano o su come si vestono le Barbie… e nessuno lo sa! Fa notizia solo il video di quello che ha picchiato quell’altro. È ovvio: nei milioni di video che questi caricano sulle loro attività quotidiane, c’è anche quello del bullo. Ma se tu vedi solo quello e non vedi i video che i bambini mettono su sui Lego, o il Meccano, si fanno perfino il loro telegiornale… In una prospettiva attiva questo apre all’insegnante un’infinità di nuove possibilità, cioè puoi fargli video-intervistare le nonne!
Sarebbe anche appassionante la cosa…
Da questo punto di vista, il problema principale che si dà in questi contesti è la motivazione. Gli insegnanti sono demotivati perché sono pagati poco e il loro ruolo sociale è svalutato. Dall’altra parte, i bambini sono demotivati perché fino alle elementari, l’insegnante ha anche un ruolo materno, ma appena crescono non trovano più alcun aggancio. C’è proprio una noia bestiale che li prende e, alla fine, quando va bene, danno agli insegnanti quello che questi vogliono, ma la loro vita è altrove. Per ricomporre questo gap la tecnologia è condizione necessaria, ma non sufficiente. L’esempio classico è la Lim, che è fatta come una vecchia lavagna. Ci sono dei casi paradossali e divertenti di insegnanti che ci hanno scritto col pennarello indelebile. Anche qui, però, non è colpa degli insegnanti. Se tu non li informi, non gli spieghi il senso del processo e non gli dai alcun incentivo, anzi, questi ti rispondono: “Ma cavolo! Non mi aumenti lo stipendio da quattro anni, adesso mi rifili anche questa cosa che non so cos’è, per cui mi devo fare il corso di formazione, sempre a gratis e non me lo metti neanche nelle ore di lezione, ma me lo fai fare al sabato…”. Beh, insomma…
Eppure basterebbe poco. Con un ministro che decide che c’è questa priorità, la trasformazione si fa in due anni. E se poi lo fai nel modo giusto, secondo me gli insegnanti si divertono anche e sicuramente si rimotivano.
In effetti deve essere anche molto frustrante non riuscire a far appassionare i ragazzi.
Non si capiscono più. Loro sono frustrati, i ragazzi sono annoiati. Ma non c’è da essere pessimisti. C’è da essere consapevoli del problema e risolverlo. Anche perché, lo ripeto, i costi della risoluzione tendono a decrescere; le poche cose che costano di meno sono queste e poi c’è il software libero. Il problema è la consapevolezza. Molti insegnanti ce l’hanno, le cose stanno cambiando; alcuni sono ostaggio di un’ostilità preconcetta e non la molleranno mai, ma molti altri no. Certo, da questo punto di vista, la Fornero non ha aiutato, perché se prima potevano andare in pensione a sessanta, adesso dovranno andarci a sessantacinque e diventa difficile chiedere a una maestra che ha superato i sessanta, che magari ha anche lavorato bene e a cui mancano un paio d’anni per la pensione, di cambiare tutto…
La scuola potrebbe avere un ruolo anche nell’aiutare i più giovani a stare dentro i social network in modo responsabile.
Come al solito, la tecnologia manifesta i problemi, non li crea. Lo dice benissimo Charmet: che dalla cultura del senso di colpa si sia passati alla cultura narcisistica, è un dato di fatto. Facebook, tendenzialmente viene usato dagli adolescenti come si usava il diario… Peccato che tu il diario lo facevi vedere a due, tre amici al massimo, invece questa è una vetrina globale, per non parlare di Twitter, che non ha neanche adottato la restrizione degli amici, va a tutti direttamente. Ora, il disclaimer di Facebook dice che non ci possono entrare fino a quattordici anni, in realtà ci sono un sacco di bambini connessi con l’account del padre. Anche lì: puoi fermare questa roba? No. Devi spiegare come usarla. Devi spiegare che non devono mettere le foto loro e dei loro amici; devi spiegargli che, se usano Facebook o Google Plus quello che caricano diventa di proprietà loro. Insomma, devi dirgli come funziona. Bisognerebbe proprio fare della “media education”. Poi possiamo discutere se farla come materia curricolare, o spalmarla sulle varie discipline, possiamo fare tutti i dibattiti del mondo, l’importante è che si faccia perché in un mondo nel quale tutto è video, immagine, che questi non sappiano distinguere un piano sequenza è più grave che se fanno la “a” senza acca perché ne va della loro capacità di decodificare ciò che vedono. Non a caso l’Agenda digitale europea include le competenze digitali tra quelle di base della cittadinanza.
