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Danilo Dolci nel ricordo dei figli – da “Una città”
intervista ai figli di Danilo Dolci
da Una Città, rivista
TROVATELLI, FIGLI DI CARCERATI, I FAMOSI “CUGINI”
Un padre rigoroso, schietto, lavoratore instancabile, ma anche capace di giocare e divertirsi come un bambino con i figli; le passeggiate al mare all’alba, le gite in macchina per vedere come procedeva la diga; poi i digiuni, le manifestazioni, ma anche la paura che gli succedesse qualcosa; La “maieutica reciproca”, quella passione per le domande, che alimentava, anche nei figli, una curiosità inesauribile per la vita. Il ricordo di Danilo Dolci dei figli Libera, Amico, Chiara ed En.
Libera, Amico, Chiara ed En sono figli di Danilo Dolci e vivono a Palermo.
La vostra era una famiglia numerosa già prima che nasceste…
Amico. La mamma ha incontrato papà che già era vedova con cinque figli. Era andata con la sorella a lavorare su al “Borgo” come volontaria. Lei finiva di stirare le cose per i bambini molto tardi e papà invece si alzava prestissimo per scrivere, leggere, eccetera, così finiva che a volte si incontravano. Si sono conosciuti, stimati, innamorati e sposati. Libera è stata la prima bambina dopo i cinque figli di Vincenzina, ed è stata una festa per tutto il paese. Beh, non proprio per tutti… il prete non li voleva neanche sposare!
Perché? Ma perché i rapporti con una certa Chiesa erano molto difficili: era un mondo poco evangelico e molto colluso con la mafia; queste cose si sapevano e sono ormai appurate.
Tra i primi ricordi della mia infanzia c’è quest’orticello che avevamo e che si annaffiava di sera. Ecco, a parte le conversazioni, la luna che ci teneva compagnia, c’era in sottofondo la musica di Bach. In casa c’erano questi vecchi grammofoni con i dischi che duravano non più di sei, sette minuti per lato, per cui o Turi, o Luciano, insomma un bambino doveva stare di turno e dare la molla al giradischi. Questo contrasto tra la miseria e la poesia, la musica, l’ho sempre trovato affascinante. Per me è sempre stata un’immagine bellissima. Ci si faceva forza anche grazie a queste cose.
Poi ricordo che la gente era sempre lieta, contenta di partecipare alle manifestazioni, anche se all’origine c’erano problemi gravi: il bisogno di scuole nuove, l’ospedale, la fognatura; ogni volta, in quelle occasioni, rivedevamo gente fantastica: Lucio Lombardo Radice, Carlo Levi, Ernesto Treccani, assieme a gente semplicissima e noi bambini che magari, assieme a Franco Alasio, avevamo aiutato a dipingere i cartelloni con le rivendicazioni, eravamo contenti di stare assieme a gente solidale e al contempo gioviale.
Mi ricordo l’atmosfera quasi di festa e che dopo chiedevamo conto sia a Franco che a papà: “Allora, è servito?”. Al tempo della diga centinaia e centinaia di persone avevano bloccato il cantiere per evitare ci fossero infiltrazioni, collusioni con la mafia, e il sindacato, con dietro il centro studi, interrompeva i lavori; per noi anche questo era una festa: andare assieme agli operai la sera tardi, dormire un po’ come si poteva, in qualche brandina. Anche fare i digiuni. Forse chiamarli digiuni è un po’ presuntuoso, ma per bambini di sette, otto anni non mangiare a pranzo per solidarietà era impegnativo. Ricordo tantissimi operai, tantissimi anziani che resistevano, loro digiunavano per quattro, cinque giorni; e questo ha consentito di portare avanti i lavori della diga in maniera assolutamente pulita.
Ricordo che papà ci chiedeva se immaginavamo già il lago in quella parte di campagna dove talvolta andavamo a passeggiare e io dentro di me pensavo: “Ce ne vuole di fantasia per vedere un lago qua!”, era emozionante veder crescere la diga con questi camioncini che in lontananza sembravano giocattoli a movimentare la terra. Facevamo anche delle gite in macchina per vedere quando si cominciavano a chiudere le saracinesche e il rigagnolo diventava un fiumicello, e poi si alzava il livello di questa grande pozzanghera che via via diventava un lago e sommergeva le abitazioni. Quel risultato, così desiderato, ha contribuito a creare in tutti noi la convinzione che ciascuno può, da solo o insieme ad altri, pensare, inventare, organizzare, e poi vedere realizzate certe cose. Per me è quasi una garanzia: se si vuole, se si cercano le giuste strade e le giuste modalità, il successo è assicurato.
