I maestri della educazione alla libertà: una raccolta di materiali

Nella categoria “I MAESTRI” gli autori qui presentati sono scelti solo in base alla disponibilità di pubblicazioni on line, di materiali video e di interventi che presentino sinteticamente gli autori; non sono quindi un elenco ragionato di tutti gli autori che rientrano nel filone del pensiero libertario. Per trovare i post corrispondenti inserite il nome nella finestra “cerca nel sito”.

Marcello Bernardi, Lamberto Borghi, Albert Camus, Aldo Capitini, Emma Castelnuovo, Bruno Ciari, Ferdinand Deligny, Danilo Dolci, Adolphe Ferriere, Paulo Freire, Howard Gardner, William Godwin, John Holt, Ivan Illich, Mario Lodi, Alberto Manzi, Carla Melazzini, Lorenzo Milani, Alice Miller, Tsunesaburo Makiguchi, Maria Montessori, Pedro Garcia Oliva, Janusz Korczak, Petr Kropotkin, Alexander Neill, Giuseppe Pontremoli, Ka­tha­ri­na Ru­tsch­ky, René Schérer, Leone Tolstoj, Gianfranco Zavalloni, Margherita Zoebeli.

Il pensiero di Tsunesaburo Makiguchi. di Rossana Pensabene

Il pensiero di Tsunesaburo Makiguchi: una pedagogia dei valori per la cura dell’ambiente e per una cultura di pace

di Rossana Pensabene

Pubblicato sulla Rivista Scuola Iad, n.13\14 2017

Questo articolo ha lo scopo di illustrare il pensiero rivoluzionario del pedagogista giapponese Tsunesaburo Makiguchi, ancora poco conosciuto nel mondo occidentale e di evidenziarne la  straordinaria attualità nel momento storico attuale in cui la scuola attraversa una globale crisi di senso. 

Una lettera di Albert Camus al suo maestro elementare

Un ricordo di Albert Camus sul suo maestro elementare

È il 19 novembre 1957 quando Albert Camus scrive una straordinaria lettera al suo maestro elementare, Louis Germain. Camus ha da poco vinto il Premio Nobel per la Letteratura e sente il bisogno di esprimere tutta la sua gratitudine al maestro che seppe prendersi cura di lui.

Paul Goodman, Educazione e rivoluzione. Introduzione di V. Giacopini

Paul Goodman, Educazione e rivoluzione. Per diventare persone, Edizioni dell’Asino www.gliasini.it .Riportiamo la prefazione di Vittorio Giacopini 

“Nella nostra società bambini intelligenti e vivaci, potenzialmente capaci di conoscenza, di nobili ideali, sforzi onesti […] vengono trasformati in bipedi inutili e cinici o in giovani per bene chiusi in trappola o precocemente rinunciatari, sia dentro che fuori il sistema organizzato. Il mio scopo è semplicemente questo: dimostrare come oggigiorno sia disperatamente difficile per un bambino normale crescere fino a farsi uomo perché il nostro attuale sistema organizzato non richiede uomini; sono pericolosi, non convengono […].” (Paul Goodman)

Una recensione di Claudio Giunta al libro di Fernand Deligny, I vagabondi efficaci e altri scritti, a cura di Luigi Monti, Edizioni dell’Asino 2020.

Alle scuole elementari avevo in classe un bambino problematico. Un po’ più grosso degli altri, impacciato nei movimenti, rissoso, lentissimo nell’imparare. Erano anni in cui non ci si curava molto dei bambini problematici: stavano lì. Massimo stette lì un paio d’anni, tra la terza e la quarta, poi sparì, finì da qualche altra parte, non saprei dire dove, e non ricordo che nessuno se lo chiese, tolse semplicemente l’incomodo, e la vita in classe, rimosso quell’ostacolo, continuò più spedita di prima. In quel libro bellissimo che è Nati due volte, Pontiggia racconta dell’atmosfera di solidarietà tra i compagni di scuola che si crea attorno a una ragazza ‘che soffre di un disturbo’ (la ragazza non riesce ad articolare bene le parole, non le esce la voce).

Un testo di Alice Miller

I consigli che si danno per l’educazione dei bambini rivelano più o meno chiaramente la presenza di molteplici bisogni dell’adulto, di natura molto varia, il cui soddisfacimento non solo non è salutare per la crescita vitale del bambino, ma addirittura la ostacola. Questo vale anche per i casi in cui l’adulto è onestamente convinto di agire nell’interesse del bambino.

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LA CATENA INVISIBILE DEL MALE, Pe­da­go­gia Ne­ra. Fon­ti sto­ri­che del­l’e­du­ca­zio­ne ci­vi­le (a cu­ra di Pao­lo Per­ti­ca­ri) di Ka­tha­ri­na Ru­tsch­ky

UNA CITTÀ n. 230 / 2016 aprile

Intervista a Paolo Perticari
realizzata da Barbara Bertoncin

“Rimasto ignorato dal pubblico italiano e mondiale per quasi quarant’anni il libro della Rutschky documenta una storia scientifica e umana che si sussegue dal XVIII secolo fino ai giorni nostri sotto lo sguardo silente, attento e misterioso dei bambini nelle case civili dell’Europa e del mondo. Che cosa si nasconde dietro tutto ciò? Probabilmente il più importante libro, il più rilevante movimento del pensiero sui bambini, sulla violenza, sull’educazione, sul potere e sul male del XX secolo.” (Dalla Introduzione di Paolo Perticari)

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Pagine da: “I bambini felici di Summerhill” di Alexander Neill

Pagine da: “I bambini felici di Summerhill” di Alexander Neill

Come si presenta Summerhill? Ecco: per dirne una, le lezioni sono facoltative. I bambini possono frequentarle o farne a meno, anche per anni se così desiderano.

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LA RIVOLUZIONE COI GESSETTI, una intervista su Alberto Manzi. Da “Una città” n.216\2014

UNA CITTÀ n. 216 / 2014 ottobre

Intervista a Alessandra Falconi
realizzata da Thomas Casadei

LA RIVOLUZIONE COI GESSETTI
La storia straordinaria e per lo più sconosciuta di Alberto Manzi, non solo autore e conduttore della famosa trasmissione “Non è mai troppo tardi” che diede speranza agli analfabeti e semianalfabeti italiani, ma anche maestro di strada in Sudamerica, scrittore di racconti tradotti in tutto il mondo, sindaco… Educare a pensare, centro del suo impegno educativo; la lungimiranza sulla necessità di favorire l’integrazione degli immigrati. Intervista ad Alessandra Falconi.
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Il diritto di apprendere liberamente, di John Holt

I ragazzi dovrebbero avere il diritto di regolare e gestire il loro apprendimento; vale a dire, decidere cosa imparare, quando, dove, come, quanto, con quali tempi e aiuto.

