Il fenomeno delle baby gang a Napoli

di Andrea Sola

In questo dibattito si fa un gran parlare della funzione salvifica della scuola e dell’educazione in genere che sarebbe l’unica soluzione per sradicare il problema, va detto che, se è certamente vero e quasi ovvio che questi ragazzini dovrebbero essere tolti dalla strada ed inseriti in strutture di carattere educativo, il limite di questa soluzione sta nel fatto che si dia per acquisito che sia sufficiente destinare maggiori risorse alla scuola o ad ad altre strutture già esistenti sul territorio che sarebbero di per sé  in grado di far fronte a questo compito.

Il problema specifico dei comportamenti devianti e a volte violenti e del ruolo di un intervento educativo solleva il problema generale di chi debba svolgerlo. Credo innanzitutto che bisogni affermare che il problema di questi ragazzi e del loro disagio non possa essere affrontato separatamente da quello più generale del funzionamento della scuola e degli altri agenti educativi oggi esistenti, per la ragione fondamentale che questo disagio diciamo ‘estremo’ è solo la punta emergente dal punto di vista dell’ordine sociale, di un disagio che coinvolge tutti i ragazzi in età scolare in tutte le zone del paese. Questo è evidente non solo perché fenomeni di comportamenti violenti sono presenti in ogni parte del paese, senza distinzione di regione o di ceto sociale, ma anche e sopratutto perché la sofferenza dei giovani per la propria condizione si manifesta in una serie infinita di insofferenze esteriori e disturbi interni che sono tutti qualitativamente dello stesso genere: il conflitto con il mondo adulto. Se vogliamo fare delle distinzioni le dobbiamo individuare nel diverso rapporto che sussiste tra i figli e le loro famiglie: vi sono contesti in cui la famiglia cerca di prendersi cura dei figli (in forme tra l’altro quasi sempre sbagliate, inadeguate o insufficienti), e contesti in cui la famiglia è del tutto assente (che sono quelli di maggiore degrado economico e culturale). Quello di cui bisogna prendere atto è che non esiste più un modello educativo che sia proponibile come vera soluzione del disagio e che i cosiddetti agenti educativi classici, la famiglia e la scuola, non sono più adeguati a sostenere questo ruolo.

Le basi di credibilità della società che sosteneva l’istituzione familiare sono in una condizione di crisi irreversibile e stanno quindi perdendo ogni forza di persuasione. Questa crisi riguarda il senso di incertezza ormai largamente diffuso negli adulti sul destino complessivo del mondo e sul futuro che ci attende, nonché sulla solidità stessa del sistema economico. Siamo poi in presenza di un progressivo disgregarsi della unità ed omogeneità della famiglia: la sempre più frequente diversità di posizioni dei singoli genitori nei confronti dei figli: la emancipazione femminile è un fattore che ha messo le madri in grado di sviluppare una autonomia di giudizio che le pone spesso in contrasto con le posizioni maschili facendo si che sia molto frequente una disparità di posizioni nei confronti dei figli; la frequenza ormai estesa delle coppie separate produce automaticamente una moltiplicazione dei poli di riferimento che il bambino ha di fronte come referenti legittimi. Così le famiglie che provano a prendersi cura dei figli in realtà non sanno fare altro che delegare questo ruolo ad altri, non essendo più in grado di sostenere un rapporto vero e coinvolgente con i figli.