Libera, tu sei la primogenita.
Libera. Sono la prima del secondo round, diciamo così. Devo anche subito dire che questo essere la prima di cinque (e poi di sette) figli, se da un lato mi ha responsabilizzato, dall’altro mi ha molto gratificato, perché soprattutto papà -la mamma era un pochino più riservata- non perdeva occasione per farmi sentire importante. Ecco, questa sua attenzione, questo prendersi cura dei più piccoli, di chi è più fragile mi è rimasto nella vita; non a caso ho scelto di fare l’insegnante della scuola d’infanzia.
Comunque è vero: siamo nati in una famiglia numerosa e io sinceramente mi sono sentita accolta da un’affettività incredibile che ancora oggi mi porto dentro. Io ero la prima femminuccia. Maschi erano i figli della mamma, e maschi erano i ragazzi che mio padre aveva raccolto, figli di carcerati, ecc., i famosi “cugini”. Poi c’erano le zie, molto legate alla mamma, soprattutto per la sua vicenda: vedova giovanissima e con cinque figli.
Che tipo di padre era Danilo Dolci?
Libera. Era un padre a volte severo, o meglio rigoroso, e molto franco. Per esempio, a 11 anni -non lo dimenticherò mai- mi disse: “Ma Libera, se continui a comportarti così, c’è il rischio che da grande diventi fascista”. A 11 anni!
Perché cosa avevi fatto?
Libera. Perché volevo fare come facevano le mie compagnette, insomma mi stavo comportando come le pecore, senza pensare con la mia testa, autonomamente, facendomi trascinare. È stato un colpo, però poi quella frase me la sono digerita, rielaborata, e ne ho capito il senso. Ecco, papà preferiva essere diretto, chiaro, dirti le cose come le sentiva.
En invece è l’ultimo nato.
Libera. Sì, io sono la prima, poi Cielo, Amico, Chiara, Daniela, e infine Sereno ed En, che sono figli di Elèna.
Avete tutti nomi molto particolari.
En. Tutti i nostri nomi sono bellissimi. Nel mio c’è proprio la curiosità di papà. In quel periodo, la mamma e il papà erano in un’isolotto svedese che si chiama Gotland e papà, con la sua estrema curiosità, chiedeva i nomi delle cose. A un certo punto ha visto questo albero di ginepro e ne ha chiesto il nome. La mamma ha detto: “En”. Lui è rimasto colpito, gli è piaciuto quel nome, così corto, forte; voleva saperne di più. En significa “uno” e allora lui lo collegava a qualcosa di intero, che non era rotto e così ha detto: “Mi piace, sarebbe un bel nome”; un’idea subito condivisa dalla mamma.
Papà mi ha trasmesso una curiosità per la vita immensa. Il suo era come un continuo innaffiare attraverso le domande, ecco la maieutica; questo poi ti aiutava a cercare in te stesso ma anche fuori. Da piccolo davo tutto questo un po’ per scontato, poi con gli anni mi sono accorto che non funziona così; anche andando a scuola mi sono trovato a pensare che questo invece è il metodo che bisogna applicare sempre: non si dovrebbero imporre delle informazioni, bensì ascoltare il bisogno che si ha di fronte, per poi vedere assieme che cosa si può scoprire.
Era un lavoratore instancabile.
Chiara. Si viveva tutto in maniera intensa con papà, anche il rapporto con il lavoro: lui si alzava al mattino prestissimo. È stato un grandissimo esempio per noi, anche se io ho avuto spesso paura per lui. Sapevamo che c’era una certa dose di pericolo, eravamo stati preparati: non potevamo seguire chiunque ci volesse invitare; il numero del telefono di casa era segreto, non lo davamo e noi stessi lo usavamo solo per emergenza.