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Alice Miller, letture da “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé”

Estratto del libro ‘Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé’ (Riscrittura e continuazione del 1982, pubblicata in Italia nel 1996)
di Alice Miller (Leopoli, 12 gennaio 1923 – Saint-Rémy-de-Provence, 14 aprile 2010)

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Danilo Dolci nel ricordo dei figli – da “Una città”

intervista ai figli di Danilo Dolci

da Una Città, rivista

TROVATELLI, FIGLI DI CARCERATI, I FAMOSI “CUGINI”
Un padre rigoroso, schietto, lavoratore instancabile, ma anche capace di giocare e divertirsi come un bambino con i figli; le passeggiate al mare all’alba, le gite in macchina per vedere come procedeva la diga; poi i digiuni, le manifestazioni, ma anche la paura che gli succedesse qualcosa; La “maieutica reciproca”, quella passione per le domande, che alimentava, anche nei figli, una curiosità inesauribile per la vita. Il ricordo di Danilo Dolci dei figli Libera, Amico, Chiara ed En.

Li­be­ra, Ami­co, Chia­ra ed En so­no fi­gli di Da­ni­lo Dol­ci e vi­vo­no a Pa­ler­mo.

La vo­stra era una fa­mi­glia nu­me­ro­sa già pri­ma che na­sce­ste…
Ami­co. La mam­ma ha in­con­tra­to pa­pà che già era ve­do­va con cin­que fi­gli. Era an­da­ta con la so­rel­la a la­vo­ra­re su al “Bor­go” co­me vo­lon­ta­ria. Lei fi­ni­va di sti­ra­re le co­se per i bam­bi­ni mol­to tar­di e pa­pà in­ve­ce si al­za­va pre­stis­si­mo per scri­ve­re, leg­ge­re, ec­ce­te­ra, co­sì fi­ni­va che a vol­te si in­con­tra­va­no. Si so­no co­no­sciu­ti, sti­ma­ti, in­na­mo­ra­ti e spo­sa­ti. Li­be­ra è sta­ta la pri­ma bam­bi­na do­po i cin­que fi­gli di Vin­cen­zi­na, ed è sta­ta una fe­sta per tut­to il pae­se. Beh, non pro­prio per tut­ti… il pre­te non li vo­le­va nean­che spo­sa­re!
Per­ché? Ma per­ché i rap­por­ti con una cer­ta Chie­sa era­no mol­to dif­fi­ci­li: era un mon­do po­co evan­ge­li­co e mol­to col­lu­so con la ma­fia; que­ste co­se si sa­pe­va­no e so­no or­mai ap­pu­ra­te.
Tra i pri­mi ri­cor­di del­la mia in­fan­zia c’è que­st’or­ti­cel­lo che ave­va­mo e che si an­naf­fia­va di se­ra. Ec­co, a par­te le con­ver­sa­zio­ni, la lu­na che ci te­ne­va com­pa­gnia, c’e­ra in sot­to­fon­do la mu­si­ca di Ba­ch. In ca­sa c’e­ra­no que­sti vec­chi gram­mo­fo­ni con i di­schi che du­ra­va­no non più di sei, set­te mi­nu­ti per la­to, per cui o Tu­ri, o Lu­cia­no, in­som­ma un bam­bi­no do­ve­va sta­re di tur­no e da­re la mol­la al gi­ra­di­schi. Que­sto con­tra­sto tra la mi­se­ria e la poe­sia, la mu­si­ca, l’ho sem­pre tro­va­to af­fa­sci­nan­te. Per me è sem­pre sta­ta un’im­ma­gi­ne bel­lis­si­ma. Ci si fa­ce­va for­za an­che gra­zie a que­ste co­se.
Poi ri­cor­do che la gen­te era sem­pre lie­ta, con­ten­ta di par­te­ci­pa­re al­le ma­ni­fe­sta­zio­ni, an­che se al­l’o­ri­gi­ne c’e­ra­no pro­ble­mi gra­vi: il bi­so­gno di scuo­le nuo­ve, l’o­spe­da­le, la fo­gna­tu­ra; ogni vol­ta, in quel­le oc­ca­sio­ni, ri­ve­de­va­mo gen­te fan­ta­sti­ca: Lu­cio Lom­bar­do Ra­di­ce, Car­lo Le­vi, Er­ne­sto Trec­ca­ni, as­sie­me a gen­te sem­pli­cis­si­ma e noi bam­bi­ni che ma­ga­ri, as­sie­me a Fran­co Ala­sio, ave­va­mo aiu­ta­to a di­pin­ge­re i car­tel­lo­ni con le ri­ven­di­ca­zio­ni, era­va­mo con­ten­ti di sta­re as­sie­me a gen­te so­li­da­le e al con­tem­po gio­via­le.
Mi ri­cor­do l’at­mo­sfe­ra qua­si di fe­sta e che do­po chie­de­va­mo con­to sia a Fran­co che a pa­pà: “Al­lo­ra, è ser­vi­to?”. Al tem­po del­la di­ga cen­ti­na­ia e cen­ti­na­ia di per­so­ne ave­va­no bloc­ca­to il can­tie­re per evi­ta­re ci fos­se­ro in­fil­tra­zio­ni, col­lu­sio­ni con la ma­fia, e il sin­da­ca­to, con die­tro il cen­tro stu­di, in­ter­rom­pe­va i la­vo­ri; per noi an­che que­sto era una fe­sta: an­da­re as­sie­me agli ope­rai la se­ra tar­di, dor­mi­re un po’ co­me si po­te­va, in qual­che bran­di­na. An­che fa­re i di­giu­ni. For­se chia­mar­li di­giu­ni è un po’ pre­sun­tuo­so, ma per bam­bi­ni di set­te, ot­to an­ni non man­gia­re a pran­zo per so­li­da­rie­tà era im­pe­gna­ti­vo. Ri­cor­do tan­tis­si­mi ope­rai, tan­tis­si­mi an­zia­ni che re­si­ste­va­no, lo­ro di­giu­na­va­no per quat­tro, cin­que gior­ni; e que­sto ha con­sen­ti­to di por­ta­re avan­ti i la­vo­ri del­la di­ga in ma­nie­ra as­so­lu­ta­men­te pu­li­ta.