La scuola è ormai una istituzione informe che cerca ossessivamente di ritrovare un senso con i soli mezzi di una frammentazione progressiva dei saperi e degli strumenti valutativi. La figura dell’insegnante ha perso la possibilità di riconoscersi in un ruolo definito venendo così a perdere le motivazioni di fondo che sostengono il suo impegno. Gli insegnanti sono le prime vittime di questa crisi di legittimità poiché non essendo stati formati ad una cultura dell’accoglienza e del dialogo si trovano ad avere sempre meno risorse per conservare un ruolo credibile per il loro lavoro. Essi sono inoltre, in quanto dispensatori di saperi, in una posizione di debolezza di fronte alla diffusione degli strumenti conoscitivi e delle nuove forme di condivisione globale e della rapidità della evoluzione dei saperi. Tutto ciò produce una diffusa frustrazione personale, spesso accompagnata da un sordo risentimento nei confronti dei giovani (i dati sui disagi psichici degli insegnati sono impressionati, anche se non vengono divulgati dai sindacati per ragioni di difesa del prestigio della categoria). La scuola ha perso quindi ogni capacità di controllo sulle modalità di relazionarsi degli insegnanti con gli allievi e lasciando a ciascuno la responsabilità di gestirsi con gli strumenti che ha a disposizione. Tutto viene delegato ai singoli, lasciandoli soli sia nel bene che nel male: possono così avvenire terribili violenze da parte di alcuni insegnanti nei confronti di bambini anche piccolissimi senza che la scuola si in grado di né di prevenirle né di intervenire per fermarle (pensiamo a quanto sia grottesco che si debba ricorrere all telecamere per sorvegliare cosa sta succedendo nelle classi), e, dal lato opposto, lasciare che insegnanti preparati e consapevoli agiscano in totale assenza di alcun riconoscimento delle loro capacità e spesso in aperto contrasto con la mediocrità dell’insegnamento ‘normale’. La ‘inattualità’  che assumono oggi quelle iniziative che esprimono capacità e valore di una parte degli insegnanti di far proprio un atteggiamento di accoglienza e di dialogo reali fa assumere ai pochi insegnanti che le conducono un carattere ‘eroico’, in quanto, collocandosi all’interno di una istituzione che risponde a logiche che sono del tutto divergenti con questi propositi, devono affrontare un impegno ed una capacità di resistenza ai condizionamenti del tutto fuori dal comune. Credo sia necessario sottolineare questo aspetto della discrepanza di questi atteggiamenti positivi rispetto alla logica che sovrintende al sistema scolastico, piuttosto che enfatizzare le esperienze divergenti; e questo per la buona ragione che una critica per essere costruttiva dovrebbe deve saper individuare le cause reali degli problemi e non semplificarne la complessità accontentandosi di aggrapparsi a scorciatoie che non hanno un futuro credibile. La scuola oggi galleggia in una mediocrità generale che produce un disagio generalizzato che ha come risultato estremo, ma tutt’altro che episodico, la espulsione degli allievi più deboli (che sono, non dimentichiamolo, proprio gli elementi che si vorrebbero recuperare con la scuola!). Per queste ragioni pensare di rivolgersi alla scuola per affrontare le degenerazioni violente dei comportamenti attuali è sbagliato e velleitario.

Per ipotizzare un intervento positivo ed efficace si dovrebbe quindi affrontare l’aspetto delle formazione di un personale non soltanto preparato professionalmente a sostenere relazioni basate sull’accoglienza e il dialogo ma anche dotato di strumenti adeguati a proporre e quindi organizzare  progetti aderenti ai loro bisogni primari che sono di natura culturale e pratica. Innanzitutto mettere al centro di un dialogo la loro sensibilità per i problemi affettivi, per le loro ‘politiche’ dell’amicizia e dell’amore, per i loro sentimenti nei confronti dei genitori, per mettere in discussione il valore della genitorialità (e magari provare a mettere a freno ai matrimoni tra giovanissimi e la prolificità sconsiderata ancora diffusissima): cominciare a far uscire dall’ombra un inconscio pieno di incubi di sopraffazione e disamore, cercando di farli riappropriare di qualche forma di fiducia in se stessi attraverso la vicinanza di figure adulte su cui innescare un trasfert positivo. Perché ciò possa accadere, come ci dovrebbero aver insegnato cent’anni di pensiero psicoanalitico, bisogna che l’adulto sia portatore di valori credibili che, in questo caso, non possono che essere dei saperi utili: se l’adulto non può dimostrare di avere qualcosa di concretamente utile per il loro futuro non potrà mai acquistare credibilità ai loro occhi. Se non si immaginano dei modi di impiego che siano efficaci nell’immediato ed organizzati sistematicamente e con prospettive sicure di continuità, per questi ragazzi niente potrà succedere. Anche solo riuscire a mettere in piedi dei progetti-pilota che coinvolgano piccoli numeri ma che diano risultati concreti (perlomeno sul piano della formazione anche se non direttamente della creazione di diretta di posti di lavoro) sarebbe un passo importantissimo perché servirebbe da modello, da punto di riferimento, per sviluppare interventi di più largo respiro. Il problema è che per impostare degli interventi che abbiano le potenzialità di costruire soluzioni di vita concretamente diverse e non gli usuali palliativi ad uso propagandistico (che sappiamo si ridurrebbero a gran tornei di calcetto o attività di carattere ludico/artistico), bisognerebbe individuare per prima cosa un ‘centro pensante’ che progetti e coordini gli interventi e che poi pianifichi i singoli interventi con mezzi adeguati e con personale formato allo scopo. A sovrintendere a queste sperimentazioni dovrebbe essere una struttura che dia garanzie di qualità e competenza ma anche di solidità e continuità delle risorse; ciò permetterebbe a queste prime iniziative  di svolgere anche un ruolo di giuda e di stimolo per l’espandersi di questi interventi, sottraendoli gradualmente alla attuale giungla che domina il settore (in cui ogni soggetto, anche se portatore di esperienze di valore, è arroccato nella difesa delle proprie  posizioni e quindi fondamentalmente disinteressato ad aprirsi alla condivisione delle proprie esperienze).

Un dibattito serio basato su questi presupposti mi sembra, allo stato delle cose presenti, purtroppo inesistente (come è stato bene espresso di recente in un intervento su Napolimonitor, a cui rimando http://napolimonitor.it/baby-gang-silenzio-degli-educatori-e-dei-ragazzi-strada/#respond)