Anche se era già stato minacciato, l’ufficio di papà era sempre aperto a tutti e chiunque poteva entrare, . Siccome io andavo a scuola il pomeriggio, la mattina gli portavo la colazione. Papà usciva alle quattro, a volte anche prima, e allora, soprattutto d’inverno, dopo qualche ora magari aveva bisogno di qualcosa di caldo. Allora, verso le otto gli portavo mezzo filoncino, un pezzettino di pane fresco e un thermos con un po’ di caffelatte, e ogni volta ero terrorizzata perché le porte erano aperte… Avevamo visto questi film sulla mafia e mi erano rimaste impresse quelle immagini; così quando entravo dicevo: “Papà? Papà?”, e lui: “Sono qui amorizza, sono qui”. Quando lo sentivo potevo tirare il fiato, pensavo: “È andata bene anche oggi”.
È una cosa che non gli ho mai detto e che non ho raccontato a nessuno, ma ero veramente terrorizzata. Pensavo di essere io troppo apprensiva, poi mi vergognavo, e comunque non potevo dirlo, perché era una cosa necessaria, era giusto farlo.
Dall’altra parte facevamo tantissime cose belle assieme: andavamo al mare a fare le passeggiate, sulle montagne di Alcamo a vedere i ciclamini e i fiori che altri bambini non avevano la possibilità di vedere. Pensa che a Partinico, che dista dal mare circa otto chilometri, i compagni di classe non avevano mai visto il mare, invece noi ci andavamo regolarmente. A casa di papà non esisteva la parola vacanza, perché era un tutt’uno: si lavorava intensamente, si facevano le ore di studio, anche a Natale e a Capodanno e poi però si andava al mare. Si studiava anche la domenica. Papà diceva sempre: “I figli dei contadini non fanno vacanza”.
Libera. Da un certo momento in poi, io avevo cominciato ad andare con lui alle quattro di mattina. Il pensiero di stare con papà per me era bellissimo. Lungo il percorso guardavamo le stelle, prendevamo i giornali, che a quell’ora arrivavano da Palermo, lui mi raccontava delle sue cose, io delle mie… Poi lui lavorava e io studiavo. A me piaceva moltissimo scrivere, ero appassionata dei classici e lui mi ha insegnato tante cose, infatti al liceo nei temi prendevo dieci. E tutti a dire: “Hai un dono di natura, l’hai ereditato da tuo padre”. E io tra me e me a pensare: “Ma quale dono?! Me lo sono sudato!”. Perché dietro c’era tanto lavoro fatto con papà, lavoro di scrittura, di guardare insieme il fraseggio, ma anche di studio dei testi. La mia insegnante di Lettere ad esempio spiegava Dante in una maniera che me lo ha reso insopportabile. L’ho riscoperto con papà. Lui mi citava a memoria dei versi, facendo il vocione quando impersonava Cerbero… Era molto giocherellone. I libri che abbiamo letto, nella nostra adolescenza e fanciullezza, non li abbiamo mai letti per conto della scuola, anzi. La scuola un poco ci limitava. Lui, come diceva bene En, ci ha proprio insegnato la curiosità.
Vi trattava da grandi.
Chiara. Da piccoli mi ricordo che ognuno aveva una propria scrivania; io e Daniela dividevamo la stanza e Libera aveva la stanza da sola. Ci diceva: “Adesso avete del tempo a disposizione, ognuno lo usi per sé, per pensare”. Io ero molto piccola e mi dicevo: “Bene, adesso devo pensare, ma a cosa devo pensare?!”.
Anche nella quotidianità, ognuno aveva un proprio compito in casa.
Nonostante tutti gli impegni era molto presente come padre.
Chiara. Sì, e giocava molto con noi.
Libera. Però le regole erano chiare. E non venivano neanche dette, venivano agite. Anche il fatto che noi fossimo maschi e femmine non significava niente, rispetto al fatto che a turno lavavamo i piatti, a turno apparecchiavamo, e ognuno si faceva il proprio letto. Non è che lui o la mamma ci dicesse: “Oggi rifate il letto”, o: “Oggi lavi i piatti”, erano, come potrei chiamarle, delle regole implicite che noi avevamo appreso attraverso il loro esempio. Questo ovviamente non significa che fossimo felici e contenti di lavare i piatti, soprattutto per 30-40 persone, assolutamente no! Però poi è diventato un habitus, uno stile di vita.
C’era sempre questo “rigore”, ma poi lui era il primo che, per esempio, si metteva sotto il tavolo e imitava il cane, mentre chiedeva a me di imitare la mucca e a mia sorella Chiara di imitare un’amica nostra che veniva dalla Svezia. Insomma ci divertivamo tanto. Anche al mare, noi abbiamo imparato subito a nuotare, allora lui faceva da trampolino e ci faceva fare i tuffi… e poi ci raccontavamo le barzellette, soprattutto Amico ne inventava… E poi la musica: ne facevamo di tutti i colori, battendo coperchi, sfregando grattugie, e lui era il primo a divertirsi.