Ri­cor­do che pa­pà ci chie­de­va se im­ma­gi­na­va­mo già il la­go in quel­la par­te di cam­pa­gna do­ve tal­vol­ta an­da­va­mo a pas­seg­gia­re e io den­tro di me pen­sa­vo: “Ce ne vuo­le di fan­ta­sia per ve­de­re un la­go qua!”, era emo­zio­nan­te ve­der cre­sce­re la di­ga con que­sti ca­mion­ci­ni che in lon­ta­nan­za sem­bra­va­no gio­cat­to­li a mo­vi­men­ta­re la ter­ra. Fa­ce­va­mo an­che del­le gi­te in mac­chi­na per ve­de­re quan­do si co­min­cia­va­no a chiu­de­re le sa­ra­ci­ne­sche e il ri­ga­gno­lo di­ven­ta­va un fiu­mi­cel­lo, e poi si al­za­va il li­vel­lo di que­sta gran­de poz­zan­ghe­ra che via via di­ven­ta­va un la­go e som­mer­ge­va le abi­ta­zio­ni. Quel ri­sul­ta­to, co­sì de­si­de­ra­to, ha con­tri­bui­to a crea­re in tut­ti noi la con­vin­zio­ne che cia­scu­no può, da so­lo o in­sie­me ad al­tri, pen­sa­re, in­ven­ta­re, or­ga­niz­za­re, e poi ve­de­re rea­liz­za­te cer­te co­se. Per me è qua­si una ga­ran­zia: se si vuo­le, se si cer­ca­no le giu­ste stra­de e le giu­ste mo­da­li­tà, il suc­ces­so è as­si­cu­ra­to.
Li­be­ra, tu sei la pri­mo­ge­ni­ta.
Li­be­ra. So­no la pri­ma del se­con­do round, di­cia­mo co­sì. De­vo an­che su­bi­to di­re che que­sto es­se­re la pri­ma di cin­que (e poi di set­te) fi­gli, se da un la­to mi ha re­spon­sa­bi­liz­za­to, dal­l’al­tro mi ha mol­to gra­ti­fi­ca­to, per­ché so­prat­tut­to pa­pà -la mam­ma era un po­chi­no più ri­ser­va­ta- non per­de­va oc­ca­sio­ne per far­mi sen­ti­re im­por­tan­te. Ec­co, que­sta sua at­ten­zio­ne, que­sto pren­der­si cu­ra dei più pic­co­li, di chi è più fra­gi­le mi è ri­ma­sto nel­la vi­ta; non a ca­so ho scel­to di fa­re l’in­se­gnan­te del­la scuo­la d’in­fan­zia.
Co­mun­que è ve­ro: sia­mo na­ti in una fa­mi­glia nu­me­ro­sa e io sin­ce­ra­men­te mi so­no sen­ti­ta ac­col­ta da un’af­fet­ti­vi­tà in­cre­di­bi­le che an­co­ra og­gi mi por­to den­tro. Io ero la pri­ma fem­mi­nuc­cia. Ma­schi era­no i fi­gli del­la mam­ma, e ma­schi era­no i ra­gaz­zi che mio pa­dre ave­va rac­col­to, fi­gli di car­ce­ra­ti, ecc., i fa­mo­si “cu­gi­ni”. Poi c’e­ra­no le zie, mol­to le­ga­te al­la mam­ma, so­prat­tut­to per la sua vi­cen­da: ve­do­va gio­va­nis­si­ma e con cin­que fi­gli.
Che ti­po di pa­dre era Da­ni­lo Dol­ci?
Li­be­ra. Era un pa­dre a vol­te se­ve­ro, o me­glio ri­go­ro­so, e mol­to fran­co. Per esem­pio, a 11 an­ni -non lo di­men­ti­che­rò mai- mi dis­se: “Ma Li­be­ra, se con­ti­nui a com­por­tar­ti co­sì, c’è il ri­schio che da gran­de di­ven­ti fa­sci­sta”. A 11 an­ni!
Per­ché co­sa ave­vi fat­to?
Li­be­ra. Per­ché vo­le­vo fa­re co­me fa­ce­va­no le mie com­pa­gnet­te, in­som­ma mi sta­vo com­por­tan­do co­me le pe­co­re, sen­za pen­sa­re con la mia te­sta, au­to­no­ma­men­te, fa­cen­do­mi tra­sci­na­re. È sta­to un col­po, pe­rò poi quel­la fra­se me la so­no di­ge­ri­ta, rie­la­bo­ra­ta, e ne ho ca­pi­to il sen­so. Ec­co, pa­pà pre­fe­ri­va es­se­re di­ret­to, chia­ro, dir­ti le co­se co­me le sen­ti­va.
En in­ve­ce è l’ul­ti­mo na­to.
Li­be­ra. Sì, io so­no la pri­ma, poi Cie­lo, Ami­co, Chia­ra, Da­nie­la, e in­fi­ne Se­re­no ed En, che so­no fi­gli di Elè­na.
Ave­te tut­ti no­mi mol­to par­ti­co­la­ri.
En. Tut­ti i no­stri no­mi so­no bel­lis­si­mi. Nel mio c’è pro­prio la cu­rio­si­tà di pa­pà. In quel pe­rio­do, la mam­ma e il pa­pà era­no in un’i­so­lot­to sve­de­se che si chia­ma Go­tland e pa­pà, con la sua estre­ma cu­rio­si­tà, chie­de­va i no­mi del­le co­se. A un cer­to pun­to ha vi­sto que­sto al­be­ro di gi­ne­pro e ne ha chie­sto il no­me. La mam­ma ha det­to: “En”. Lui è ri­ma­sto col­pi­to, gli è pia­ciu­to quel no­me, co­sì cor­to, for­te; vo­le­va sa­per­ne di più. En si­gni­fi­ca “uno” e al­lo­ra lui lo col­le­ga­va a qual­co­sa di in­te­ro, che non era rot­to e co­sì ha det­to: “Mi pia­ce, sa­reb­be un bel no­me”; un’i­dea su­bi­to con­di­vi­sa dal­la mam­ma.
Pa­pà mi ha tra­smes­so una cu­rio­si­tà per la vi­ta im­men­sa. Il suo era co­me un con­ti­nuo in­naf­fia­re at­tra­ver­so le do­man­de, ec­co la ma­ieu­ti­ca; que­sto poi ti aiu­ta­va a cer­ca­re in te stes­so ma an­che fuo­ri. Da pic­co­lo da­vo tut­to que­sto un po’ per scon­ta­to, poi con gli an­ni mi so­no ac­cor­to che non fun­zio­na co­sì; an­che an­dan­do a scuo­la mi so­no tro­va­to a pen­sa­re che que­sto in­ve­ce è il me­to­do che bi­so­gna ap­pli­ca­re sem­pre: non si do­vreb­be­ro im­por­re del­le in­for­ma­zio­ni, ben­sì ascol­ta­re il bi­so­gno che si ha di fron­te, per poi ve­de­re as­sie­me che co­sa si può sco­pri­re.
Era un la­vo­ra­to­re in­stan­ca­bi­le.
Chia­ra. Si vi­ve­va tut­to in ma­nie­ra in­ten­sa con pa­pà, an­che il rap­por­to con il la­vo­ro: lui si al­za­va al mat­ti­no pre­stis­si­mo. È sta­to un gran­dis­si­mo esem­pio per noi, an­che se io ho avu­to spes­so pau­ra per lui. Sa­pe­va­mo che c’e­ra una cer­ta do­se di pe­ri­co­lo, era­va­mo sta­ti pre­pa­ra­ti: non po­te­va­mo se­gui­re chiun­que ci vo­les­se in­vi­ta­re; il nu­me­ro del te­le­fo­no di ca­sa era se­gre­to, non lo da­va­mo e noi stes­si lo usa­va­mo so­lo per emer­gen­za.