Abbiamo parlato della scuola. I genitori invece sono preparati?
Guardi, proprio da questo punto di vista, la scuola avrebbe una grandissima occasione di recupero di rilevanza sociale. Le scuole e le biblioteche, soprattutto nei paesi piccoli, potrebbero diventare delle agenzie di formazione molto importanti, anche per gli adulti. I genitori, infatti, da un lato, hanno un terrore folle, ma dall’altro, gli piace molto che il figlio sia bravo col computer. Hanno insomma un atteggiamento contraddittorio. Per dire, tutte le ricerche indicano che fino a che i bambini fanno le elementari, sono terrorizzati che becchino il pedofilo on line, che è un’eventualità veramente rara. Quando arrivano alle medie, cioè quando effettivamente un qualche rischio in più c’è, non tanto del pedofilo on line, ma che si espongano o vedano contenuti inadeguati, la guardia si abbassa. È emblematico che il parental control (che elimina il 99,99% delle possibilità che questi accedano a contenuti sconvenienti) sia attivo solo sul 30% delle macchine che usano bambini. È anche possibile che questi problemi si risolvano da soli. Ci sono ad esempio delle ricerche interessanti da cui risulta che le mamme tra i 25 e i 35 anni hanno capito che internet è una risorsa preziosissima per venire a capo di un sacco di problemi. Ecco, essendo loro molto presenti su internet, poi spiegheranno ai loro bambini come si fa. In questo senso dico che è possibile che le cose si risolvano da sole. Certo che se gli dai una mano a risolverlo, è meglio. Da questo punto di vista, le scuole avrebbero una grande occasione di recupero di prestigio anche sociale.
Voglio dire, se tuo figlio arriva a casa col quaderno dei compiti da farti vedere, tu genitore sbuffi, ma se ti arriva con un filmato in Flash, beh, potresti rimanere sbalordito.
Ma la paura che si creino situazioni di dipendenza dal computer o che i bambini si isolino è fondata?
Per carità, può succedere, però, francamente, mi sembra più una cosa dei giornali. Guardi, la maestra di mio figlio ha 60 anni; durante l’intervallo, se non possono portare i bambini in cortile, sono obbligati dalla legge 626 a tenerli in classe. A un certo punto le insegnanti capiscono che, se fanno usare le playstation nell’intervallo si ammazzano di meno. E allora glielo fanno usare, ma subito spunta una mamma, che dice: “Aaaahhhh, la DS!?!?”. Così mi interpellano: “Lei cosa dice? Glielo facciamo usare o no?”. Ho risposto che a me il loro ragionamento era sembrato del tutto sensato. Le ricerche dicono che il tasso di conflittualità tra bambini si abbatte in presenza di schermi interattivi. È una logica di riduzione del danno. Cioè, non è che sia il massimo, però se l’alternativa è che si scannano… Insomma, alla fine, hanno preso questa salomonica decisione di usarlo un giorno sì e un giorno no. Comunque a me non risulta che questi giochi escludano gli altri: i bambini giocano comunque a basket, vedono comunque gli amici. Il problema casomai è che non hanno contesti di socializzazione. Io non sono credente, ma per fortuna che ci sono gli oratori, perché sennò non c’è niente. Comunque io li vedo nei campetti: giocano a calcio, a basket; la console la tengono nella cartella. Alla fine magari la tirano anche fuori, quando sono stanchi, però.
(a cura di Barbara Bertoncin)