Chiara. Spesso non c’era perché viaggiava tantissimo, ma quando c’era era molto presente. Quando abbiamo cominciato a fare musica, veniva a tutte le lezioni perché era interessatissimo. Penso che a questa cosa ci tenesse in modo particolare, che facessimo musica. Ricordo che alle medie, quando tornavo da scuola, lo trovavo che riposava un poco prima di ritornare al lavoro al centro e allora mi diceva: “Suoniamo insieme”, e certe volte io morivo di fame, però poi, crescendo, ripensandoci mi sono detta: “Ma chi glielo faceva fare di dedicare tempo a una ragazzina principiante con il suo violino?”.
Lui che strumento suonava?
Chiara. L’organo. Aveva studiato con l’organista al Duomo di Milano. Lui ci teneva tantissimo a far musica. Ricordo che certe mattine con la mamma andavamo a fare la spesa e passavamo davanti a questa chiesa dove papà aveva il permesso di andare ogni tanto a suonare l’organo… era impressionante sentire questo suono immenso. Era bravo, aveva anche una buona prima vista. D’altra parte in qualsiasi cosa si cimentasse lo faceva con grande impegno. A un certo punto ci fu una riunione familiare in cui si prese la decisione di comprare un organo con due tastiere, elettrico, così lui ogni domenica mattina ci svegliava con “La fuga di Bach”. Era bravo perché suonava proprio con la pedaliera… i vetri vibravano tutti!
Riguardo lo studio, era esigente?
Amico. Già alla scuola elementare io ho avuto alti e bassi. In prima elementare avevo questa maestra, quasi nonna, una chioccia a cui io ero affezionatissimo. Uno degli episodi che me l’avevano fatta ammirare tantissimo è che un giorno io sonnecchiavo visibilmente, proprio con la testa appoggiata a un braccio; sonnecchiavo, ma qualcosa sentivo; a un certo punto uno dei miei compagni dice: “Maestra, maestra, Dolci dorme”, e io a pensare che mi avrebbe rimproverato e lei, invece: “Sarà stanco, lasciatelo dormire!”. In seconda e terza elementare dei maestri tremendi, uno sicuramente fascista che ci picchiava con la bacchetta. Un giorno l’ho detto a papà che non ci credeva. Eravamo a metà anni Sessanta: papà venne a scuola e non so cosa si siano detti, però non è mai più successo. In quarta e quinta elementare invece avevamo un maestro giovanissimo, grazie al quale all’improvviso tutta la classe era diventata bravissima.
Era un ragazzo motivato, aveva fatto la scelta del mestiere per passione; all’inizio l’avevamo preso un po’ per un tontolone, uno a cui potevamo fare di tutto perché non ci rimproverava né ci picchiava. Invece era bravissimo, ci appassionava. Usava il registratore per insegnarci la storia. Io un giorno ero diventato Luigi XVI e c’era la compagnetta che faceva la regina e poi ascoltavamo queste nostre registrazioni e lui faceva il galoppo del cavallo e gli altri suoni, incredibile! Quando ci interrogava sapevamo tutto. Poi ci faceva fare delle cosucce in legno, piantare i semini e ci spiegava come funzionavano le foglie; era un piccolo laboratorio.
Alla scuola media punto e a capo: non mi entusiasmava. Poi c’era il fatto dell’esonero dalla religione. Papà avrebbe dovuto venire a scuola; figurati! Andava a lavorare sempre più presto, tornava a casa alle undici per mangiare e riposare per tre quarti d’ora. Pensa che quando si alzava, si rifaceva la barba perché ormai la prima giornata era andata via, e tornava in ufficio.
Un giorno lo vedo che spunta con il giornale: “Dov’è che devo andare?”. “Papà ti accompagno”. Incontriamo questa persona che gli dà le istruzioni: “Ecco il modulo, scriva qua, Illustrissimo Signor Preside…”. “Ma quale illustrissimo, ma chi lo conosce?!?”. Io temevo succedesse un dramma, invece poi con il preside sono diventati amicissimi.