An­che se era già sta­to mi­nac­cia­to, l’uf­fi­cio di pa­pà era sem­pre aper­to a tut­ti e chiun­que po­te­va en­tra­re, . Sic­co­me io an­da­vo a scuo­la il po­me­rig­gio, la mat­ti­na gli por­ta­vo la co­la­zio­ne. Pa­pà usci­va al­le quat­tro, a vol­te an­che pri­ma, e al­lo­ra, so­prat­tut­to d’in­ver­no, do­po qual­che ora ma­ga­ri ave­va bi­so­gno di qual­co­sa di cal­do. Al­lo­ra, ver­so le ot­to gli por­ta­vo mez­zo fi­lon­ci­no, un pez­zet­ti­no di pa­ne fre­sco e un ther­mos con un po’ di caf­fe­lat­te, e ogni vol­ta ero ter­ro­riz­za­ta per­ché le por­te era­no aper­te… Ave­va­mo vi­sto que­sti film sul­la ma­fia e mi era­no ri­ma­ste im­pres­se quel­le im­ma­gi­ni; co­sì quan­do en­tra­vo di­ce­vo: “Pa­pà? Pa­pà?”, e lui: “So­no qui amo­riz­za, so­no qui”. Quan­do lo sen­ti­vo po­te­vo ti­ra­re il fia­to, pen­sa­vo: “È an­da­ta be­ne an­che og­gi”.
È una co­sa che non gli ho mai det­to e che non ho rac­con­ta­to a nes­su­no, ma ero ve­ra­men­te ter­ro­riz­za­ta. Pen­sa­vo di es­se­re io trop­po ap­pren­si­va, poi mi ver­go­gna­vo, e co­mun­que non po­te­vo dir­lo, per­ché era una co­sa ne­ces­sa­ria, era giu­sto far­lo.
Dal­l’al­tra par­te fa­ce­va­mo tan­tis­si­me co­se bel­le as­sie­me: an­da­va­mo al ma­re a fa­re le pas­seg­gia­te, sul­le mon­ta­gne di Al­ca­mo a ve­de­re i ci­cla­mi­ni e i fio­ri che al­tri bam­bi­ni non ave­va­no la pos­si­bi­li­tà di ve­de­re. Pen­sa che a Par­ti­ni­co, che di­sta dal ma­re cir­ca ot­to chi­lo­me­tri, i com­pa­gni di clas­se non ave­va­no mai vi­sto il ma­re, in­ve­ce noi ci an­da­va­mo re­go­lar­men­te. A ca­sa di pa­pà non esi­ste­va la pa­ro­la va­can­za, per­ché era un tut­t’u­no: si la­vo­ra­va in­ten­sa­men­te, si fa­ce­va­no le ore di stu­dio, an­che a Na­ta­le e a Ca­po­dan­no e poi pe­rò si an­da­va al ma­re. Si stu­dia­va an­che la do­me­ni­ca. Pa­pà di­ce­va sem­pre: “I fi­gli dei con­ta­di­ni non fan­no va­can­za”.
Li­be­ra. Da un cer­to mo­men­to in poi, io ave­vo co­min­cia­to ad an­da­re con lui al­le quat­tro di mat­ti­na. Il pen­sie­ro di sta­re con pa­pà per me era bel­lis­si­mo. Lun­go il per­cor­so guar­da­va­mo le stel­le, pren­de­va­mo i gior­na­li, che a quel­l’o­ra ar­ri­va­va­no da Pa­ler­mo, lui mi rac­con­ta­va del­le sue co­se, io del­le mie… Poi lui la­vo­ra­va e io stu­dia­vo. A me pia­ce­va mol­tis­si­mo scri­ve­re, ero ap­pas­sio­na­ta dei clas­si­ci e lui mi ha in­se­gna­to tan­te co­se, in­fat­ti al li­ceo nei te­mi pren­de­vo die­ci. E tut­ti a di­re: “Hai un do­no di na­tu­ra, l’hai ere­di­ta­to da tuo pa­dre”. E io tra me e me a pen­sa­re: “Ma qua­le do­no?! Me lo so­no su­da­to!”. Per­ché die­tro c’e­ra tan­to la­vo­ro fat­to con pa­pà, la­vo­ro di scrit­tu­ra, di guar­da­re in­sie­me il fra­seg­gio, ma an­che di stu­dio dei te­sti. La mia in­se­gnan­te di Let­te­re ad esem­pio spie­ga­va Dan­te in una ma­nie­ra che me lo ha re­so in­sop­por­ta­bi­le. L’ho ri­sco­per­to con pa­pà. Lui mi ci­ta­va a me­mo­ria dei ver­si, fa­cen­do il vo­cio­ne quan­do im­per­so­na­va Cer­be­ro… Era mol­to gio­che­rel­lo­ne. I li­bri che ab­bia­mo let­to, nel­la no­stra ado­le­scen­za e fan­ciul­lez­za, non li ab­bia­mo mai let­ti per con­to del­la scuo­la, an­zi. La scuo­la un po­co ci li­mi­ta­va. Lui, co­me di­ce­va be­ne En, ci ha pro­prio in­se­gna­to la cu­rio­si­tà.
Vi trat­ta­va da gran­di.
Chia­ra. Da pic­co­li mi ri­cor­do che ognu­no ave­va una pro­pria scri­va­nia; io e Da­nie­la di­vi­de­va­mo la stan­za e Li­be­ra ave­va la stan­za da so­la. Ci di­ce­va: “Ades­so ave­te del tem­po a di­spo­si­zio­ne, ognu­no lo usi per sé, per pen­sa­re”. Io ero mol­to pic­co­la e mi di­ce­vo: “Be­ne, ades­so de­vo pen­sa­re, ma a co­sa de­vo pen­sa­re?!”.
An­che nel­la quo­ti­dia­ni­tà, ognu­no ave­va un pro­prio com­pi­to in ca­sa.
No­no­stan­te tut­ti gli im­pe­gni era mol­to pre­sen­te co­me pa­dre.
Chia­ra. Sì, e gio­ca­va mol­to con noi.
Li­be­ra. Pe­rò le re­go­le era­no chia­re. E non ve­ni­va­no nean­che det­te, ve­ni­va­no agi­te. An­che il fat­to che noi fos­si­mo ma­schi e fem­mi­ne non si­gni­fi­ca­va nien­te, ri­spet­to al fat­to che a tur­no la­va­va­mo i piat­ti, a tur­no ap­pa­rec­chia­va­mo, e ognu­no si fa­ce­va il pro­prio let­to. Non è che lui o la mam­ma ci di­ces­se: “Og­gi ri­fa­te il let­to”, o: “Og­gi la­vi i piat­ti”, era­no, co­me po­trei chia­mar­le, del­le re­go­le im­pli­ci­te che noi ave­va­mo ap­pre­so at­tra­ver­so il lo­ro esem­pio. Que­sto ov­via­men­te non si­gni­fi­ca che fos­si­mo fe­li­ci e con­ten­ti di la­va­re i piat­ti, so­prat­tut­to per 30-40 per­so­ne, as­so­lu­ta­men­te no! Pe­rò poi è di­ven­ta­to un ha­bi­tus, uno sti­le di vi­ta.