Libera. Con questo fatto di non essere battezzati, a scuola avevamo un po’ di difficoltà con i compagnetti, ma soprattutto con i genitori dei compagnetti. Mi ricordo che ero in seconda media, seduta in banco con la mia amica del cuore -a quell’età le cose ti rimangono dentro, indelebili- e a un certo punto bussano alla porta ed entra la mamma di questa amichetta, che dice davanti a tutta la classe: “Professoressa, non c’a mittisse ’a Dolci vicino a mi figghia, perché loro sono porci”, perché il non essere cristiani all’epoca era una disgrazia. Cinquant’anni fa, a Partinico erano queste le cose importanti della vita: il battesimo, il matrimonio. Puoi immaginare…
Amico. Per tornare allo studio, a me non interessava un granché, però in questo sentivo quasi la complicità di papà. Mi diceva: “Vabbé, un po’ di pazienza, fai il minimo indispensabile così poi sei libero”.
Quando invece mi sono iscritto al conservatorio, neanche mi accorgevo di quanto tempo passassi a studiare e a esercitarmi. Il flauto era proprio una passione. Da lì in poi papà non si è più preoccupato, anzi mi diceva: “Vabbé, ma non studiare troppo!”.
Comunque è vero, con lui non esisteva domenica o vacanza. Per dire, poteva capitare di andare al mare anche alle quattro di mattina, perché papà aveva quella giornata libera e lo poteva fare.
Amico. Alle quattro il mare è calmo e alle nove, quando si faceva grosso, si rientrava.
Chiara. Avevamo anche il rito del primo bagno, che si faceva a Pasqua: qualunque fosse il tempo si faceva il bagno, anche in mezzo ai fulmini.
Amico. Questo piacere di stare tutti al mare o in campagna, ma anche in montagna, era qualcosa di estraneo ai nostri compagni di scuola; per loro la campagna era soltanto il lavoro, la fatica… Ricordo che alle elementari dovetti anch’io fare il tema “Il lavoro del mio babbo”. A parte che io non avevo capito certi vocaboli, come “sociologo”, comunque non sapevo descrivere l’attività di papà; invidiavo il figlio del falegname, del macellaio, del farmacista, e quindi ero arrivato alla conclusione: “Papà è uno che aiuta gli altri…”, ma questo è un mestiere?
Chiara. Da papà abbiamo imparato un grande rispetto per i contadini e per tutte le persone che lavorano duramente. Ricordo questo pescatore che era stato in Alaska e che aveva una straordinaria conoscenza del cielo e papà gli aveva fatto organizzare un seminario sulle stelle.
Amico. Per papà quello che contava era di fare bene le cose; ci diceva sempre: “Qualsiasi cosa, io sono con voi”. Poteva condividere qualsiasi scelta, di studio, di vita, purché facessimo le cose al meglio.
Chiara. Per lui contavano l’impegno, la preparazione seria e approfondita; il diploma, il pezzo di carta erano proprio una cosa che non gli interessava per niente.
Che rapporti avevate con i figli del primo matrimonio di vostra madre?
Amico. Ricordo uno dei primi Natali in cui eravamo “solo” noi, cioè i dieci figli di mamma e le prime fidanzatine (ovviamente coi rispettivi genitori altrimenti non sarebbero venute!); eravamo trentadue a tavola.
Avevamo un ottimo rapporto con tutti. A me dava molto fastidio, quando andavamo alle scuole elementari, sentir dire “fratellastri”. Noi poi avevamo tantissimi cugini che in seguito chiedendo alla mamma: “Ma in che senso Tizio è cugino nostro?”, abbiamo saputo che in effetti non erano cugini, ma trovatelli, orfani, che tenevano al “Borgo”… Riguardo ai figli di Vincenzina, io ho sempre avuto un rapporto più personale con il più grande, Turi, e con il più piccolo, Luciano; gli altri erano in Svizzera e in Germania; poi c’era Pino, che è venuto a mancare molto giovane. Con Luciano facciamo delle cose insieme per il “Borgo”, con gli altri ci siamo un po’ persi di vista. Ora però abbiamo recuperato alla Sicilia En. Sereno è rimasto in Svezia.
Voi siete impegnati, soprattutto con il Centro per lo Sviluppo Creativo “Danilo Dolci”, a far conoscere quel suo metodo così particolare.
Amico. Sono passati sedici anni da quando papà non c’è più. Io ho avuto un rapporto molto bello con papà, schietto, diretto, sincerissimo. Ci ha unito anche la musica, la poesia e in età adulta uno stretto rapporto di collaborazione: abbiamo fatto molti viaggi insieme per raccogliere fondi, anche all’estero. Questo mi dava la proporzione del suo impegno. Abbiamo sempre saputo che nessuno di noi sarebbe stato in grado di fare ciò che faceva lui, anche per la memoria che aveva, per la sua capacità di elaborazione, di mettere in rete le persone, però il principio di mettersi insieme, di progettare e realizzare, anche se con nuovi strumenti, noi l’abbiamo adottato e, per quanto è possibile, oggi lo abbiamo moltiplicato. Vedendo cosa succedeva a Partinico e a Trappeto negli anni 60, 70, il “Borgo”, il centro educativo di Mirto, mi chiedevo -e ne parlavo anche con papà- quanto contasse il fatto che ci fosse una persona carismatica, proprio avendo presente il rischio che dopo di lui potesse crollare tutto. Invece quella modalità, quella maieutica reciproca, l’autoanalisi popolare degli anni Sessanta, si è rivelata pienamente riproponibile anche da parte nostra, anche se ho impiegato due anni a trovare il coraggio di provarci. Adesso ho smesso di suonare; mi dedico a tempo pieno a tutto questo, senza considerarlo né un vanto, né un obbligo, né un’eredità. L’approccio è sempre: cosa c’è da fare? In quanti siamo? Bene, rimbocchiamoci le maniche. Poter portare avanti questa cosa è una grandissima soddisfazione. Mi sarebbe dispiaciuto moltissimo che, non essendoci più papà e Franco Alasio, rimanesse certo il ricordo, l’ammirazione, e però che tutto si fermasse lì. Invece oggi quel metodo viene adottato in paesi e contesti completamente diversi: Olanda, Germania, Palestina.
Dicevi che il metodo di Danilo Dolci è stato adottato perfino dai poliziotti olandesi. Puoi raccontare?
Amico. Noi lavoriamo con tantissime scuole, dalle elementari all’università, ma soprattutto licei. Non ci provo neanche a spiegare cos’è il laboratorio maieutico, perché bisogna farne esperienza. Il fatto è che, anche moltiplicando le occasioni, si arriva fino a un certo punto; ci interessava la possibilità che qualcuno, incontrandoci una prima volta, progettasse insieme a noi una serie di laboratori da proporre poi ad altri, soprattutto nell’ambito della formazione degli adulti. Bene, abbiamo fatto un progetto e nel giro di due anni il risultato è stato che, in Olanda, un bravissimo professore di sociologia ha cambiato il suo corso di studi concentrandolo sull’educazione non violenta, quindi Paolo Freire, Aldo Capitini, Maria Montessori e Danilo Dolci.
Così abbiamo scoperto che tra i suoi allievi c’era un poliziotto che a sua volta ha proposto di sperimentare il metodo maieutico ai suoi compagni della pattuglia, della mobile. Ha detto: “Ma perché non proviamo anche noi ad andare in questo quartiere difficile e a chiedere a loro cosa si dovrebbe fare”.
Me l’ha raccontato personalmente. Ogni volta che entravano in questi quartieri, si ritrovavano con la macchina devastata da pietrate, sprangate, eccetera. Oltretutto non riuscivano a gestire la situazione. Così si sono messi a chiedere ai ragazzini, anche di 12-13 anni: “Se succede un guaio, voi cosa ci consigliate di fare? Cosa pensate dovremmo fare visto che non va bene quello che abbiamo fatto finora?”. Questo ha generato intanto il fatto che dopo un paio di settimane la macchina rimaneva illesa, non aveva più bisogno del carrozziere, ma le autorità, sentendo queste relazioni, hanno finanziato una sperimentazione per realizzarlo nell’intera contea!
Quest’anno avete festeggiato la riapertura del Borgo di Trappeto.