C’e­ra sem­pre que­sto “ri­go­re”, ma poi lui era il pri­mo che, per esem­pio, si met­te­va sot­to il ta­vo­lo e imi­ta­va il ca­ne, men­tre chie­de­va a me di imi­ta­re la muc­ca e a mia so­rel­la Chia­ra di imi­ta­re un’a­mi­ca no­stra che ve­ni­va dal­la Sve­zia. In­som­ma ci di­ver­ti­va­mo tan­to. An­che al ma­re, noi ab­bia­mo im­pa­ra­to su­bi­to a nuo­ta­re, al­lo­ra lui fa­ce­va da tram­po­li­no e ci fa­ce­va fa­re i tuf­fi… e poi ci rac­con­ta­va­mo le bar­zel­let­te, so­prat­tut­to Ami­co ne in­ven­ta­va… E poi la mu­si­ca: ne fa­ce­va­mo di tut­ti i co­lo­ri, bat­ten­do co­per­chi, sfre­gan­do grat­tu­gie, e lui era il pri­mo a di­ver­tir­si.
Chia­ra. Spes­so non c’e­ra per­ché viag­gia­va tan­tis­si­mo, ma quan­do c’e­ra era mol­to pre­sen­te. Quan­do ab­bia­mo co­min­cia­to a fa­re mu­si­ca, ve­ni­va a tut­te le le­zio­ni per­ché era in­te­res­sa­tis­si­mo. Pen­so che a que­sta co­sa ci te­nes­se in mo­do par­ti­co­la­re, che fa­ces­si­mo mu­si­ca. Ri­cor­do che al­le me­die, quan­do tor­na­vo da scuo­la, lo tro­va­vo che ri­po­sa­va un po­co pri­ma di ri­tor­na­re al la­vo­ro al cen­tro e al­lo­ra mi di­ce­va: “Suo­nia­mo in­sie­me”, e cer­te vol­te io mo­ri­vo di fa­me, pe­rò poi, cre­scen­do, ri­pen­san­do­ci mi so­no det­ta: “Ma chi glie­lo fa­ce­va fa­re di de­di­ca­re tem­po a una ra­gaz­zi­na prin­ci­pian­te con il suo vio­li­no?”.
Lui che stru­men­to suo­na­va?
Chia­ra. L’or­ga­no. Ave­va stu­dia­to con l’or­ga­ni­sta al Duo­mo di Mi­la­no. Lui ci te­ne­va tan­tis­si­mo a far mu­si­ca. Ri­cor­do che cer­te mat­ti­ne con la mam­ma an­da­va­mo a fa­re la spe­sa e pas­sa­va­mo da­van­ti a que­sta chie­sa do­ve pa­pà ave­va il per­mes­so di an­da­re ogni tan­to a suo­na­re l’or­ga­no… era im­pres­sio­nan­te sen­ti­re que­sto suo­no im­men­so. Era bra­vo, ave­va an­che una buo­na pri­ma vi­sta. D’al­tra par­te in qual­sia­si co­sa si ci­men­tas­se lo fa­ce­va con gran­de im­pe­gno. A un cer­to pun­to ci fu una riu­nio­ne fa­mi­lia­re in cui si pre­se la de­ci­sio­ne di com­pra­re un or­ga­no con due ta­stie­re, elet­tri­co, co­sì lui ogni do­me­ni­ca mat­ti­na ci sve­glia­va con “La fu­ga di Ba­ch”. Era bra­vo per­ché suo­na­va pro­prio con la pe­da­lie­ra… i ve­tri vi­bra­va­no tut­ti!
Ri­guar­do lo stu­dio, era esi­gen­te?
Ami­co. Già al­la scuo­la ele­men­ta­re io ho avu­to al­ti e bas­si. In pri­ma ele­men­ta­re ave­vo que­sta mae­stra, qua­si non­na, una chioc­cia a cui io ero af­fe­zio­na­tis­si­mo. Uno de­gli epi­so­di che me l’a­ve­va­no fat­ta am­mi­ra­re tan­tis­si­mo è che un gior­no io son­nec­chia­vo vi­si­bil­men­te, pro­prio con la te­sta ap­pog­gia­ta a un brac­cio; son­nec­chia­vo, ma qual­co­sa sen­ti­vo; a un cer­to pun­to uno dei miei com­pa­gni di­ce: “Mae­stra, mae­stra, Dol­ci dor­me”, e io a pen­sa­re che mi avreb­be rim­pro­ve­ra­to e lei, in­ve­ce: “Sa­rà stan­co, la­scia­te­lo dor­mi­re!”. In se­con­da e ter­za ele­men­ta­re dei mae­stri tre­men­di, uno si­cu­ra­men­te fa­sci­sta che ci pic­chia­va con la bac­chet­ta. Un gior­no l’ho det­to a pa­pà che non ci cre­de­va. Era­va­mo a me­tà an­ni Ses­san­ta: pa­pà ven­ne a scuo­la e non so co­sa si sia­no det­ti, pe­rò non è mai più suc­ces­so. In quar­ta e quin­ta ele­men­ta­re in­ve­ce ave­va­mo un mae­stro gio­va­nis­si­mo, gra­zie al qua­le al­l’im­prov­vi­so tut­ta la clas­se era di­ven­ta­ta bra­vis­si­ma.
Era un ra­gaz­zo mo­ti­va­to, ave­va fat­to la scel­ta del me­stie­re per pas­sio­ne; al­l’i­ni­zio l’a­ve­va­mo pre­so un po’ per un ton­to­lo­ne, uno a cui po­te­va­mo fa­re di tut­to per­ché non ci rim­pro­ve­ra­va né ci pic­chia­va. In­ve­ce era bra­vis­si­mo, ci ap­pas­sio­na­va. Usa­va il re­gi­stra­to­re per in­se­gnar­ci la sto­ria. Io un gior­no ero di­ven­ta­to Lui­gi XVI e c’e­ra la com­pa­gnet­ta che fa­ce­va la re­gi­na e poi ascol­ta­va­mo que­ste no­stre re­gi­stra­zio­ni e lui fa­ce­va il ga­lop­po del ca­val­lo e gli al­tri suo­ni, in­cre­di­bi­le! Quan­do ci in­ter­ro­ga­va sa­pe­va­mo tut­to. Poi ci fa­ce­va fa­re del­le co­suc­ce in le­gno, pian­ta­re i se­mi­ni e ci spie­ga­va co­me fun­zio­na­va­no le fo­glie; era un pic­co­lo la­bo­ra­to­rio.
Al­la scuo­la me­dia pun­to e a ca­po: non mi en­tu­sia­sma­va. Poi c’e­ra il fat­to del­l’e­so­ne­ro dal­la re­li­gio­ne. Pa­pà avreb­be do­vu­to ve­ni­re a scuo­la; fi­gu­ra­ti! An­da­va a la­vo­ra­re sem­pre più pre­sto, tor­na­va a ca­sa al­le un­di­ci per man­gia­re e ri­po­sa­re per tre quar­ti d’o­ra. Pen­sa che quan­do si al­za­va, si ri­fa­ce­va la bar­ba per­ché or­mai la pri­ma gior­na­ta era an­da­ta via, e tor­na­va in uf­fi­cio.