Amico. Sono due anni che tutti noi, anche i familiari, ci stiamo impegnando in questa cosa. Il Centro studi aveva venduto il “Borgo” nel 1996, un anno prima che papà non ci fosse più. L’aveva acquistato una cooperativa, che però non ha mai ottenuto i finanziamenti per ristrutturarlo e quindi stava andando in rovina. Noi avevamo anche provato a capire se potevamo in qualche modo intervenire, dare una mano, ma senza risultati. A un certo punto abbiamo scoperto che la cooperativa era fallita. Ma la vera sorpresa è stata un’altra: siccome il compromesso di vendita non era stato completato, gli avvocati hanno detto che noi, in quanto eredi, eravamo ritornati in possesso del bene. Figurati, ci siamo subito detti: “Beh, allora dobbiamo rimboccarci le maniche!”. Così, grazie a un bando della “Fondazione con il Sud” che ha stanziato una cifra importante, al Centro per lo Sviluppo Creativo “Danilo Dolci”, a Cesie, Libera e al Comune di Trappeto, l’abbiamo restaurato e rimesso in funzione e ora al borgo torneranno a esserci incontri e laboratori.
Gli ultimi anni di vostro padre?
Chiara. Gli ultimi anni lui viveva da solo. Era sempre molto impegnato. Sereno, a diciotto anni, era venuto in Sicilia, aveva bisogno di ritrovarsi, trovare papà, stargli vicino. Si era iscritto al liceo artistico. Quando papà partiva lui veniva a stare a casa nostra o a casa di Libera.
Quando papà c’era gli proponevamo: “Veniamo a trovarti?”. Eravamo tutti molto liberi, non c’era il dovere né della domenica, né del Natale. Lo chiamavamo: “Papà, ti veniamo a trovare, ci sei? Cosa portiamo? Prepariamo qualche cosa?”. “Che ne dici di un risotto?”. E così ci si ritrovava.
Papà poi alla fine ci diceva grazie per essere andati a trovarlo, di essere stati insieme. Erano quasi sempre delle riunioni: ognuno raccontava le ultime esperienze fatte, si parlava di lavoro. A volte gli chiedevamo: “Papà, hai bisogno di qualcosa, prendi medicine? Fai i controlli?”. “No, no, tutto a posto”. Sapevamo che lui era molto forte, ci fidavamo. Abbiamo sbagliato.
Nell’ultimo periodo era andato in Cina con Sereno e En. Quando è tornato si è preso una broncopolmonite. Il fatto è che non si curava; noi a insistere: “Papà, vai, controllati… ti portiamo in ospedale”, “No, no, si risolve!”. Insomma, si è trascurato. Poi lui non ce l’aveva detto, ma aveva il diabete. Alla fine la cosa è diventata più complicata ed è precipitata.
Nell’ultimo periodo Libera e Amico si sono dedicati tantissimo a lui, proprio facevano turni di dodici ore. Turni estenuanti perché lui pensava sempre e solo al lavoro; in ospedale firmava e se ne andava, perché lui aveva i suoi impegni…
Libera. Per lui il lavoro significava incontro con le persone e voleva rispettare a tutti i costi gli impegni che aveva preso.
Amico. Forse questo è stato l’unico grande vero conflitto con papà. Nell’ultimo anno lui proprio non commisurava l’impegno e il lavoro che desiderava fare con le sue condizioni di salute. Così, adottando una modalità che lui stesso ci aveva insegnato, in una riunione noi figli, tutti insieme, avevamo deciso che lui non avrebbe fatto un viaggio se non dopo essersi curato, mettendo in atto proprio una forma di “non collaborazione”. Lui un po’ lo capiva, e capiva con che affetto lo facevamo, ma era più forte di lui. Quel viaggio non l’ha fatto, ma ne ha fatti altri. Per due volte è uscito dall’ospedale con la sua valigetta da solo, a piedi, dopo esserci entrato con l’ambulanza.
Chiara. Il 26 dicembre 1997 c’è stata una riunione, un pranzo di lavoro insieme al sindaco Gigia Cannizzo, e a Benedetto Zenone, a Partinico. È morto tre giorni dopo. Ma era ancora nel pieno dell’impegno e della sua attività. In fondo aveva 73 anni, era giovane.
Amico. Lui fisicamente era molto forte, fra l’altro da giovane era stato piuttosto sportivo. Ogni due-tre anni, faceva un ottimo check-up in Svizzera o da qualche altra parte, per cui calava molto di peso, riprendeva energie, era veramente un motore nuovo che ricominciava. Ma quella volta proprio non ce l’ha fatta. È vero, era giovane, però ha vissuto una vita bellissima.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa.
Per le foto ringraziamo l’archivio del Centro
per lo sviluppo creativo Danilo Dolci)