Un gior­no lo ve­do che spun­ta con il gior­na­le: “Do­v’è che de­vo an­da­re?”. “Pa­pà ti ac­com­pa­gno”. In­con­tria­mo que­sta per­so­na che gli dà le istru­zio­ni: “Ec­co il mo­du­lo, scri­va qua, Il­lu­stris­si­mo Si­gnor Pre­si­de…”. “Ma qua­le il­lu­stris­si­mo, ma chi lo co­no­sce?!?”. Io te­me­vo suc­ce­des­se un dram­ma, in­ve­ce poi con il pre­si­de so­no di­ven­ta­ti ami­cis­si­mi.
Li­be­ra. Con que­sto fat­to di non es­se­re bat­tez­za­ti, a scuo­la ave­va­mo un po’ di dif­fi­col­tà con i com­pa­gnet­ti, ma so­prat­tut­to con i ge­ni­to­ri dei com­pa­gnet­ti. Mi ri­cor­do che ero in se­con­da me­dia, se­du­ta in ban­co con la mia ami­ca del cuo­re -a quel­l’e­tà le co­se ti ri­man­go­no den­tro, in­de­le­bi­li- e a un cer­to pun­to bus­sa­no al­la por­ta ed en­tra la mam­ma di que­sta ami­chet­ta, che di­ce da­van­ti a tut­ta la clas­se: “Pro­fes­so­res­sa, non c’a mit­tis­se ’a Dol­ci vi­ci­no a mi fig­ghia, per­ché lo­ro so­no por­ci”, per­ché il non es­se­re cri­stia­ni al­l’e­po­ca era una di­sgra­zia. Cin­quan­t’an­ni fa, a Par­ti­ni­co era­no que­ste le co­se im­por­tan­ti del­la vi­ta: il bat­te­si­mo, il ma­tri­mo­nio. Puoi im­ma­gi­na­re…
Ami­co. Per tor­na­re al­lo stu­dio, a me non in­te­res­sa­va un gran­ché, pe­rò in que­sto sen­ti­vo qua­si la com­pli­ci­tà di pa­pà. Mi di­ce­va: “Vab­bé, un po’ di pa­zien­za, fai il mi­ni­mo in­di­spen­sa­bi­le co­sì poi sei li­be­ro”.
Quan­do in­ve­ce mi so­no iscrit­to al con­ser­va­to­rio, nean­che mi ac­cor­ge­vo di quan­to tem­po pas­sas­si a stu­dia­re e a eser­ci­tar­mi. Il flau­to era pro­prio una pas­sio­ne. Da lì in poi pa­pà non si è più pre­oc­cu­pa­to, an­zi mi di­ce­va: “Vab­bé, ma non stu­dia­re trop­po!”.
Co­mun­que è ve­ro, con lui non esi­ste­va do­me­ni­ca o va­can­za. Per di­re, po­te­va ca­pi­ta­re di an­da­re al ma­re an­che al­le quat­tro di mat­ti­na, per­ché pa­pà ave­va quel­la gior­na­ta li­be­ra e lo po­te­va fa­re.
Ami­co. Al­le quat­tro il ma­re è cal­mo e al­le no­ve, quan­do si fa­ce­va gros­so, si rien­tra­va.
Chia­ra. Ave­va­mo an­che il ri­to del pri­mo ba­gno, che si fa­ce­va a Pa­squa: qua­lun­que fos­se il tem­po si fa­ce­va il ba­gno, an­che in mez­zo ai ful­mi­ni.
Ami­co. Que­sto pia­ce­re di sta­re tut­ti al ma­re o in cam­pa­gna, ma an­che in mon­ta­gna, era qual­co­sa di estra­neo ai no­stri com­pa­gni di scuo­la; per lo­ro la cam­pa­gna era sol­tan­to il la­vo­ro, la fa­ti­ca… Ri­cor­do che al­le ele­men­ta­ri do­vet­ti an­ch’io fa­re il te­ma “Il la­vo­ro del mio bab­bo”. A par­te che io non ave­vo ca­pi­to cer­ti vo­ca­bo­li, co­me “so­cio­lo­go”, co­mun­que non sa­pe­vo de­scri­ve­re l’at­ti­vi­tà di pa­pà; in­vi­dia­vo il fi­glio del fa­le­gna­me, del ma­cel­la­io, del far­ma­ci­sta, e quin­di ero ar­ri­va­to al­la con­clu­sio­ne: “Pa­pà è uno che aiu­ta gli al­tri…”, ma que­sto è un me­stie­re?
Chia­ra. Da pa­pà ab­bia­mo im­pa­ra­to un gran­de ri­spet­to per i con­ta­di­ni e per tut­te le per­so­ne che la­vo­ra­no du­ra­men­te. Ri­cor­do que­sto pe­sca­to­re che era sta­to in Ala­ska e che ave­va una straor­di­na­ria co­no­scen­za del cie­lo e pa­pà gli ave­va fat­to or­ga­niz­za­re un se­mi­na­rio sul­le stel­le.
Ami­co. Per pa­pà quel­lo che con­ta­va era di fa­re be­ne le co­se; ci di­ce­va sem­pre: “Qual­sia­si co­sa, io so­no con voi”. Po­te­va con­di­vi­de­re qual­sia­si scel­ta, di stu­dio, di vi­ta, pur­ché fa­ces­si­mo le co­se al me­glio.
Chia­ra. Per lui con­ta­va­no l’im­pe­gno, la pre­pa­ra­zio­ne se­ria e ap­pro­fon­di­ta; il di­plo­ma, il pez­zo di car­ta era­no pro­prio una co­sa che non gli in­te­res­sa­va per nien­te.
Che rap­por­ti ave­va­te con i fi­gli del pri­mo ma­tri­mo­nio di vo­stra ma­dre?
Ami­co. Ri­cor­do uno dei pri­mi Na­ta­li in cui era­va­mo “so­lo” noi, cioè i die­ci fi­gli di mam­ma e le pri­me fi­dan­za­ti­ne (ov­via­men­te coi ri­spet­ti­vi ge­ni­to­ri al­tri­men­ti non sa­reb­be­ro ve­nu­te!); era­va­mo tren­ta­due a ta­vo­la.
Ave­va­mo un ot­ti­mo rap­por­to con tut­ti. A me da­va mol­to fa­sti­dio, quan­do an­da­va­mo al­le scuo­le ele­men­ta­ri, sen­tir di­re “fra­tel­la­stri”. Noi poi ave­va­mo tan­tis­si­mi cu­gi­ni che in se­gui­to chie­den­do al­la mam­ma: “Ma in che sen­so Ti­zio è cu­gi­no no­stro?”, ab­bia­mo sa­pu­to che in ef­fet­ti non era­no cu­gi­ni, ma tro­va­tel­li, or­fa­ni, che te­ne­va­no al “Bor­go”… Ri­guar­do ai fi­gli di Vin­cen­zi­na, io ho sem­pre avu­to un rap­por­to più per­so­na­le con il più gran­de, Tu­ri, e con il più pic­co­lo, Lu­cia­no; gli al­tri era­no in Sviz­ze­ra e in Ger­ma­nia; poi c’e­ra Pi­no, che è ve­nu­to a man­ca­re mol­to gio­va­ne. Con Lu­cia­no fac­cia­mo del­le co­se in­sie­me per il “Bor­go”, con gli al­tri ci sia­mo un po’ per­si di vi­sta. Ora pe­rò ab­bia­mo re­cu­pe­ra­to al­la Si­ci­lia En. Se­re­no è ri­ma­sto in Sve­zia.
Voi sie­te im­pe­gna­ti, so­prat­tut­to con il Cen­tro per lo Svi­lup­po Crea­ti­vo “Da­ni­lo Dol­ci”, a far co­no­sce­re quel suo me­to­do co­sì par­ti­co­la­re.
Ami­co. So­no pas­sa­ti se­di­ci an­ni da quan­do pa­pà non c’è più. Io ho avu­to un rap­por­to mol­to bel­lo con pa­pà, schiet­to, di­ret­to, sin­ce­ris­si­mo. Ci ha uni­to an­che la mu­si­ca, la poe­sia e in età adul­ta uno stret­to rap­por­to di col­la­bo­ra­zio­ne: ab­bia­mo fat­to mol­ti viag­gi in­sie­me per rac­co­glie­re fon­di, an­che al­l’e­ste­ro. Que­sto mi da­va la pro­por­zio­ne del suo im­pe­gno. Ab­bia­mo sem­pre sa­pu­to che nes­su­no di noi sa­reb­be sta­to in gra­do di fa­re ciò che fa­ce­va lui, an­che per la me­mo­ria che ave­va, per la sua ca­pa­ci­tà di ela­bo­ra­zio­ne, di met­te­re in re­te le per­so­ne, pe­rò il prin­ci­pio di met­ter­si in­sie­me, di pro­get­ta­re e rea­liz­za­re, an­che se con nuo­vi stru­men­ti, noi l’ab­bia­mo adot­ta­to e, per quan­to è pos­si­bi­le, og­gi lo ab­bia­mo mol­ti­pli­ca­to. Ve­den­do co­sa suc­ce­de­va a Par­ti­ni­co e a Trap­pe­to ne­gli an­ni 60, 70, il “Bor­go”, il cen­tro edu­ca­ti­vo di Mir­to, mi chie­de­vo -e ne par­la­vo an­che con pa­pà- quan­to con­tas­se il fat­to che ci fos­se una per­so­na ca­ri­sma­ti­ca, pro­prio aven­do pre­sen­te il ri­schio che do­po di lui po­tes­se crol­la­re tut­to. In­ve­ce quel­la mo­da­li­tà, quel­la ma­ieu­ti­ca re­ci­pro­ca, l’au­toa­na­li­si po­po­la­re de­gli an­ni Ses­san­ta, si è ri­ve­la­ta pie­na­men­te ri­pro­po­ni­bi­le an­che da par­te no­stra, an­che se ho im­pie­ga­to due an­ni a tro­va­re il co­rag­gio di pro­var­ci. Ades­so ho smes­so di suo­na­re; mi de­di­co a tem­po pie­no a tut­to que­sto, sen­za con­si­de­rar­lo né un van­to, né un ob­bli­go, né un’e­re­di­tà. L’ap­proc­cio è sem­pre: co­sa c’è da fa­re? In quan­ti sia­mo? Be­ne, rim­boc­chia­mo­ci le ma­ni­che. Po­ter por­ta­re avan­ti que­sta co­sa è una gran­dis­si­ma sod­di­sfa­zio­ne. Mi sa­reb­be di­spia­ciu­to mol­tis­si­mo che, non es­sen­do­ci più pa­pà e Fran­co Ala­sio, ri­ma­nes­se cer­to il ri­cor­do, l’am­mi­ra­zio­ne, e pe­rò che tut­to si fer­mas­se lì. In­ve­ce og­gi quel me­to­do vie­ne adot­ta­to in pae­si e con­te­sti com­ple­ta­men­te di­ver­si: Olan­da, Ger­ma­nia, Pa­le­sti­na.
Di­ce­vi che il me­to­do di Da­ni­lo Dol­ci è sta­to adot­ta­to per­fi­no dai po­li­ziot­ti olan­de­si. Puoi rac­con­ta­re?
Ami­co. Noi la­vo­ria­mo con tan­tis­si­me scuo­le, dal­le ele­men­ta­ri al­l’u­ni­ver­si­tà, ma so­prat­tut­to li­cei. Non ci pro­vo nean­che a spie­ga­re co­s’è il la­bo­ra­to­rio ma­ieu­ti­co, per­ché bi­so­gna far­ne espe­rien­za. Il fat­to è che, an­che mol­ti­pli­can­do le oc­ca­sio­ni, si ar­ri­va fi­no a un cer­to pun­to; ci in­te­res­sa­va la pos­si­bi­li­tà che qual­cu­no, in­con­tran­do­ci una pri­ma vol­ta, pro­get­tas­se in­sie­me a noi una se­rie di la­bo­ra­to­ri da pro­por­re poi ad al­tri, so­prat­tut­to nel­l’am­bi­to del­la for­ma­zio­ne de­gli adul­ti. Be­ne, ab­bia­mo fat­to un pro­get­to e nel gi­ro di due an­ni il ri­sul­ta­to è sta­to che, in Olan­da, un bra­vis­si­mo pro­fes­so­re di so­cio­lo­gia ha cam­bia­to il suo cor­so di stu­di con­cen­tran­do­lo sul­l’e­du­ca­zio­ne non vio­len­ta, quin­di Pao­lo Frei­re, Al­do Ca­pi­ti­ni, Ma­ria Mon­tes­so­ri e Da­ni­lo Dol­ci.
Co­sì ab­bia­mo sco­per­to che tra i suoi al­lie­vi c’e­ra un po­li­ziot­to che a sua vol­ta ha pro­po­sto di spe­ri­men­ta­re il me­to­do ma­ieu­ti­co ai suoi com­pa­gni del­la pat­tu­glia, del­la mo­bi­le. Ha det­to: “Ma per­ché non pro­via­mo an­che noi ad an­da­re in que­sto quar­tie­re dif­fi­ci­le e a chie­de­re a lo­ro co­sa si do­vreb­be fa­re”.
Me l’ha rac­con­ta­to per­so­nal­men­te. Ogni vol­ta che en­tra­va­no in que­sti quar­tie­ri, si ri­tro­va­va­no con la mac­chi­na de­va­sta­ta da pie­tra­te, spran­ga­te, ec­ce­te­ra. Ol­tre­tut­to non riu­sci­va­no a ge­sti­re la si­tua­zio­ne. Co­sì si so­no mes­si a chie­de­re ai ra­gaz­zi­ni, an­che di 12-13 an­ni: “Se suc­ce­de un gua­io, voi co­sa ci con­si­glia­te di fa­re? Co­sa pen­sa­te do­vrem­mo fa­re vi­sto che non va be­ne quel­lo che ab­bia­mo fat­to fi­no­ra?”. Que­sto ha ge­ne­ra­to in­tan­to il fat­to che do­po un pa­io di set­ti­ma­ne la mac­chi­na ri­ma­ne­va il­le­sa, non ave­va più bi­so­gno del car­roz­zie­re, ma le au­to­ri­tà, sen­ten­do que­ste re­la­zio­ni, han­no fi­nan­zia­to una spe­ri­men­ta­zio­ne per rea­liz­zar­lo nel­l’in­te­ra con­tea!
Que­st’an­no ave­te fe­steg­gia­to la ria­per­tu­ra del Bor­go di Trap­pe­to.
Ami­co. So­no due an­ni che tut­ti noi, an­che i fa­mi­lia­ri, ci stia­mo im­pe­gnan­do in que­sta co­sa. Il Cen­tro stu­di ave­va ven­du­to il “Bor­go” nel 1996, un an­no pri­ma che pa­pà non ci fos­se più. L’a­ve­va ac­qui­sta­to una coo­pe­ra­ti­va, che pe­rò non ha mai ot­te­nu­to i fi­nan­zia­men­ti per ri­strut­tu­rar­lo e quin­di sta­va an­dan­do in ro­vi­na. Noi ave­va­mo an­che pro­va­to a ca­pi­re se po­te­va­mo in qual­che mo­do in­ter­ve­ni­re, da­re una ma­no, ma sen­za ri­sul­ta­ti. A un cer­to pun­to ab­bia­mo sco­per­to che la coo­pe­ra­ti­va era fal­li­ta. Ma la ve­ra sor­pre­sa è sta­ta un’al­tra: sic­co­me il com­pro­mes­so di ven­di­ta non era sta­to com­ple­ta­to, gli av­vo­ca­ti han­no det­to che noi, in quan­to ere­di, era­va­mo ri­tor­na­ti in pos­ses­so del be­ne. Fi­gu­ra­ti, ci sia­mo su­bi­to det­ti: “Beh, al­lo­ra dob­bia­mo rim­boc­car­ci le ma­ni­che!”. Co­sì, gra­zie a un ban­do del­la “Fon­da­zio­ne con il Sud” che ha stan­zia­to una ci­fra im­por­tan­te, al Cen­tro per lo Svi­lup­po Crea­ti­vo “Da­ni­lo Dol­ci”, a Ce­sie, Li­be­ra e al Co­mu­ne di Trap­pe­to, l’ab­bia­mo re­stau­ra­to e ri­mes­so in fun­zio­ne e ora al bor­go tor­ne­ran­no a es­ser­ci in­con­tri e la­bo­ra­to­ri.
Gli ul­ti­mi an­ni di vo­stro pa­dre?
Chia­ra. Gli ul­ti­mi an­ni lui vi­ve­va da so­lo. Era sem­pre mol­to im­pe­gna­to. Se­re­no, a di­ciot­to an­ni, era ve­nu­to in Si­ci­lia, ave­va bi­so­gno di ri­tro­var­si, tro­va­re pa­pà, star­gli vi­ci­no. Si era iscrit­to al li­ceo ar­ti­sti­co. Quan­do pa­pà par­ti­va lui ve­ni­va a sta­re a ca­sa no­stra o a ca­sa di Li­be­ra.
Quan­do pa­pà c’e­ra gli pro­po­ne­va­mo: “Ve­nia­mo a tro­var­ti?”. Era­va­mo tut­ti mol­to li­be­ri, non c’e­ra il do­ve­re né del­la do­me­ni­ca, né del Na­ta­le. Lo chia­ma­va­mo: “Pa­pà, ti ve­nia­mo a tro­va­re, ci sei? Co­sa por­tia­mo? Pre­pa­ria­mo qual­che co­sa?”. “Che ne di­ci di un ri­sot­to?”. E co­sì ci si ri­tro­va­va.
Pa­pà poi al­la fi­ne ci di­ce­va gra­zie per es­se­re an­da­ti a tro­var­lo, di es­se­re sta­ti in­sie­me. Era­no qua­si sem­pre del­le riu­nio­ni: ognu­no rac­con­ta­va le ul­ti­me espe­rien­ze fat­te, si par­la­va di la­vo­ro. A vol­te gli chie­de­va­mo: “Pa­pà, hai bi­so­gno di qual­co­sa, pren­di me­di­ci­ne? Fai i con­trol­li?”. “No, no, tut­to a po­sto”. Sa­pe­va­mo che lui era mol­to for­te, ci fi­da­va­mo. Ab­bia­mo sba­glia­to.
Nel­l’ul­ti­mo pe­rio­do era an­da­to in Ci­na con Se­re­no e En. Quan­do è tor­na­to si è pre­so una bron­co­pol­mo­ni­te. Il fat­to è che non si cu­ra­va; noi a in­si­ste­re: “Pa­pà, vai, con­trol­la­ti… ti por­tia­mo in ospe­da­le”, “No, no, si ri­sol­ve!”. In­som­ma, si è tra­scu­ra­to. Poi lui non ce l’a­ve­va det­to, ma ave­va il dia­be­te. Al­la fi­ne la co­sa è di­ven­ta­ta più com­pli­ca­ta ed è pre­ci­pi­ta­ta.
Nel­l’ul­ti­mo pe­rio­do Li­be­ra e Ami­co si so­no de­di­ca­ti tan­tis­si­mo a lui, pro­prio fa­ce­va­no tur­ni di do­di­ci ore. Tur­ni este­nuan­ti per­ché lui pen­sa­va sem­pre e so­lo al la­vo­ro; in ospe­da­le fir­ma­va e se ne an­da­va, per­ché lui ave­va i suoi im­pe­gni…
Li­be­ra. Per lui il la­vo­ro si­gni­fi­ca­va in­con­tro con le per­so­ne e vo­le­va ri­spet­ta­re a tut­ti i co­sti gli im­pe­gni che ave­va pre­so.
Ami­co. For­se que­sto è sta­to l’u­ni­co gran­de ve­ro con­flit­to con pa­pà. Nel­l’ul­ti­mo an­no lui pro­prio non com­mi­su­ra­va l’im­pe­gno e il la­vo­ro che de­si­de­ra­va fa­re con le sue con­di­zio­ni di sa­lu­te. Co­sì, adot­tan­do una mo­da­li­tà che lui stes­so ci ave­va in­se­gna­to, in una riu­nio­ne noi fi­gli, tut­ti in­sie­me, ave­va­mo de­ci­so che lui non avreb­be fat­to un viag­gio se non do­po es­ser­si cu­ra­to, met­ten­do in at­to pro­prio una for­ma di “non col­la­bo­ra­zio­ne”. Lui un po’ lo ca­pi­va, e ca­pi­va con che af­fet­to lo fa­ce­va­mo, ma era più for­te di lui. Quel viag­gio non l’ha fat­to, ma ne ha fat­ti al­tri. Per due vol­te è usci­to dal­l’o­spe­da­le con la sua va­li­get­ta da so­lo, a pie­di, do­po es­ser­ci en­tra­to con l’am­bu­lan­za.
Chia­ra. Il 26 di­cem­bre 1997 c’è sta­ta una riu­nio­ne, un pran­zo di la­vo­ro in­sie­me al sin­da­co Gi­gia Can­niz­zo, e a Be­ne­det­to Ze­no­ne, a Par­ti­ni­co. È mor­to tre gior­ni do­po. Ma era an­co­ra nel pie­no del­l’im­pe­gno e del­la sua at­ti­vi­tà. In fon­do ave­va 73 an­ni, era gio­va­ne.
Ami­co. Lui fi­si­ca­men­te era mol­to for­te, fra l’al­tro da gio­va­ne era sta­to piut­to­sto spor­ti­vo. Ogni due-tre an­ni, fa­ce­va un ot­ti­mo check-up in Sviz­ze­ra o da qual­che al­tra par­te, per cui ca­la­va mol­to di pe­so, ri­pren­de­va ener­gie, era ve­ra­men­te un mo­to­re nuo­vo che ri­co­min­cia­va. Ma quel­la vol­ta pro­prio non ce l’ha fat­ta. È ve­ro, era gio­va­ne, pe­rò ha vis­su­to una vi­ta bel­lis­si­ma.
(a cu­ra di Bar­ba­ra Ber­ton­cin e Bet­ti­na Foa.
Per le fo­to rin­gra­zia­mo l’ar­chi­vio del Cen­tro
per lo svi­lup­po crea­ti­vo Da­ni­lo Dol­ci)